Il parere 14.10.2016 n.2113
della Commissione speciale del Consiglio di stato sullo schema di decreto
legislativo di riforma della dirigenza è, come era inevitabile, una bocciatura
senza appello.
Le indicazioni di Palazzo Spada
confortano coloro che da mesi evidenziano i tantissimi difetti di questa
riforma, confermando che si tratta di critiche legate al merito tecnico e non
ad una prevenuta difesa di posizioni di privilegio.
Detto questo, non si può fare a
meno di rilevare come il parere sia reso in termini di “favorevole con
osservazioni” e risulti completamente carente del rilievo fondamentale: la
critica alla sostanziale trasformazione del rapporto di lavoro dei dirigenti
pubblici in un vero e proprio contratto intermittente con possibilità di
licenziamento privo di qualsiasi causa. Un vulnus pericolosissimo all’interesse
pubblico, perché rende la dirigenza assoggettata al potere partitico, più che
politico, ma soprattutto perché consente la sperimentazione in vitro di una
devastante possibile riforma sociale: ammettere che la parte datoriale del
contratto di lavoro possa trasformare unilateralmente la natura del rapporto e,
soprattutto, innescare sistemi di licenziamento immotivati, slegati da
qualsiasi giustificazione oggettiva (crisi aziendale) o soggettiva
(inadempimento grave del lavoratore). Un precedente micidiale, che potrebbe far
venir voglia di estenderlo all’intero mercato del lavoro, completando un’opera
di precarizzazione estrema già in atto da qualche mese.
Non che Palazzo Spada non rilevi
il pericolo insito appunto nell’asservimento della dirigenza all’appartenenza
partitica. Il parere afferma che obiettivo della riforma dovrebbe essere
garantire il rispetto pieno del principio di autonomia dei dirigenti dalla
politica, perchè “Una dirigenza pubblica
fortemente qualificata e competente, con carriere ispirate alla trasparente selezione, valutazione e
progressione anziché a legami di
solidarietà politica, garantisce i
cittadini ed i governi di ogni colore politico, rappresentando l’ossatura
di amministrazioni pubbliche dove si perseguono interessi di tutti e non di una o poche parti”.
Allo scopo, Palazzo Spada
richiama i lavori preparatori della Costituzione: “Nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente Mortati aveva messo in
rilievo la necessità di «assicurare ai funzionari alcune garanzie per
sottrarli alle influenze dei partiti politici». In quest’ottica, «lo sforzo di una Costituzione democratica,
oggi che al potere si alternano i partiti, deve tendere a garantire una certa
indipendenza ai funzionari dello Stato, per
avere un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione
dei partiti». Per tali ragioni
Mortati aveva proposto di inserire nel testo costituzionale una norma secondo
cui nell’ambito delle direttive del singolo Ministro, che «dirige
l’amministrazione ad esso affidata», i «funzionari
dirigenti dei vari servizi assumono la diretta responsabilità degli atti
inerenti ai medesimi»”.
Poiché queste sono le premesse
fondanti l’ordinamento vigente, è evidente che il disegno di riforma della
dirigenza si pone in chiaro contrasto con esse.
Infatti, nelle sue linee
essenziali, la riforma:
1. assegna
esattamente all’amministrazione dei partiti il potere totalmente discrezionale,
se non arbitrario, di incaricare i dirigenti inseriti nei ruoli; non c’è,
infatti, alcuna graduatoria, né nessun sistema di rilevazione tecnica
vincolante delle abilità dei dirigenti che possa guidare in modo automatico l’assegnazione
degli incarichi; dunque, solo la vicinanza e comunanza politica sarà il moto
che spingerà gli organi politici ad incaricare questo o quel dirigente;
2. introduce
uno spoil system automatico esteso a
tutti i dirigenti; la scadenza obbligatoria dell’incarico al quarto anno (anche
se prorogabile di altri due) azzera sempre e necessariamente il rapporto di
servizio e obbliga il dirigente allo stato di “disponibilità” alle soglie del
licenziamento e con stipendio falcidiato; conseguenze esiziali, volute
evidentemente per costruire una dirigenza supina, più protesa ad atteggiamenti
prudenziali volti ad evitare la nomea di “pignoleria” e ad accondiscendere a qualsiasi
indicazione politica, anche se illegittima o foriera di danno;
3. infatti,
la riforma introduce una totale clausola di esenzione della politica da
responsabilità erariale, posta totalmente a carico della dirigenza con funzioni
gestionali, anche laddove le scelte operative risultino adottate per attuare
direttive politiche: una visione della dirigenza essenzialmente come strumento
del principe per attuarne sempre e comunque le indicazioni, anche se dannose, e
per “coprire” in via oggettiva le responsabilità erariali derivanti dalle
indicazioni stesse.
