lunedì 4 luglio 2016

Riforma della dirigenza: dirigenti di “fiducia” di Chi? Dei cittadini o di chi è al potere di turno?


Nonostante il Governo e molti autori “di area” sostengano il contrario, è acclarato il dato che la riforma Madia, la legge 124/2015 e, in particolare, l’articolo 11 prefigura una formidabile precarizzazione della dirigenza, spingendo quanto più possibile per la creazione di una dirigenza pubblica “di fiducia” della politica.

I cardini di questo passaggio sono i seguenti:
1. l’assegnazione dell’incarico dirigenziale ai dirigenti appartenenti ai ruoli unici come solo eventuale e non obbligatoria (come ci si aspetterebbe essendovi un ruolo unico);
2. la possibilità che alle procedure per l’assegnazione degli incarichi dirigenziali partecipi anche chi non fa parte del ruolo unico (che, dunque, non è affatto unico);
3. la possibilità di continuare ad assegnare incarichi dirigenziali “a contratto” per almeno il 10% dei posti in dotazione;
4. la durata necessariamente limitata degli incarichi: 4 anni, eventualmente “rinnovabili” (ma, in realtà si tratta di una proroga) di altri 2, dopo di che sarà necessario per i dirigenti passare nuovamente per le procedure di assegnazione degli incarichi, anche per restare presso la stessa amministrazione;
5. la possibilità per gli organi di governo di non rinnovare l’incarico;
6. l’assegnazione dei dirigenti privi di incarico “a disposizione” del ruolo unico, con lo stipendio falcidiato; nelle bozze di decreto legislativo attuativo si parla di 6 anni in questo status di concreta mobbizzazione, nel quale a fronte di una sine cure, la retribuzione viene ridotta ben oltre il 50%, ma, comunque, il dirigente viene pagato appunto per nulla fare;
7. la possibilità di licenziare i dirigenti per “consunzione” per mancanza di incarico per il periodo di 6 anni, senza nemmeno dover attivare procedimenti di valutazione negativi;
8. la previsione che gli incarichi saranno assegnati sulla base di procedure di “interpello”, cioè avvisi pubblici, indirizzati ad una commissione che si presuppone “indipendente” (ma organismi direttamente nominati dalla politica indipendenti non possono mai esserlo ontologicamente); tali commissioni, però, non stileranno graduatorie, ma selezioneranno rose di curriculum, tra le quali gli organi di governo potranno scegliere a proprio arbitrio.
Tutto questo armamentario non ha nulla a che vedere con la “meritocrazia”. L’obbligo, infatti, di far cessare gli incarichi al massimo dopo 6 anni, ovviamente, si pone in contraddizione totale ed assoluta con ogni principio secondo il quale gli incarichi si assegnano tenendo conto della valutazione della prestazione svolta dal dirigente presso l’amministrazione di assegnazione.
Si tratta di una volontà di precarizzare in maniera fortissima la dirigenza, allo scopo molto chiaro di ottenere una dirigenza non autonoma, ma “accondiscendente” e, anzi, quanto più possibile “organica” alla politica. Infatti, è facile concludere che vista la scarsa rilevanza che avranno i titoli ottenuti, la sostanziale impossibilità di confrontare le valutazioni totalmente diverse tra amministrazioni varie e l’inutilità dell’esperienza svolta all’interno di una certa amministrazione, saranno le “aderenze”, le “conoscenze” la “capacità di promuoversi”, in una parola le conoscenze e possibilmente le tessere a determinare gli esiti degli incarichi.
Tutto questo viene, al contrario, propagandato come sistema per migliorare la competitività dei dirigenti pubblici nell’ambito di uno specifico mercato del lavoro loro riservato. Non solo: da più parti si rileva un “diritto” della politica a scegliersi i dirigenti di sua “fiducia”.
Tutto sta ad intendersi, rispondendo a queste semplici domande:
1. quali dirigenti?
2. di chi deve essere la fiducia nei dirigenti pubblici?
Un punto di partenza dovrebbe essere fondamentale per rispondere: la pubblica amministrazione non appartiene agli organi politici posti al suo vertice di tempo in tempo. Un comune non è del sindaco, come una regione non è del presidente, come un’agenzia non è del suo presidente, come un ministero non è del ministro. Gli organi politici acquisiscono legittimamente dal corpo elettorale il diritto/dovere di determinare gli indirizzi politico-amministrativi, ma i partiti non hanno il diritto di occupare i vertici organizzativi della pubblica amministrazione come si trattasse di aziende di loro proprietà. Quanto affermato appare una banalità: eppure, 30 anni quasi di continue riforme della pubblica amministrazione nelle quali si continua a parlare di “management”, “staff”, “obiettivi gestionali” hanno forse destato la sensazione che chi si insedia negli organi politici di governo acquisisce un diritto di proprietà e di creare uno staff di sua totale promanazione. Non occorre risalire a quanto dispongono gli articoli 97 e 98 della Costituzione per comprendere che non è così.
