Dirigenza parafulmine
per la responsabilità erariale della politica
Lo schema di decreto legislativo
attuativo della legge Madia prevede la puntuale traduzione in norma del
criterio di delega fissato con la legge 124/2015, tendente ad espandere all’estremo
la cosiddetta “esimente politica” della responsabilità erariale, per scaricarla
integralmente sulla dirigenza.
La riforma, così come
immaginata, dunque finisce per minare in modo molto profondo la garanzia
dell’imparzialità e buon andamento dell’amministrazione. Esse postulano
professionalità, valutazione e piena flessibilità della dirigenza, unitamente,
però, alla necessaria autonomia, che viene del tutto compromessa non solo dalla
totale precarizzazione degli incarichi e dalla politicizzazione degli
incarichi, ma anche dall’intento molto chiaro di trasformare i dirigenti in
soggetti di assoluta fiducia degli organi politici, allo scopo di prestarsi a
fare da scudo, per addossarsi al loro posto le responsabilità erariali, persino
a discapito dell’attuale incarico. Accollarsi la responsabilità erariale per aver
attuato direttive politiche evidentemente contrarie a legge e causative di
danno, col sistema previsto dalla riforma, paradossalmente non sarà causa di
deplorazione per i dirigenti, ma elemento di merito. Il dirigente che accetti
di pagare per la politica davanti alla Corte dei conti, sarà considerato “affidabile”
e continuerà a ricevere incarichi, anche a scapito di altri dirigenti dal
cursus immacolato. Ma, soprattutto, a discapito dell’interesse pubblico alla
corretta amministrazione, definitivamente compromesso da un sistema di
potenziali connivenze sulle responsabilità, foriero di un degrado senza freni
della legalità dell’azione amministrativa.
L’articolo 11, lettera m), della
legge 124/2015 prevede il criterio di delega del “riordino delle disposizioni legislative relative alle ipotesi di
responsabilità dirigenziale, amministrativo-contabile e disciplinare dei
dirigenti e ridefinizione del rapporto tra responsabilità dirigenziale e
responsabilità amministrativo-contabile, con
particolare riferimento alla esclusiva imputabilità ai dirigenti della
responsabilità per l'attività gestionale”. La legge delega ripone
talmente importanza strategica a questa trasformazione della dirigenza in un “cordone
sanitario” contro la responsabilità erariale politica, che questa previsione è
ribadita anche nell’articolo 17, lettera t), sempre della legge 124/2015,
ove si indica al legislatore delegato il criterio del “rafforzamento del principio di separazione
tra indirizzo politico amministrativo e gestione e del conseguente regime di
responsabilità dei dirigenti, anche attraverso l'esclusiva imputabilità agli
stessi della responsabilità amministrativo-contabile per l'attività gestionale”.
Lo schema di decreto legislativo
attuativo dà corpo ai due criteri di delega, introducendo un ultimo periodo
nell’articolo 16, comma 1, lettera d) e una nuova lettera e-ter nell’articolo
17 del d.lgs 165/2001, il cui contenuto riportiamo confrontandolo con la
previsione dell’articolo 21, comma 1, prima parte del medesimo d.lgs 165/2001,
prima parte che, invece, non viene modificata:
Articolo 16, comma 1,
lettera d)
|
Articolo 21, comma 1.
|
d)
adottano gli atti e i provvedimenti amministrativi ed esercitano i poteri di
spesa e quelli di acquisizione delle entrate rientranti nella competenza dei
propri uffici, salvo quelli delegati ai dirigenti, e sono titolari, in relazione a
tale attività gestionale, in via esclusiva della responsabilità
amministrativo-contabile;
|
“Il mancato raggiungimento degli obiettivi accertato
attraverso le risultanze del sistema di valutazione di cui al Titolo II del
decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia
di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza
delle pubbliche amministrazioni ovvero
l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano, previa
contestazione e ferma restando l'eventuale responsabilità disciplinare
secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l'impossibilità di rinnovo dello stesso
incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione
può inoltre, previa contestazione e nel rispetto del principio del
contraddittorio, revocare l'incarico
collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all'articolo 23
ovvero recedere dal rapporto di lavoro
secondo le disposizioni del contratto collettivo”.
|
Articolo 17, comma 1
|
|
“e-ter) sono titolari in via esclusiva della responsabilità
amministrativo-contabile per l’attività gestionale, ancorché derivante da
atti di indirizzo dell’organo di vertice politico”.
|
Un bel guazzabuglio, che come
minimo evidenzia:
1.
vizio di eccesso di delega;
2.
contraddittorietà assoluta sulla definizione dei doveri
e delle responsabilità della dirigenza.
Facciamo un passo indietro. All’epoca
della definizione del testo della legge 124/2015, alcuni esponenti della
maggioranza, in particolare il relatore del ddl in Senato, Guido Pagliari, sostennero
che le disposizioni del ddl sulla responsabilità erariale, poi tradotte nella
normativa in esame, non avrebbero portata innovativa, e che il loro scopo
sarebbe rafforzare la separazione tra politica e dirigenza.
