E’ davvero singolare che la Banca d’Italia, in modo conclamato poco efficace nel compiere il lavoro che le è proprio, ad esempio prevenire e porre rimedio a devastanti crisi bancarie come quella del Monte dei Paschi, o di banca Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara e Cari Chieti, sia assurta ad “autorevole esperto” in tema di lavoro pubblico.
Da qualche tempo, Bankitalia viene continuamente citata dai giornali per effetto di studi sul lavoro pubblico, l’ultimo dei quali è l’occasional paper n. 342 “Incentivi e selezione nel pubblico impiego”.
Per molti media, lo studio appare un oracolo infallibile, soprattutto perché rende possibili letture ed interpretazioni di comodo: quelle, cioè, che consentano di proseguire ed approfondire la campagna di denigrazione a prescindere di tutto ciò che è “pubblico”, in opera da decenni. Nel caso di specie, in particolare, lo studio fornisce l’occasione agli ineffabili giornalisti italiani di scagliarsi contro il sistema dei “concorsi”, oggetto, chissà perché, da molto tempo di strali e critiche. Proprio non va al sistema-Italia che qualcuno possa reperire lavoro senza ricorrere ad un sistema di amicizie o favori, ovviamente nella misura in cui i concorsi garantiscano effettivamente una selezione imparziale e non soggetta a condizionamenti.
Sicchè il Quotidiano Nazionale dell1.8.2016, nell’articolo «Bankitalia boccia i concorsi pubblici. “Sfavoriti i candidati migliori”» vuol dare l’idea, ben descritta dal titolo, che nella PA trovano ingresso, tramite i concorsi, solo i peggiori. E il corpo dell’articolo non è da meno nell’affermare che lo studio “ mette in fila tutte le «criticità» del meccanismo di reclutamento made in Italy e i punti deboli che emergono sono parecchi. Primo: «L'elevato grado di rigidità, con prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche». Secondo: i tempi di studio che, si legge nel dossier, per ogni assunto sono in «media circa 5 mesi» per sostenere la prova. Terzo: «Oltre il 45% degli assunti ha solo studiato per il periodo del concorso, non svolgendo altra attività lavorativa». Considerando che nel 2014 ben 28 mila persone hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il «costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro Fanno». Prezzi salati che «possono disincentivare i candidati più capaci», generando «piuttosto un vantaggio per coloro che hanno più tempo da dedicare alla preparazione della prova (generalmente i non occupati)». Altra nota dolente deriva dalla prevalenza di quesiti «nozionistici» che può - riportano i ricercatori - «inibire la capacità dei responsabili dell'organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca» ”.
Leggendo e riportando con completezza i contenuti dello studio, invece, le conclusioni sono sicuramente altre.
Per un verso, occorre sottolineare, senza nulla togliere all’opera di ricerca degli autori, che lo studio appare caratterizzato da un bassissimo contenuto di novità dei dati rilevati. Molte delle osservazioni contenute nello studio sono assolutamente banali e note da tempo, come la circostanza che i concorsi pubblici, basati su prove strutturate e nozionistiche, favoriscano l’ingresso nel settore pubblico di professionalità generaliste e non specialistiche.
Manca nello studio una riflessione su questo elemento: non ci si chiede, cioè, come mai prevalgano queste figure generaliste (con la conseguente modalità selettiva del concorso) rispetto a quelle specialistiche. Eppure, questa domanda dovrebbe essere centrale per fornire la spiegazione. Lo studio, a differenza di quanto riportano i media, non si mostra per nulla sfavorevole al concorso strutturato per figure generaliste, ma, ragionando su un piano economicistico-aziendale (cosa sbagliatissima se l’oggetto dell’analisi è una pubblica amministrazione e non un’azienda) osserva che sarebbe meglio puntare su figure altamente specializzate, estremamente necessarie nella PA, come esperti di public procurement, oppure esperti informatici, analisti con avanzate capacità quantitative ed esperti di policy evaluation.