Gli organi politici agiscono nell’interesse di tutta la popolazione, pur ottenendo il diritto di governare sulla base di un programma politico legittimato dall’espressione del voto di una parte maggioritaria di tale popolazione. Detti organi, si avvalgono degli apparati amministrativi ai quali sono preposti i dirigenti, col diritto di ottenere da questi la corretta esecuzione delle direttive amministrative, ma senza poter pretendere da questi che agiscano quali funzionari di parte e di partito, nella veste di fiduciari e mandatari della politica.
Allora, alla prima domanda è agevole rispondere. La dirigenza di “fiducia” non può che essere quella funzionale allo svolgimento della funzione politica, dunque vicina alla formazione della programmazione e lontana dalla concreta gestione. Le figure dirigenziali che possono connotarsi come fiduciarie, allora, non possono andare molto oltre il capo di gabinetto (ma nelle amministrazioni ove realmente occorre), il porta voce, il capo ufficio stampa, il consigliere giuridico o il consigliere necessario per la specifica materia dell’amministrazione, un esperto dell’attività legislativa o normativa. Per quanto la Corte costituzionale non si dimostri contraria al fatto che anche i vertici amministrativi, come i segretari generali o i capi dipartimento dei ministeri possano avere un rapporto fiduciario con la politica, poiché questi hanno poteri operativi e gestionali, la connessione diretta con la politica appare comunque una forzatura.
Perché? Qui si può rispondere alla seconda domanda: se sono i politici a dover riporre fiducia nella dirigenza, detta fiducia non può che contenersi in poche figure realmente appartenenti allo staff; figure che, a ben vedere, non andrebbero nemmeno qualificate come dirigenza di ruolo e funzionale, ma come tecnico-politiche e appunto “fuori ruolo”, con piena ed ampia possibilità della politica di scegliere i dirigenti con logiche di appartenenza.
Ma, laddove la dirigenza sia quella chiamata ad attuare le direttive, poiché essa deve comunque agire nel rispetto dei principi di buon andamento, imparzialità e parità di trattamento, semmai sono i cittadini che debbono poter riporre una fiducia di natura tecnica sulla capacità dei dirigenti di svolgere le proprie funzioni nel miglior modo possibile, pretendendo che gli organi politici utilizzino fino in fondo tutti i poteri di valutazione per valorizzare i meritevoli e sanzionare i meno efficaci.
Il fatto è, purtroppo, che in Italia l’idea che si ha della “fiducia” è totalmente distorta, così come alterata è la visione della lotta alla presunta inamovibilità della dirigenza.
Riforme come la Madia vengono trattate sulla stampa in termini molto generici e sommari: quando si afferma, quindi, che i dirigenti non debbono essere inamovibili, è evidente che simile affermazione non può non incontrare consenso. Allo stesso modo, se si afferma che la dirigenza debba meritare una successione di incarichi e non pretendere di avere il rinnovo senza una motivazione, anche in questo caso non si può non condividere.
Così, la riforma introduce non solo la totale e continua amovibilità della dirigenza, ma, come visto sopra, prevede questo risultato a prescindere da qualsiasi strumento ed elemento tecnico di valutazione, la quale viene utilizzata non per confermare chi agisce in modo efficace, ma semmai per troncare l’incarico prima della scadenza dei 4 anni.
In sostanza, sulla stampa si esulta per la possibilità “finalmente” di “licenziare” i dirigenti di ruolo e di estirpare la loro inamovibilità. Ma, nei fatti veri e concreti, la “fiducia” e la possibilità di “licenziare” molto spesso, troppo spesso di là dall’avere a che fare con la creazione di un virtuoso mercato competitivo dei dirigenti e con sistemi di valutazione d’efficacia, hanno a che vedere con fini assolutamente meno commendevoli.
Basta porre mente al caso di Mafia Capitale e delle grandi opere e ricordare i dirigenti “di fiducia”, nella gran parte dei casi nominati per cooptazione diretta della politica, per capire di che tipo di “fiducia” passando dall’astratto al concreto, si parli realmente.
Non bastasse, meglio richiamarsi a fatti di cronaca ancora più recenti: come la scoperta dell’esistenza di un apparato di criminalità organizzata che pare aver influenzato oltre ogni misura il comune di Lavagna, in provincia di Genova.