Non occorre molto per capire che
tale strutturazione della riforma non si limita a creare danno allo status
lavorativo dei dirigenti, problema, questo, che potrebbe essere considerato
marginale. Il danno si estende enormemente all’interesse pubblico: come,
appunto, affermava Mortati, una dirigenza, cioè una guida dell’attività della
PA attenta agli interessi partitici di pochi e non all’interesse collettivo,
può cagionare un’amministrazione che comprometta irrimediabilmente
imparzialità, parità di condizioni, efficienza ed efficacia e buon andamento. I
dirigenti, pur di conservare buona nomea e possibilità di riottenere incarichi,
si renderebbero disponibili ad attuare qualsiasi idea, pur se platealmente
dannosa per l’erario o smaccatamente tale da creare disparità di trattamento
legate all’appartenenza politica.
Molti sono portati a ritenere
normale e corretto che i politici abbiano la libertà di scegliere chi credano
come dirigenti, al pari di un titolare di un’azienda.
E’ una visione completamente da
rigettare. L’imprenditore sceglie ogni suo compagno di strada e manager nell’ambito
di un progetto che lo vede a rischiare il proprio capitale, proprie risorse,
proprie abilità, nel perseguimento del proprio interesse privato.
La dirigenza pubblica non può e
non deve essere legata da rapporti di fiducia con gli organi politici di questa
o quella maggioranza, per la semplice ragione che le istituzioni pubbliche non
appartengono ai partiti, né agli uomini politici esponenti dei partiti di volta
in volta eletti. Essi non investono denari propri, ma impiegano risorse di
tutti. Tra queste risorse, vi è anche l’apparato amministrativo, la pubblica
amministrazione, comprensivo di chi è chiamato a dirigerlo, i dirigenti, che
dunque non appartengono alla politica, ma alle istituzioni, anzi ai cittadini
nel cui interesse svolgono la propria funzione, come impone l’articolo 98 della
Costituzione.
Tra politica e dirigenza deve
intercorrere un legame non fiduciario o di appartenenza, ma solo tecnico: l’obbligo
dei dirigenti di attuare l’indirizzo politico, ma ovviamente con atti che
comunque non rechino danno all’erario e rispettino parità di trattamento per
tutti.
La politica può e deve
pretendere la leale e tecnicamente corretta azione della dirigenza, prima
programmandone le funzioni e definendo con chiarezza gli obiettivi nell’esercizio
dell’indirizzo politico; poi, verificando che l’azione operativa sia stata
efficacemente condotta, sanzionando anche fino al licenziamento gli incapaci.
Il che:
1. esclude
radicalmente che la scelta dei dirigenti possa essere frutto di un rapporto personalistico
di fiducia; deve trattarsi, sempre, di una selezione oggettiva, basata su
elementi di ponderazione tecnica, tali da escludere l’arbitrio;
2. richiede
efficaci strumenti di valutazione, necessari per verificare l’esistenza di
sufficienti cause giustificative di tipo soggettivo per sanzionare il dirigente
incompetente, con misure che vadano dalla revoca anticipata dell’incarico al
licenziamento immediato.
Tali due elementi mancano del
tutto nel disegno della riforma, perché essa mina alla radice l’autonomia della
dirigenza annullando la stabilità dei dirigenti sia nel loro rapporto di
servizio, sia nello stesso rapporto di lavoro.
Il rapporto di servizio è
connesso all’incarico dirigenziale, quello che può durare al massimo 4 anni,
scaduti i quali si impone forzosamente la collocazione in disponibilità e la partecipazione
alle procedure di “interpello” per ottenere un nuovo incarico, anche al solo
scopo di riconfermare quello precedente. Il rapporto di lavoro è quello
condotto con un datore. Il disegno di riforma, tuttavia, finisce per far
coincidere rapporto di servizio con rapporto di lavoro: infatti, prevede che a
seguito dell’incarico (costituzione del rapporto di servizio) il dirigente sia
assunto dall’ente conferente (costituzione del rapporto di lavoro), con la
conseguenza che scaduto l’incarico il dirigente conserva il rapporto di lavoro –
tuttavia sospeso nell’obbligazione di rendere la prestazione lavorativa – col datore,
finchè non trovi un nuovo incarico o non sia reincaricato forzosamente (ovunque
e comunque?) dalla Funzione Pubblica o non si risolva il rapporto.
