Con l’intervista rilasciata dal
sottosegretario alle riforme Angelo Rughetti a Il Sole 24 Ore del 12 luglio,
dal titolo “Con la riforma Pa dirigenti più capaci e meno "relazionali"”
si va ben oltre, ormai, il paradossale ed il dadaismo.
Due elementi emergono:
1)
le affermazioni finali del sottosegretario sono l’esatto
contrario degli effetti, del contenuto e del significato della riforma della
dirigenza avviata dalla legge 124/2015;
2)
l’intervista ha avuto il semplice scopo di fare da
cassa di risonanza, perché nulla è stato obiettato rispetto alle affermazioni
del sottosegretario, assolutamente stravolgenti la realtà.
Mentre per il secondo punto non
si può che rassegnarsi, è opportuno spostare l’attenzione sul merito delle
dichiarazioni del sottosegretario, per fornire quegli elementi di valutazione
ed approfondimento purtroppo mancati nell’articolo.
Ecco cosa ha dichiarato il
Rughetti: “Che cosa accade oggi? Con uno
scritto e orale reclutiamo dirigenti che poi ottengono incarichi a discrezione
dei politici. Con la riforma puntiamo sulle competenze, formiamo a risolvere
problemi, non a darci pareri giuridici, e introduciamo metodi di selezione su
esami obiettivi del curriculum affidati a commissioni di esperti. Così si
affievolisce il potere della politica e si punta ad avere una dirigenza meno
"relazionale"”.
In pochissime parole, un
condensato nel quale non manca nessuno degli ingredienti di 25 anni di riforme
della pubblica amministrazione fallimentari, portate avanti sempre dallo stesso
trust di pensatori e consulenti, che invece di essere messi alla porta dopo la prima
fallimentare idea, continuano ad influenzare i contenuti normativi.
L’insieme sgradevolissimo delle
dichiarazioni del sottosegretario deve essere analizzato per disaggregazione.
Partiamo dalla prima
affermazione, consistente nella sostanza in una denigrazione del concorso
pubblico, ridotto ad “uno scritto e orale”.
Un’affermazione davvero
inaccettabile, partendo dall’idea che il Rughetti non può non sapere queste
minime notizie in merito al reclutamento della dirigenza:
1.
prima di fare il concorso per essere assunti come
dirigenti:
a.
bisogna essersi prima laureati;
b.
è necessario aver vinto in precedenza un altro concorso
per accedere ad una qualifica di funzionario, che consenta l’accesso alla
dirigenza;
c.
aver operato per almeno 5 anni in questa qualifica;
d.
aver acquisito esperienza lavorativa ed aver,
ovviamente, intrapreso anche studi ed approfondimenti;
e.
oppure, in alternativa, è possibile accedere mediante
il sistema (non troppo diffuso) del corso-concorso gestito dalla Scuola
superiore della Pubblica Amministrazione, un biennio molto duro di vero e
proprio praticantato;
f.
oppure, ancora, come nel caso della categoria dei
segretari comunali che la riforma Madia intende abolire, si accede al concorso
e si progredisce in carriera con successivi lunghissimi percorsi di formazione
selettivi e concorsuali;
2.
chi intende puntare sull’accesso alla dirigenza compie
un investimento in formazione in spese di partecipazione (tasse concorsuali,
trasferte, soggiorni) molto elevato;
3.
chi punta all’accesso alla dirigenza è disposto ad una
forte mobilità territoriale anche per migliaia di chilometri (non per tragitti
come, per esempio Rieti-Roma);
4.
le prove selettive non consistono affatto in “uno
scritto e un orale”; si tratta, generalemente, sempre di almeno tre scritti,
nell’ambito dei quali accanto all’approfondimento tecnico generale vi sono
sempre anche prove connesse alla soluzione di problemi operativi tecnici ed indicazioni
di organizzazione; il cosiddetto “orale”, poi, spazia in un ventaglio di
materie molto ampio che contempla, anche quando la professionalità sia tecnica,
economica e di altra componente non giuridica, comunque conoscenze fondamentali
su procedimento amministrativo, trasparenza, informatizzazione, organizzazione
aziendale, reati contro la pubblica amministrazione, misure anticorruzione,
conoscenza della disciplina di funzionamento interno dell’ente che indice il
concorso; a queste basi si aggiungono, poi, le cognizioni approfondite sulle materie
specifiche oggetto della valutazione;
5.
il concorso pubblico è previsto dalla Costituzione,
che, sul punto, non è nemmeno stata interessata dalla riforma ancora in attesa
di referendum confermativo.