Ma, gli estensori dello studio probabilmente ignorano alcuni elementi fondamentali. Il cosiddetto public procurement, che in italiano banalissimo è null’altro che il procedimento di acquisizione di beni, servizi e lavori pubblici, è regolatissimo in ogni minimo dettaglio dalla legge (e, purtroppo, non solo, essendovi la new entry delle linee guida Anac). Le acquisizioni pubbliche impongono una cultura generalista che non sia limitata alla sola analisi del mercato e delle prestazioni (pur necessari), ma richiede una competenza estesa a contrattualistica pubblica, contabilità di Stato, procedimento amministrativo, normativa anticorruzione. Un “esperto di public procurement” che non disponga delle nozioni minime generali di natura amministrativa e che caratterizzano in modo trasversale la competenza di ogni dipendente pubblico (anche l’assistente sociale, oppure l’esperto informatico, debbono conoscere il sistema delle responsabilità del tutto peculiari della pubblica amministrazione, l’ordinamento giuridico, le fonti, il procedimento amministrativo, la privacy) non può svolgere in modo utile per l’ente le proprie mansioni.
La PA, per come organizzate e, soprattutto, per come è soggetta ad un diluvio di formazione ed interpretazione di regole minute reso ancora più intricato non solo dall’iperlegislazione ma anche per il proliferare di circolar pareri, linee guida, risoluzioni, interpelli e chi più ne ha più ne metta, ha estrema difficoltà a dotarsi di figure professionali solo verticali.
Altro esempio di osservazione totalmente banale dello studio: i concorsi tendono a selezionare quantitativamente in modo maggiore i candidati nei grandi centri, a discapito della periferia, ove concorrono candidati in minor numero. Ma, ci voleva uno studio della Banca d’Italia per apprendere questo dato del tutto scontato?
Non risulta, comunque, fondata l’osservazione proposta dall’articolo de il Quotidiano Nazionale secondo cui Bankitalia boccerebbe il concorso pubblico. Al contrario, lo studio osserva che in realtà come purtroppo è quella italiana, caratterizzate da una forte presenza di clientelismo, il grado di trasparenza connesso a procedure formali ed imparziali come quelle concorsuali si manifesta come opportuno e necessario. Semmai, appare molto utile il richiamo dello studio, all’opportunità di utilizzare e strutturare meglio il periodo di prova, come sistema per verificare le caratteristiche individuali non osservabili col concorso.
Lo studio, comunque, non appare per nulla così favorevole alla riforma-Madia, come sempre l’articolo citato de il Quotidiano Nazionale vorrebbe far apparire, laddove scrive “ le misure previste nella legge delega «appaiono, nel complesso, indicare l'avvenuta individuazione della problematicità di aspetti analizzati», si riconosce nel dossier ”.
In realtà, il giudizio degli analisti è molto più caustico. Infatti, leggendolo con attenzione si scopre che secondo gli autori “ sebbene le novità introdotte dal legislatore muovano, in diverse dimensioni, in una direzione coerente con i risultati sopra esposti, la riforma non pare in grado di incidere su alcuni snodi cruciali ”.
