Il tema propagandato è che l’Italia
si trova nella crisi attuale (che però al tempo stesso viene negata) “perché negli
scorsi 30 anni non si sono approvate le riforme strutturali che si stanno
varando ora”.
A parte la circostanza che 30
anni fa, ma anche 20 e 10, l’ordinamento comunitario era diverso, le regole
economiche e bancarie altre, le geopolitica completamente un’altra, la
tecnologia più arretrata e, dunque, pensare che 30 anni fa si potesse
immaginare normative utili per l’oggi è ovviamente privo di fondamento, il
problema che si coglie resta sempre lo stesso: non conta quante riforme fai e
se le stai facendo “finalmente” dopo un certo lasso di tempo. Conta la qualità
delle riforme in atto.
Focalizzando l’attenzione sull’elemento
qualitativo, il bilancio appare oggettivamente non solo scadente, ma
sconcertante.
Pensiamo alla riforma delle
province. Tutti dovrebbero ricordarsi che secondo la celeberrima e mitica
circolare 1/2015 di Funzione Pubblica e Ministero per le regioni (desaparecido
come la sua allora titolare Carmela Lanzetta) aveva ipotizzato che il percorso
di ricollocazione dei dipendenti soprannumerari delle province si sarebbe
concluso (non avviato, concluso) a giugno 2015. Ancora a luglio 2016 le
assunzioni sono in gran parte bloccate, perché “la più grande operazione di
mobilità dei dipendenti della storia” è stata congegnata malissimo e gestita
ancor peggio.
La dimostrazione? Nel testo
recentemente approvato in via definitiva della riforma delle partecipate locali
(che si preannuncia un altro fantasmagorico flop) si è deciso di abbandonare
esattamente l’idea di ricollocare i dipendenti delle partecipate in esubero
seguendo l’esempio delle province. Forti dell’esperienza totalmente negativa
della riforma provinciale, le commissioni di Camera e Senato hanno fatto di
tutto per convincere il Governo che era meglio cambiare strada e così si è
deciso. Allora, questa parte della riforma delle province ha funzionato o no?
Oggettivamente, non pare i
difetti dell’attacco alle province siano soltanto questi. Citiamo altri
elementi di valutazione. La riforma doveva determinare un risparmio per le
risorse pubbliche. Ma, come risulta da tutti gli indicatori, la spesa pubblica
continua a crescere e con essa il debito pubblico. Questa parte della riforma
ha funzionato?
Ancora, la riforma è stata
propagandata come uno strumento per modificare e rendere più efficiente l’assetto
organizzativo degli enti locali, favorendo, ad esempio, l’associazionismo
comunale. Tuttavia, a parte la decisione del Friuli Venezia Giulia di
costituire sostanzialmente 31 mini-province, da nessuna parte si è avuta
notizia di un nuovo assetto istituzionale dei comuni a seguito della riforma
delle province, allo scopo di organizzare meglio i servizi.
La cosa è facilmente spiegabile:
le province per gestire le proprie funzioni spendevano circa 10 miliardi fino
al 2014. La riforma ne ha sottratti 6,5, sicchè qualsiasi altro ente subentri
alla gestione di dette funzioni dovrebbe trovarli per sostenere la spesa connessa,
come ben sanno le regioni che ci hanno provato, chiamate ad una nuova spesa di
circa2 miliardi. I comuni, vessati da tagli decennali, ovviamente, si sono
guardati bene dal subentrare, sia pure in forma associata.
Il fatto è che alla fine le
funzioni si sono dovute continuare a svolgere, ma senza più le risorse
necessarie.
Il paradosso è che enti neonati,
le città metropolitane, accolte dai fautori della riforma con molti “finalmente”
e la ferrea fiducia che detti enti potessero essere strumento per il rilancio
dell’economia (non si è mai capito perché) sono già virtualmente in dissesto ed
in deficit per 350 milioni (e sono solo in 10).
Qualcuno, allora, si è accorto
che le scuole superiori stanno rimanendo senza manutenzione e arredi, le strade
provinciali franano e perdono asfalto (per paradosso, i presidenti delle
province possono rispondere del reato di omicidio stradale cagionato dall’assenza
di quella manutenzione che non possono assicurare per lo strangolamento operato
dal legislatore), i disabili senza accompagnamento a scuola e insegnanti di
supporto e così via. E si è anche accorto che tutte le province né possono
approvare bilanci pluriennali, mentre sono destinate al dissesto.