La conoscenza approfondita che
sicuramente un sottosegretario deve possedere su questi elementi assolutamente
basici evidenziati sopra avrebbe dovuto consigliare di non ridurre l’accesso
alla dirigenza ad uno “scritto e orale”, come se tutti i dirigenti fossero
stati reclutati pro forma. Basterebbe chiedere alle tante migliaia di
funzionari che hanno partecipato negli anni ai concorsi, senza fortuna.
La seconda affermazione è ancora
meno fondata: il Rughetti vuol dare l’idea che nell’attuale sistema una volta
reclutato il dirigente ottenga un incarico per intercessione e “generosità” del
politico.
Le cose non stanno affatto così.
Attualmente, non esiste un ruolo unico nazionale della dirigenza. Sicchè, ogni
ente dispone di una propria dotazione organica di posti dirigenziali, che viene
(quando possibile in base ai moltissimi vincoli alle assunzioni) “popolata” con
concorsi, volti ad immettere in servizio i dirigenti necessari a presidiare i
vertici organizzativi vacanti. Nell’ambito della dirigenza statale, la
contrattazione collettiva pone con estrema evidenza (un po’ più sfocata in contratti
di altri comparti, come negli enti locali) il diritto del dirigente ad un
incarico, consistente, simmetricamente, nel dovere dell’amministrazione
pubblica di affidare la gestione amministrativa delle proprie strutture ai
dirigenti appositamente assunti allo scopo.
Quindi, non è per nulla vero che
i dirigenti reclutati con lo scritto e l’orale ottengano gli incarichi (il
verbo “ottenere” è volutamente utilizzato in senso dispregiativo). Al
contrario, maturano un diritto ad essere incaricati, ovviamente condizionato
alla valutazione della capacità effettiva di condurlo con profitto e capacità.
La terza affermazione è che
grazie alla riforma:
a)
si punta sulle competenze;
b)
formando a risolvere problemi, non a dare pareri
giuridici.
In due frasi, la summa delle
banalità pseudo aziendalistico manageriali che da anni inquinano le riforme
(sempre epocali) della pubblica amministrazione ed incidono in particolare sul
rapporto di lavoro pubblico, rendendolo sempre più precario e tendenzialmente
asservito alla politica (anzi ai partiti) e meno tecnicamente autonomo e
valutabile.
L’affermazione che la riforma
punti sulle “competenze” è lo scimmiottamento delle teorie
socio-economico-lavoristiche che indicano l’opportunità della formazione, della
valorizzazione degli skills e che puntano
sull’impiego di quante più parole inglesi possibili, per dare enfasi a concetti
semplici. Ma affermare che la riforma punti sulle competenze come se fosse un
evento nuovo e, dunque, come se prima ciò non fosse mai avvenuto è come
sostenere che sin qui la dirigenza sia un esercito di incompetenti o, comunque,
lasciar passare sotto traccia questa idea.
Ma, il Rughetti sa certamente
che anche la riforma Madia continua a contemplare l’accesso alla dirigenza
mediante corsi-concorsi o concorsi, esattamente come adesso. Dunque, l’investimento
speciale e particolare sulle “competenze” francamente non si sa dove reperirlo.
Ancora più degna di un
ragionamento da assessore minore di un comune di campagna è quello relativo
alla formazione del dirigente a “risolvere problemi” invece di fornire “pareri
giuridici”.
Nel mondo parallelo del Rughetti
e di tanti, troppi consulenti ed esperti di pubblica amministrazione, le parole
“azienda”, “manager”, “stakeholders”, “programmazione”, “relazioni industriali”,
configurano una realtà nella quale un ente pubblico agisce appunto come un
azienda, ha un proprio budget, dispone di obiettivi di mercato, realizza un
fatturato ed utili, seleziona la clientela, lascia al management la fissazione
dei processi di sviluppo del prodotto, libertà di investimento, autonomia
negoziale e piena responsabilità operativa.