Solo la chiara affermazione
della necessaria stabilità del dirigente nel rapporto di lavoro, allora,
potrebbe eliminare le storture del decreto.
Sarebbe, quindi, da affermare
che il dirigente non valutato negativamente deve essere necessariamente
titolare di un incarico, senza alcuna sottoposizione alla condizione di
disponibilità con stipendio falcidiato.
Il Consiglio di stato ha il
torto di non aver esplicitato questa condizione necessaria e sufficiente per
far cadere completamente l’intero palco della riforma.
Tuttavia, in filigrana è
possibile leggere il parere anche in questi termini.
In primo luogo, con riferimento alle
fortissime critiche svolte dal consiglio di stato sul tema della valutazione,
essenziale per una riforma credibile che punti davvero alla valorizzazione del
merito.
Il parere evidenzia che “manca un meccanismo che garantisca che gli
organi di indirizzo politico predetermino in modo idoneo e tempestivo gli
obiettivi che i dirigenti devono poi concretamente attuare nel rispetto dei
principi costituzionali di imparzialità e buon andamento.
Perché la valutazione dell’attività dirigenziale possa correttamente
svolgersi occorre che i risultati da perseguire, predeterminati al momento del
conferimento dell’incarico dirigenziale, siano specifici, misurabili,
ragionevolmente realizzabili e collegati a precise scadenze temporali (cfr.
art. 5 del d.l. 6 luglio 2012, n. 95).
In secondo luogo, sono previsti strumenti di valutazione tra di loro
non omogenei, con il rischio che la performance
di un dirigente, per la medesima attività, venga valutata in modo differente
dalle singole amministrazioni che attribuiscono le funzioni dirigenziali. Si
tratta di un elemento di forte distonia in un sistema basato sul ruolo unico e
sulla conseguente partecipazione alle procedure di selezione di dirigenti
provenienti da differenti strutture organizzative.
In terzo luogo, è necessaria la compiuta definizione dell’oggetto di
valutazione che non può essere il mero rispetto delle norme ma la capacità
manageriale di realizzare gli obiettivi tenendo separata la dimensione
individuale della condotta del dirigente dalla dimensione organizzativa. […]
Infine, è necessario costruire un sistema di maggiore efficienza ed
autonomia dei soggetti valutatori che sovraintendono alla stessa correttezza
dei processi di valutazione e che dovranno, necessariamente, coordinarsi con
l’attività delle Commissioni per la dirigenza (II, 9).
[…]
In definitiva, come si dirà meglio oltre, la previsione di un efficace sistema di valutazione rappresenta una
condizione indefettibile per la riforma (I, 5.2.) e potrebbe consentire la
previsione, a monte, di un meccanismo di conferimento degli incarichi connotato
da maggiore obiettività e, a valle, modalità di accertamento della
responsabilità dirigenziale fondata sull’effettivo mancato raggiungimento degli
obiettivi al fine di evitare forme “mascherate” di spoils system e non
giustificate protrazioni degli incarichi dirigenziali”.
Dietro queste parole, implicitamente
non si può non scorgere l’idea che per il Consiglio di stato occorra un sistema
stabile di attribuzione dell’incarico, fondato su un vero e proprio diritto.
Lo stesso si può intravedere
nelle critiche ancora più esplicite rivolte ai sistemi definiti dallo schema di
decreto per incaricare i dirigenti.
Il parere ritiene corretto
connotare di fiduciari età i soli incarichi di massimo vertice apicale (i poco
più di 500 dirigenti oggi in prima fascia), e per i dirigenti preposti agli
uffici di staff dei ministri visto che ciò corrisponde alla giurisprudenza
costituzionale affermatasi dal 2007 ad oggi.