E’, tuttavia, un dato di fatto
che l’intera impostazione della riforma della dirigenza vada nella direzione
diametralmente opposta: la riduzione dell’autonomia dei dirigenti, attraverso
la precarizzazione estrema del loro status.
Una lettura radicale della
riforma? Facciamo un ulteriore passo indietro e andiamo all’8 gennaio 2014,
quando l’attuale premier era ancora sindaco di Firenze ma, sostanzialmente, era
premier in pectore e pochissime settimane dopo, infatti, avrebbe soppiantato
Enrico Letta. Già ragionava da premier e divulgava, con le sue e-news contenuti
di riforma, che sarebbero poi entrati nel programma governativo. L’8 gennaio
2014, nel presentare l’idea del Jobs Act, l’allora sindaco di Firenze previde
il seguente passaggio della riforma: “6. Eliminazione della figura del dirigente a
tempo indeterminato nel settore pubblico. Un dipendente pubblico è a tempo
indeterminato se vince concorso. Un dirigente no. Stop allo strapotere delle
burocrazie ministeriali”.
Come è noto, la riforma del
diritto del lavoro privato, sfociata essenzialmente nei d.lgs 22/2015, 23/2015
e 81/2015, non ha poi contenuto norme specifiche relative al lavoro pubblico,
o, quanto meno, non ha trattato in via diretta il rapporto di lavoro dei
dirigenti pubblici, proprio perché allo scopo si pensò, dopo, di adottare una
norma specificamente dedicata, sfociata nella riforma-Madia.
Tuttavia, allo scopo di
ricostruire i reali intenti delle riforme, questo flashback appare estremamente
interessante: l’intento programmatico è esattamente quello di precarizzare la
dirigenza. La legge 124/2015 e lo schema di decreto legislativo attuativo non
dispongono espressamente che i dirigenti pubblici non debbono avere un rapporto
di lavoro a tempo indeterminato, ma l’introduzione della messa in disponibilità
senza causa, anche in presenza di risultati positivi, laddove l’incarico scada
e ad esso non ne segua uno nuovo, di fatto persegue esattamente l’intento
enunciato quasi tre anni fa.
E’ evidente che la
precarizzazione influisce moltissimo sulla concezione stessa del ruolo e della
funzione che la dirigenza pubblica deve assolvere.
Come è noto, la Corte
costituzionale, a partire dalla sentenza 103/2007, ha sviluppato e approfondito
la teoria, condivisibilissima, dell’incostituzionalità dello spoil system, riferendolo per altro non
al rapporto di lavoro a tempo determinato dei dirigenti, sibbene al solo
incarico dirigenziale a tempo determinato, ammettendo tuttavia che gli
incarichi (cioè la concreta preposizione agli uffici) nei massimi vertici,
quelli più vicini agli organi di governo, possano decadere in uno con la
scadenza del mandato politico.
Se l’indicazione programmatica
dell’allora sindaco si fosse limitata ai vertici superiori dei ministri, le
cose sarebbero rimaste quasi esattamente come stanno ancora oggi.
Ma, in realtà, il principio
programmatico del gennaio 2014 è un altro, molto chiaro: eliminare la “figura”
del dirigente a tempo indeterminato in quanto tale, senza troppo sottilizzare
se si tratti di dirigenza “apicale” o meno. Il tutto, ovviamente, non tenendo
conto alcuno della consolidata giurisprudenza costituzionale, la quale sostiene
che il rapporto “servente” della dirigenza rispetto alla politica non deve
ledere l’autonomia operativa della dirigenza medesima, che è comunque tenuta ad
agire nell’esclusivo interesse della Nazione (articolo 98 della Costituzione)
ed in modo imparziale (articolo 97 della Costituzione) così da attuare sul
piano tecnico gli indirizzi generali espressi dagli organi di governo.
Pertanto, non è ammissibile configurare come “fiduciario” il rapporto tra politica
e dirigenza, nè corretto collegare gli incarichi dirigenziali alla durata del
mandato politico, perchè si violerebbero i principi enunciati dagli articoli 97
e 98 della Costituzione, nonchè l’ulteriore principio desumibile da quello del
“buon andamento”, ovvero quello della continuità dell’azione amministrativa.
Si è, invece, formata la
convinzione che la dirigenza, se autonoma e non vincolata da un rapporto di
fiducia innanzitutto politico (fino all’appartenenza politica) con l’organo di
governo, non sia affidabile. Tanto da poter di fatto “soverchiare” la politica,
forte della circostanza che “i ministri passano, i dirigenti restano”.
All’indomani della proposta di
creare una dirigenza solo a termine molta stampa plaudì all’idea. Su Italia
Oggi del 10 gennaio 2014, nell’articolo “Renzi,
dirigenti solo a termine” Goffredo Pistelli ebbe ascrivere: “Il Rottamatore dimostra di conoscere bene la
storia della seconda repubblica, in cui s'è andata affermando una legislazione
che ha riconosciuto ai dirigenti pubblici un alveo di autonomia, quasi una
terzietà, formalmente legato alla competenze. La politica ha il potere di
indirizzo, si è andato ripetendo come un mantra, mentre alla dirigenza va la
potestà dell'applicazione, nel rispetto di leggi e regolamenti. Ineccepibile. Senonché
in regioni, province, comuni e, ovviamente, nei ministeri e negli enti centrali
dello Stato, si è cominciato ad
affermare il costume della dirigenza che non firmava i provvedimenti.