Ma, questo mondo parallelo non
esiste. La contrattazione collettiva integrativa, che dovrebbe essere il
simbolo della funzione “manageriale” di “sviluppo” delle “risorse umane” potrà
anche non essere soggetta a “pareri giuridici”, per essere, invece, retta in
modo da “risolvere problemi”. Tuttavia, poi, chi ci mette gli occhi sono i
servizi ispettivi del Mef e la Corte dei conti, che fanno le pulci sul rispetto
dei cavilli e codicilli di una disciplina normativa ipertrofica e folle, che
costringerebbe qualsiasi manager patentato e testato proveniente da qualsiasi
multinazionale ed esperto in relazioni industriali a diventare per forza un leguleo
obbligato a slalomeggiare tra i mille vincoli imposti dalle leggi che, sia
consentito sottolineare, sono frutto dell’azione della politica, non dei
dirigenti. Oppure, quando la legge o la contrattazione collettiva lasciano
margini, occorre districarsi tra interpretazioni assurdamente restrittive dei
citati servizi ispettivi, della magistratura contabile, dell’Aran, della
Funzione Pubblica, spesso, per altro, per nulla condivise dai giudici del
lavoro, in un cortocircuito istituzionale isterico.
Il Rughetti non può non sapere
che questa situazione si estende a tutti gli ambiti dell’agire pubblico
(appalti, espropri, commercio, contributi a terzi, sanità, e quant’altro). Né può
ignorare che la funzione della dirigenza non è risolvere un problema ma contestualmente
violando le leggi. E’ vero che la riforma Madia evidenzia la volontà della
politica di fare della dirigenza pubblica uno “scudo” contro la responsabilità
erariale, in modo che i dirigenti si addossino sempre le responsabilità
gestionali allargando a dismisura l’esimente politica. Ma, guardando sempre
alla Costituzione, ancora una volta non toccata sul punto, compito dei
dipendenti pubblici e dei dirigenti è rendere servizio alla Nazione, non alla
maggioranza o alla persona fisica che ricopre la carica pubblica pro tempore. I
dirigenti non hanno il compito di fare da parafulmine e risolvere i problemi a
prescindere dalle norme: il primo problema da risolvere, purtroppo, è proprio
quello di comprendere le norme ed applicarle correttamente, perché nessun
problema può essere efficacemente risolto se non si rispettano le regole
fissate. Si chiama “principio di legalità” e un Governo che costituisce l’Anac
e le affida così rilevanti compiti operativi si presuppone che lo sappia molto
bene.
Infine, le ultime tre
affermazioni:
1) introduciamo
metodi di selezione su esami obiettivi del curriculum;
2) affidati
a commissioni di esperti.
3) così
si affievolisce il potere della politica e si punta ad avere una dirigenza meno
"relazionale.
In quanto alla prima di questa
serie. La selezione sui curriculum non ha lo scopo di reclutare i dirigenti,
bensì di attribuire gli incarichi dirigenziali. Per un verso, quanto afferma il
sottosegretario è un po’ la ripetizione della teoria secondo la quale nella PA
è opportuno introdurre i metodi di recruiting propri del privato, basati molti
sulla verifica dei curriculum.
Potrebbe anche essere utile, ma
è opportuno ricordare che fin qui se non si è dato rilievo adeguato ai
curriculum è per responsabilità degli organi di governo, non per assenza né dell’idea,
né dell’indicazione normativa. Gli incarichi dirigenziali, infatti, si
assegnano nel rispetto dell’articolo 19, comma 1, del d.lgs 165/2001, ai sensi
del quale per attribuirli si deve tenere conto “in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi
prefissati ed alla complessità della struttura interessata, delle attitudini e
delle capacità professionali del singolo dirigente, dei risultati conseguiti in
precedenza nell'amministrazione di appartenenza e della relativa valutazione,
delle specifiche competenze organizzative possedute, nonché delle esperienze di
direzione eventualmente maturate all'estero, presso il settore privato o presso
altre amministrazioni pubbliche, purché attinenti al conferimento dell'incarico”.
La cosa davvero stucchevole è
che mentre l’attuale normativa indica di fare riferimento, come ovvio, al
curriculum ed in particolare ai risultati conseguiti, la riforma Madia
disancora totalmente gli incarichi dai risultati, perché slega totalmente lo
svolgimento degli incarichi dall’appartenenza ad un ruolo di una pubblica
amministrazione, visto che i dirigenti dipenderanno da una melassa informe,
qual è il ruolo unico. Dunque, ogni volta l’assegnazione degli incarichi sarà
un’ordalia, realizzata senza tenere nella minima considerazione l’elemento
fondamentale: la capacità del dirigente di conseguire i risultati previsti,
che, in caso affermativo, dovrebbe essere ovvia base per una riconferma invece,
dopo il perido di 4+2 anni massimo possibile presso una PA, impossibile.