Così, è saltato fuori il “decreto
enti locali” con l’idea che il pareggio di bilancio le province lo possano
conseguire a consuntivo e l’abbuono delle sanzioni per lo sforamento del patto
di stabilità, oltre alla previsione per il secondo anno consecutivo dell’assurda
possibilità di approvare un bilancio solo annuale. Il tutto, per cercare di
compensare almeno in parte il prelievo forzoso di due miliardi dai loro
bilanci, sciaguratamente imposto da chi pensava che nel 2015 in sei mesi avrebbe
davvero ricollocato 20.000 dipendenti. Allora, questa parte della riforma ha
funzionato o no?
E i comuni? Pur avendo aumentato
le tasse locali all’inverosimile (tanto da subire il divieto di incrementare le
aliquote da ben due leggi di stabilità di seguito) sono anch’essi allo stremo.
Dunque, avendo visto che per le province e le città metropolitane le sanzioni
per il patto si possono ammorbidire, hanno legittimamente chiesto ed ottenuto
che anche per loro vi fosse una mano più morbida nel sanzionare lo sforamento
del patto di stabilità. Bene. Ma, allora, queste regole del patto funzionano o
no? Se continuamente se ne correggono le conseguenze, verrebbe quasi il
sospetto che non funzionino.
E che dire delle tante altre
riforme già avviate o ai blocchi di partenza? Quella della scuola è partita; la
riforma della pubblica amministrazione è in avvio. Come è noto, questa seconda
intende modificare, tra i molti altri temi, i sistemi di accesso agli impieghi
pubblici e, quindi, il reclutamento, cosa che nella scuola si è già deciso col “concorsone”.
Ora, nelle settimane scorse il
sottosegretario alle riforme Rughetti ha, come si ricorderà, irriso i concorsi,
riducendoli ad “uno scritto e un orale”, come strumento desueto e poco utile,
in particolare per l’assunzione dei dirigenti.
Il concorso, dunque, non serve a
nulla? Meglio i rigorosi sistemi di valutazione dei curriculum utilizzati dai “tagliatori
di teste” nelle aziende?
A tutti pareva di sì, anche perché
da anni ormai media e giornali tempestano con questo concetto. Tra essi,
ovviamente, anche il Corriere della sera.
Sorprendentemente, però, proprio
il Corriere ha pubblicato venerdì 15 luglio l’articolo a firma di Dario Di Vico
“La via del merito per i nostri professori”, ove in estrema sintesi si esprime
un giudizio negativo sulla circostanza che il concorsone stia risultando molto
selettivo, consentendo ad una minoranza di docenti “precari” l’ingresso in
ruolo. In un passaggio, l’autore scrive: “È
chiaro che se dovessimo alla fine constatare che le commissioni hanno portato a
termine una vera selezione non potremmo che esserne soddisfatti. Avrebbero
fatto bene il loro lavoro e avrebbero aperto le porte dell'impiego stabile solo
a quei docenti m grado di dimostrare la loro preparazione. Assumere insegnanti
non idonei significa condizionare negativamente il rilancio della scuola non
per un anno ma per cinque o sei lustri. Ma le cose stanno veramente così?
Onestamente non lo sappiamo. La gestione del concorsone è stata infatti
piuttosto pasticciata. Si è giustamente cambiato il focus della selezione
passato dall'accertamento della conoscenza della disciplina — metodo adottato
in passato — alla valutazione della capacità didattica del docente”.
Ma, come? La “valutazione della
capacità didattica”, cioè una sorta di esame del “saper fare”, non va più bene?
Dopo anni ad insistere che “uno scritto e un orale” sono roba vecchia e superata?
Parrebbe di capire che perfino
la riforma del modo di selezionare i dipendenti pubblici, abbandonando il
concorso basato (anche) sulla valutazione delle competenze e delle materie, sia
riconosciuta come un buco nell’acqua dagli stessi fautori di “sistemi nuovi di
reclutamento nella PA”. E con la riforma Madia, allora, come andrà?
La traiettoria presa sembra
quella di un ulteriore fallimento, cui seguiranno tentativi di correzione
peggiori del buco, mai accompagnati, comunque, dalle scuse per l’errore
commesso e la modifica reale della rotta.
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