Per la dirigenza operativa,
invece, occorrono sistemi selettivi quanto più possibile oggettivi: “In generale, la principale criticità attiene
a quanto già esposto in ordine all’assenza
di un sistema efficace di valutazione dei dirigenti (II, 9). Per quanto la
norma in esame contempli, tra i criteri, quello dei «risultati conseguiti nei
precedenti incarichi e delle relative valutazioni» è evidente come la mancata riforma di questo aspetto incida
negativamente sulla conformazione delle regole afferenti alla fase di
conferimento dell’incarico.
Nello specifico, il Consiglio di Stato pone in rilievo la necessità di
adeguare questi criteri al nuovo sistema prefigurato nello schema di decreto
che, come più volte evidenziato, si regge su un’amplificata mobilità
orizzontale e verticale dei dirigenti. Fermo restando quanto già rilevato con
riferimento alle «sezioni speciali» (II,3.2.) nell’ambito del Ruolo unico,
sarebbe opportuno inserire tra i criteri selettivi anche il possesso di
specifiche competenze ed esperienze acquisite nell’esercizio delle precedenti
funzioni dirigenziali con valutazioni positive.
Nella norma in esame non sono
regolate le modalità di definizione dei criteri da parte delle singole
amministrazioni, il che rende ancora più rilevante l’importanza di una
declinazione puntuale di quelli generali da parte della Commissioni in grado di vincolare la successiva fase
attuativa ed evitare possibili forme di esercizio abusivo dei poteri pubblici”.
Ma, l’esigenza di fissare
elementi comuni alla valutazione, connessi per altro al precedente incarico non
può non sottendere il principio alla stabilità dell’incarico. Vero è, poi, che
se i criteri di valutazione non sono omogenei, risulta impossibile per
qualsiasi soggetto chiamato a comparare i curriculum adottare decisioni
realmente motivate e fondate su elementi oggettivi.
Nessuna critica esplicita,
invece, viene rivolta dal Consiglio di stato alla previsione secondo la quale “per gli incarichi relativi a uffici
dirigenziali non generali, la scelta operata ai sensi dell’art. 19-quater è
comunicata dall’amministrazione alla Commissione per la dirigenza statale, e
l’incarico è conferito decorsi quindici giorni dalla predetta comunicazione,
salvo che la Commissione rilevi il mancato rispetto dei requisiti e criteri di
cui ai commi 2 e 3”. Tale disposizione assegna agli organi politici un
potere totalmente arbitrario di scegliere, senza nemmeno dover motivare,
esattamente chi loro aggradi tra coloro che abbiano presentato candidature,
senza nemmeno l’intermediazione di “rose” di candidati formate dalle
Commissioni, le quali si limiterebbero ad un blandissimo potere di rilievo del
mancato rispetto dei requisiti di valutazione, privo di qualsiasi effetto
sanzionatorio e deterrente.
Si tratta, probabilmente, della “pudicizia”
maggiore del parere di Palazzo Spada nel criticare a fondo il sistema immaginato
dal decreto. Una forte incoerenza con le premesse.
Tuttavia, l’insistenza sulla
valutazione come fondamentale strumento di governo della riforma fa comprendere
indirettamente che la mancata critica all’arbitrario potere di incaricare i
dirigenti non generali sia, probabilmente, in funzione proprio della richiesta
di intervenire sul sistema di valutazione, indispensabile sia per creare
graduatorie di merito, che allora vincolerebbero la scelta amministrativa, sia
per motivare le ragioni della revoca degli incarichi.
Il Consiglio di stato, del
resto, punta sulla stabilità dell’incarico o, quanto meno, sulla coerente
necessità che il ruolo unico (meglio, i ruoli unici) siano fonte esclusiva
della provvista di dirigenti e, quindi, sul diritto dei dirigenti di ruolo a
ricevere l’incarico, quando critica in maniera radicale la norma che continuerà
a consentire il reclutamento di dirigenti a contratto, esterni ai ruoli. I
rilievi di Palazzo Spada sono trancianti: “Nella
disciplina vigente il comma 6 dell’art. 19 dispone che gli incarichi possono
essere conferiti da ciascuna amministrazione, entro il limite del 10 per cento
della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli
e dell’8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda
fascia, a tempo determinato, fornendone esplicita motivazione, «a persone
di particolare e comprovata qualificazione professionale non rinvenibile nei
ruoli dell’amministrazione». La
disposizione è chiara nell’assegnare una valenza residuale agli incarichi
esterni che sono attribuibili soltanto in mancanza di dirigenti interni in
grado di assolvere quei compiti e comunque sempre nel rispetto del limite
percentuale predeterminato.