In sostanza, il dossier evidenzia che la riforma sarebbe partita dall’osservazione di alcuni aspetti (l’opportunità di accentrare le procedure selettive, sì da ridurre il numero dei bandi, e, soprattutto, la necessità di diminuire sensibilmente la quantità degli idonei, così da permettere una programmazione più continua dei concorsi, una certa prevalenza della prova pratica su quella teorica), ma non tocca in maniera davvero efficace i problemi sollevati dagli autori. Infatti, secondo il dossier, in merito alle disposizioni della legge 124/2015 si tratta “ di interventi che non introducono sufficienti elementi di flessibilità e differenziazione delle prove concorsuali (cfr. paragrafo 4). In primo luogo, non emerge una differenziazione delle prove in relazione al profilo da assumere, che consenta di graduare la prova a seconda del livello e della complessità della posizione da ricoprire. In secondo luogo, lo svolgimento di concorsi solo in forma centralizzata o aggregata, efficiente per procedere all’assunzione di professionalità generaliste, potrebbe non assicurare la flessibilità necessaria per assumere professionalità specifiche e, come evidenziato nei paragrafi precedenti, non garantire un adeguato match tra profili professionali e mansioni da svolgere, generando effetti di auto-selezione avversa. Inoltre, il pur previsto maggiore orientamento verso le prove pratiche non sembra includere forme di selezione continuativa, sul modello della tenure track, in grado di consentire una migliore verifica del possesso, da parte dei candidati, di specifiche competenze tecnico-operative e di soft skill ”.
Dunque, se lo studio di Bankitalia alla fine altro non è se non un insieme di informazioni trite e ritrite e per nulla il peana alle meraviglie della riforma, perché presentarlo, invece, come una bocciatura dei concorsi pubblici?
La risposta è molto semplice e va ricercata nelle critiche al sistema dei concorsi provenienti da esponenti del Governo stesso e, comunque, all’atteggiamento fortemente ostile a sistemi di reclutamento di natura indipendente da parte della politica.
Con specifico riferimento alla dirigenza pubblica, del resto, la riforma indicata dalla legge 124/2015 va in modo chiarissimo verso un’estensione estrema dello spoil system a tutto vantaggio dell’arbitrio politico nella scelta dei dirigenti.
Il recente decreto sulla dirigenza sanitaria è la riprova. Viene propagandato come strumento di eliminazione dell’ingerenza della politica nella dirigenza, ma è esattamente il contrario. E’ vero che vi sarà una commissione nazionale, presunta indipendente (ma i cui componenti saranno di nomina politica), che avrà il compito di accreditare i direttori generali nel ruolo unico nazionale. Altrettanto vero è, poi, che saranno commissioni (sempre definite “indipendenti”) regionali cui sarà affidato il compito di “selezionare” i candidati che risponderanno agli avvisi. Ma, queste commissioni non faranno altro che fornire ai presidenti delle regioni rose di candidati. La scelta di colui da incaricare sarà totalmente arbitraria e da non motivare. La “mediazione”, dunque, continuerà ovviamente ad operare su due piani. I dirigenti dovranno cercare di “affiliarsi”, per ottenere viatici ed un maggior numero di semafori verdi. I presidenti delle regioni avranno la necessità di rapportarsi con i referenti politici delle commissioni “indipendenti”, per fare sì che nelle “rose” siano presenti sempre i candidati “di fiducia”.
Tutto un sistema, che in gran parte riguarderà il resto della dirigenza pubblica, finalizzato a dare l’impressione di attribuire gli incarichi in base a valutazioni “rigorose” dei curriculumo, delle soft skill, dell’esperienza, ma che si presterà facilmente a quelle intermediazioni clientelari che proprio la Banca d’Italia riconosce essere una pericolosissima palla al piede del sistema-Italia.
Alla fine, la critica continua dei media, che fanno da grancassa al Governo, ai concorsi, servirà solo per legittimare nell’opinione pubblica, prima ancora che nell’ordinamento, il sistema di reclutamento sul modello Poste Italiane. Sì, quello che consente di selezionare su Linkedin una decina di “profili”, tutti indiscutibilmente di elevato livello, ci mancherebbe, così da permettere senza troppi sforzi nemmeno di motivare la decisione di scegliere, guarda il caso, qualche “fratello di”, oppure amico, parente, sodale, e, come direbbe Totò, “affine”. Che Linkedin sia, dunque, specie per chi avversa i concorsi perché proprio non riesce a concepire un ingresso nel mondo del lavoro, specie pubblico, non controllato dalle tessere di partito.
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