La valutazione dei curriculum, è
la seconda affermazione, sarà affidata ad una commissione di esperti. E la
terza si congiunge a questa, lasciando immaginare che la politica venga
estromessa del tutto, perché saranno le commissioni ad indicare il dirigente
più adeguato al caso.
Il fatto è che non sarà per
nulla così. Le commissioni di “esperti” in primo luogo, anche se denominate
come “indipendenti” saranno composte da soggetti incaricati dalla politica: il
che crea un irrimediabile cortocircuito, perché è ovviamente impossibile l’indipendenza
dalla politica di organi nominati dalla politica (come insegna, ad esempio, l’esperienza
fallimentare dell’attività degli organismi “indipendenti” di valutazione e dei
revisori dei conti negli enti locali). In ogni caso, le commissioni non avranno
l’ultima parola: si limiteranno a produrre rose di candidati, tra le quali
sceglieranno, poi, con totale discrezionalità (che significa arbitrio) gli
organi di governo.
Sicchè, la riforma della
dirigenza esattamente all’opposto di quanto afferma il sottosegretario Rughetti
sarà l’incentivo ad una dirigenza solo “relazionale”, perché la capacità di “tesserarsi”
e “vendere la propria immagine” sarà fondamentale per avere l’appeal necessario ad essere il “prescelto”
nell’ambito delle “rose”.
Infine, una considerazione
finale. Nell’ambito della dirigenza ovviamente vi saranno tanti che abbiano
fondato la loro carriera anche ed appunto sulle “relazioni”. Non vi è dubbio
che tra questi spicchino in particolare i dirigenti “esterni”, quelli
incaricati “a contratto”, senza passare per alcun concorso o prova selettiva.
La riforma della dirigenza non
incide minimamente si questa dirigenza di per sé “relazionale” e “politicizzata”,
ma anzi ne favorisce l’immissione ai vertici organizzativi della PA. A conferma
che si tratta di una riforma i cui strumenti, metodi ed intenti sono totalmente
all’opposto di quelli indicati dal Rughetti.
Il quale, per altro, sa bene
cosa si intenda per dirigenza “relazionale”, avendo ottenuto – indiscutibilmente
per meriti e curriculum – diversi incarichi in altrettante pubbliche
amministrazioni o associazioni di enti locali o enti e società a partecipazione
pubblica un notevole numero di incarichi da dirigente “a contratto”, molto “relazionale”,
tanto da aver poi tradotto – legittimamente – tale esperienza in una funzione
più spiccatamente politica e di governo.
Allora, basta essere chiari. Se
il modello di dirigenza cui punta il Rughetti e la riforma è quello di un
insieme di soggetti che debbono risolvere problemi facendo da parafulmine senza
impicciarsi troppo delle leggi, per poi avere lo sbocco politico, la strada è
chiara ed è stata sostanzialmente tracciata, per esempio, a Milano, dove il
direttore generale, esterno, del comune, è stato nominato commissario dell’Expo
e poi candidato sindaco.
Ma, sarebbe interessante se
questo modello, di totale compressione della dirigenza verso l’appartenenza
politica (in contrasto con l’articolo 98 della Costituzione), venisse enunciato
e spiegato per quello che è e non propagandato per il suo esatto contrario,
facendo passare anche i moltissimi dirigenti che hanno acquisito qualifica ed
incarichi per concorsi, nel rispetto assoluto delle direttive della politica,
ma in autonomia dai partiti, come soggetti che sono andati avanti solo con la “spintarella”
seguita al concorsucolo con “uno scritto e un orale”. Anche qui un po’ di
trasparenza di pensiero non farebbe male: questa dirigenza dà fastidio, perché non
fa da parafulmine ed ha la pretesa di risolvere i problemi e contestualmente anche
rispettare le norme. Si dica che la si vuole fare fuori e che il modello da
seguire è solo e soltanto quello del dirigente con tessere in tasca e rubrica
telefonica molto ricca.
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