La norma in esame utilizza l’espressione «incarichi dirigenziali
non assegnati», ripresa dalla legge
delega (art. 11, comma 1, lettera g), di non agevole decifrazione.
Nella Relazione illustrativa allo schema di decreto si fornisce la
seguente esplicitazione del concetto: «avendo la delega confermato la
volontà di avvalersi di aliquote di dirigenti assunti all’esterno della
pubblica amministrazione, viene meno la necessità di esperire una previa
ricognizione tra i dirigenti iscritti al ruolo unico (in possesso delle
competenze richieste per l’incarico) in quanto sarebbe difficoltoso effettuare
la predetta ricognizione sull’ampio numero di dirigenti iscritti al ruolo
stesso». In questa prospettiva, si
dovrebbe esonerare l’amministrazione dalla previa individuazione di soggetti
interni alla categoria dei dirigenti in grado di espletare quelle determinate
funzioni, con conseguente previsione di
una sorta di “riserva di posti” a favore degli esterni dirigenti.
Questa interpretazione non è
condivisibile, perché: i) si
risolve in una sostanziale abrogazione dell’inciso in esame, che non avrebbe
così alcun significato, rimanendo fermo soltanto il limite percentuale al
conferimento dei predetti incarichi; ii)
è necessario valorizzare il principio di imparzialità e quello, ad esso
connesso, del concorso pubblico per l’acquisizione della qualifica dirigenziale,
che dovrebbe comportare l’assegnazione di una valenza residuale e marginale
agli incarichi esterni, che si possono prestare ad un «uso strumentale e
clientelare» (cfr. Corte cost. n. 252 del 2009); iii) potrebbe risultare non conforme ai principi di ragionevolezza
prevedere una aprioristica riserva di posti non giustificata dall’effettiva
mancanza di professionalità interne.
Né varrebbe rilevare che la ricerca interna di dirigenti dotati delle
competenze necessarie allo svolgimento di quella determinata funzione
amministrativa sarebbe «difficoltosa»
per «l’ampio numero di dirigenti iscritti al ruolo stesso». Si tratta, infatti, di un possibile “inconveniente di fatto” privo, in quanto
tale, di rilevanza giuridica e comunque non del tutto rispondente al reale
svolgimento del procedimento che, comprendendo la fase dell’interpello, limita
l’analisi dei profili professionali a quelli rappresentati dai partecipanti
all’interpello medesimo.
Il Consiglio di Stato ritiene, pertanto, che il conferimento degli incarichi esterni deve necessariamente essere
preceduto dalla verifica, almeno nell’ambito delle domande pervenute,
dell’assenza, per profili e competenze, di adeguate professionalità interne
alla dirigenza della Repubblica”.
In effetti, se si introduce un
ruolo “unico” dei dirigenti, per altro in futuro popolato a seguito di
complesse procedure concorsuali postulanti lunghi periodi di “praticantato”
come funzionari, che senso ha una riserva “di fatto” a dirigenti esterni, non
reclutati nello stesso modo?
Nessun senso. Il diritto,
dunque, all’incarico non può non essere il corollario all’inevitabile postulato
formulato dal Consiglio di stato, che lo completa con specifico riferimento
agli incarichi dirigenziali negli enti locali: “La Commissione speciale, oltre i rilievi generali contenuti nel
precedente punto, fa presente quanto segue.
L’art. 110 del d.lgs. n. 267 del 2000 dispone, in particolare, che: i)
il regolamento degli uffici e dei servizi possa disporre che la copertura dei
posti di qualifica dirigenziale avvenga con contratti a tempo determinato, «in
misura non superiore al 30 per cento dei posti istituiti nella dotazione
organica della medesima qualifica» (comma 1); ii) possano conferirsi incarichi
dirigenziali con contratti a tempo determinato anche al di fuori della
dotazione organica «in misura complessivamente non superiore al 5 per cento del
totale della dotazione organica della dirigenza» (comma 2); iii) i contratti di cui ai precedenti commi non possono
avere durata superiore al mandato elettivo del Sindaco o del Presidente della
provincia in carica (comma 3).