Dalla lettura dell’ordinanza del Gip, emergono elementi dai quali si comprende in modo estremamente chiaro a cosa esattamente la politica, troppo spesso, si riferisca quando parla di fiducia nei dirigenti e della loro licenzi abilità.
Una delle imputate, l’ex deputata Gabriella Mondello in un’intercettazione con un geometra di sua fiducia afferma: “ I dirigenti... ci sono due tipi diversi: il Comandante dei Vigili e questa […] della Ragioneria, sono dipendenti comunali, come anche la Omissis, non possono essere licenziati, però la Omissis è di fiducia, tanto che veniva sempre da me … e quello dei vigili bisogna studiare il modo di ridimensionarlo... Invece, l'ingegnere dell'ufficio tecnico è a contratto... ”.
Dovrebbe risultare tutto chiaro. Quali sono le due categorie di dirigenti?
1. i dirigenti “organici” alle necessità politiche, a loro volta suddivisi in:
a. dirigenti “a contratto”: in quanto “licenziabili” o, comunque, divenuti dirigenti per cooptazione, essi sono di per sé “di fiducia”, perché debbono il loro incarico a qualcuno;
b. dirigenti “dipendenti comunali”, cioè di ruolo, non licenziabili, ma “di fiducia”, perché prima di adottare qualsiasi decisione vanno dal referente politico a concertare cosa fare e cosa non fare;
2. i dirigenti “non organici”: tendenzialmente, si tratta di dirigenti di ruolo che, purtroppo (per chi intende la politica in un certo modo) non sono “licenziabili” e, quindi non vanno dal referente a farsi dire cosa fare o non fare.
Ma, il dirigente di ruolo di fiducia, che “va” dal referente, perché merita questa fiducia? Facile immaginarlo. La persona che agli occhi della Mondello è un dirigente “di fiducia” e quindi meritevole e commendevole è coinvolta nell’inchiesta perché pare abbia accondisceso alla richiesta di far ottenere ad una persona un cambiamento di residenza, sostanzialmente falso, a vantaggio di una persona, perché la figlia potesse ottenere i benefici di cui alla legge 104/1992.
Cosa concludere? Fermo restando che non è stata pronunciata alcuna sentenza e che, pertanto, tutti i soggetti coinvolti nell’inchiesta sono da considerare non colpevoli, risulta dalle carte dell’inchiesta stessa una sorta di vero e proprio manuale della dirigenza come vista e voluta nella distorta lettura, diffusissima nella politica.
E si evince che la “fiducia” che il politico troppo spesso ripone nel dirigente non è per nulla dovuta alla capacità del dirigente di applicare in maniera corretta le tecniche gestionali al fine di dare attuazione alle direttive politiche nel rispetto, però, dei principi generali di buon andamento imposti dalla Costituzione.
In questo modo, la “fiducia” del politico tradisce totalmente la “fiducia” che invece dovrebbe avere il singolo cittadino nella correttezza dell’agire del dirigente preposto a trattare gli affari che lo interessano. Gli abitanti di Lavagna hanno potuto constatare che per la “fiducia” del politico di turno, è stata tradita la “fiducia” che dovevano avere nel fatto che le pratiche anagrafiche relative alla residenza venissero trattate in modo competente, efficace, rispettoso, equilibrato e non per favorire qualcuno, a scapito di altri e, soprattutto, della fede e delle risorse pubbliche.
E’ lecito chiedersi, allora: è questa la dirigenza di “fiducia” che si vuole? E’ opportuno in un Paese nel quale la “licenziabilità” dei dirigenti è a misura della forza di condizionamento sul loro operato, che si preveda una durata degli incarichi di soli 4 anni? E’ davvero accettabile che gli incarichi dirigenziali siano sostanzialmente avulsi dagli esiti della valutazione e rimessi totalmente all’arbitrio dell’organo politico, per nulla limitato o vincolato dalla funzione di foglia di fico delle rose che saranno selezionate dalle commissioni “indipendenti”?
E’ evidente che il caso di Lavagna non può essere fatto assurgere a regola generale. In Italia ci sono migliaia di amministrazione rette ed amministrate in modo efficace, corretto e più che ineccepibile ed onesto. Però, casi come Lavagna, Mose, Mafia Capitale, Grandi Opere e vari altri ci sono e sono molti, comunque troppi.
Di fronte a questa realtà innegabile, una riforma della dirigenza come quella prevista dalla legge 124/2015 finisce solo per dare ulteriori armi in mano a quella parte deteriore della politica e dell’amministrazione che scambia la fiducia che i cittadini pur tuttavia continuano a riporre nella pubblica amministrazione, in un rapporto fiduciario personale finalizzato alla gestione del potere. Basterebbe questa sola riflessione per comprendere quanto sbagliata sia la riforma Madia.

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