Tale disposizione, nel disciplinare le modalità di conferimento degli
incarichi esterni, risulta non solo non
pienamente conforme al criterio della legge delega che si è limitata ad
autorizzare una eventuale modifica delle percentuali di dirigenti esterni che
devono essere definite «in modo sostenibile per le amministrazioni non
statali» (lettera b), ma anche, e
soprattutto, difficilmente compatibile
con il nuovo sistema della dirigenza pubblica quale definito dallo stesso
schema di decreto.
Ciò in quanto: i) vengono definiti limiti
percentuali eccessivamente elevati, riferiti alla dotazione organica del
solo ente locale che ha stipulato il contratto e senza la previa verifica della
non rinvenibilità nei ruoli di professionalità adeguate; ii) la possibilità di conferire incarichi oltre
la dotazione organica risulta contraria al principio della legge delega della
tendenziale riduzione del numero dei dirigenti pubblici; iii) la previsione
di una durata ancorata a quella del
mandato del Sindaco o del Presidente della Provincia contrasta con la regola
generale posta dalla legge delega della durata di quattro anni imposta per
tutte le funzioni dirigenziali.
In definitiva, lo schema di decreto, pur prevedendo l’operatività della
regola del ruolo unico anche per dirigenti locali, lascia ferma una norma che si inserisce in un contesto regolatorio
completamente diverso fondato sui ruoli delle singole amministrazioni.
Il Consiglio di Stato propone,
pertanto, di eliminare l’inciso in esame, il che implica la modifica del d.lgs.
n. 267 del 2000 nelle parti non compatibili con la nuova disciplina”.
Infine, il Consiglio di stato
evidenzia indirettamente la necessità della stabilità dell’incarico muovendo
critiche molto profonde al sistema della responsabilità dirigenziale, da un
lato, e all’estensione senza limiti dell’esimente politica alla responsabilità
erariale.
Sul primo aspetto, il parere è
risoluto nel richiedere che nella “fase
nevralgica di cessazione del rapporto dirigenziale” occorre precisare che “non devono entrare contaminazioni politiche”;
esattamente come non dovrebbero entrare nell’altrettanto delicata fase di
costituzione del rapporto e di gestione dello stesso, mediante gli incarichi.
Ancora più esplicito è il parere
sull’esimente politica da danno erariale: “L’art.
11, comma 1, lettera c), ii), aggiunge all’art. 17 del d.lgs. n. 165 del 2001,
di disciplina delle funzioni dei dirigenti, la seguente disposizione: «sono
titolari in via esclusiva della responsabilità amministrativo-contabile per
l’attività gestionale, ancorché derivante da atti di indirizzo dell’organo di
vertice politico».
La Commissione speciale svolge due rilievi.
Il primo, formale, attiene all’impiego dell’espressione “titolarità”
riferita alla “responsabilità” nell’ambito di una disposizione che si occupa
dei compiti del dirigente.
Il secondo, sostanziale, attiene alla ragionevolezza della previsione che contempla la responsabilità
unica del dirigente con esclusione di
qualsiasi possibile forma di concorso di responsabilità dell’organo politico.
E’ evidente che la spettanza al dirigente di poteri autonomi di gestione
implichi che sia il dirigente poi a dovere rispondere in sede di accertamento
di responsabilità amministrativo-contabile per gli eventuali danni cagionati al
patrimonio pubblico. Ma è altrettanto
evidente che non si può escludere che l’organo politico individui un obiettivo
che di per sé possa contribuire causalmente a determinare tale danno. Si
tratta di accertamenti di merito che in
quanto tali mal si prestano ad essere imbrigliati in rigide e preclusive
disposizioni normative.
Alla luce di quanto esposto, la
norma dovrebbe essere eliminata dal testo o, in via subordinata, si
potrebbe mantenerla ma al solo fine di ribadire che per: «per l’attività
gestionale, articolata nelle funzioni indicate nel comma precedente, sussiste
l’esclusiva responsabilità amministrativo-contabile del dirigente»”.
L’insieme dei rilievi del
Consiglio di stato, quindi, dovrebbe condurre comunque, al di là del “pudore”
di Palazzo Spada, ad affermare che la riforma risulta viziata principalmente
dall’eliminazione del diritto all’incarico dei dirigenti, diritto, ovviamente
condizionato alla valutazione delle sue capacità, a sua volta condizionato dall’introduzione
di un sistema di valutazione unitario ed efficiente. Tale introduzione
risulterebbe la vera “riforma epocale” della PA. Non appare un caso che,
invece, proprio questo elemento risulti del tutto assente nella riforma.
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