Questa singolare obiezione di coscienza
professionale, bypassabile in punta di diritto, finiva spesso per mettere con le spalle al muro la politica, spesso timorosa
di avere a che fare con le procure contabili e coi le richieste di danno
erariale, prima che con quelle penali”.
Senza giri di parole, le
affermazioni del Pistelli sono semplicemente sconcertanti e paiono fornire
ancora oggi la chiave di lettura corretta della riforma della responsabilità
che ora si vede nel testo del decreto legislativo attuativo della legge Madia.
Letta al contrario, la considerazione del Pistelli pare legittimare la
conclusione secondo la quale compito della dirigenza è “firmare” tutto ad ogni
costo, anche se la decisione da firmare risulti fonte di danno erariale e,
addirittura, illecito penale, magari allo scopo di “coprire” il politico di
riferimento del dirigente. Comunque, il dirigente, se riceve una direttiva
politica produttiva di danno, non potrebbe, secondo questa visione, fermarsi perché
la direttiva in “punta di diritto” non sarebbe corretta, ma dovrebbe darvi
corso, comunque, senza dover fermarsi nemmeno di fronte alla responsabilità
erariale connessa con l’atto lesivo.
Si è portata avanti, dunque, una
concezione della dirigenza di natura feudale, che mette da parte totalmente
qualsiasi principio discendente non solo dalla Costituzione, ma anche la
scienza dell’amministrazione. L’agire amministrativo, infatti, non è e non deve
essere finalizzato a creare un “corpo” unico di politica e dirigenza ad essa
contigua, che decidano con sprezzo della corretta amministrazione e del codice
penale, bensì al perseguimento dell’interesse generale. Insomma, non funziona
con lo schema “io decido, tu te ne assumi le responsabilità erariali e penali”,
ma “io programmo, tu ti assumi la responsabilità di attuare le indicazioni, con
la gestione più corretta ed efficace, senza creare danno alla finanza pubblica
e senza commettere reati”.
Figli del primo schema sono la
corruzione, che tanto si combatte a parole e con l’assurda burocrazia generata
dalla legge 190/2012, incapace di conteneree le “cricche”, o le Mafia Capitale
che la pochissima memoria sia degli italiani, sia, purtroppo, dei media hanno
fin troppo presto lasciato scivolare nell’oblio.
Eppure, la stessa stampa
generalista, che in questo momento appende i gran pavesi di bandiere e brinda
all’idea della dirigenza solo a tempo determinato, fornisce fulgidi esempi di
quanto una dirigenza debole, ricattabile con lo sventolio del termine apposto
al contratto di lavoro, asservita alla politica, possa risultare dannosa per la
collettività.
Tale concezione della dirigenza
è esattamente quella, certamente deviante, emersa nell’inchiesta sulle
ingerenze della deputata De Girolamo nei riguardi delle Usl del Sannio. Celeberrimo,
resta l’atto di fede del direttore generale della Usl: “Nunzia io non resterei un secondo di più qui alla Asl, se non per te e
con te, perché la nomina l'ho chiesta a te, tu me l'hai data ed è giusto che ci
sia un riscontro”.
Essendo questi alcuni dei fatti
di cronaca che narrano di come vi sia poca tolleranza verso una dirigenza
imparziale, perché venga sostituita con una dirigenza in tutto soggetta alla
politica, si evidenzia molto bene che l’idea della riforma, fatta passare per
“modernizzazione”, miri piuttosto alla creazione di un apparato che da
“servente” passi a “servile”. Ecco, ancora, altre parole del Pistelli, tratte
dall’articolo citato sopra: “Nella terza
repubblica di cui vuol strenuamente diventare protagonista, Renzi immagina una
politica che fa la politica cioè che valuta e decide. E una burocrazia, fatta di dirigenti a termine, e che quindi hanno lo
stimolo a farsi riconfermare per la loro efficacia e non hanno il paracadute di
un profilo garantito ab aeternum, una burocrazia, dicevamo, che si faccia in
quattro per applicare. Presto e bene”.
Ma simile burocrazia “che si fa
in quattro” assomiglia moltissimo a quei dirigenti della Provincia di Firenze
che, Renzi presidente, nulla ebbero da obiettare, anzi eseguirono “al volo” le
delibere di assunzione di decine di portaborse del presidente e degli
assessori, inquadrandoli in categorie di laureati, pur essendo privi di laurea.
La “politica che fa la politica” decise; i dirigenti “si fecero in quattro”, ma
il risultato è stato un abuso.
Tornando ad oggi, non si può
fare a meno di notare che l’intenzione di formare una dirigenza precaria che “firmi”
tutto, anche quando ciò sia contrario a legge, e paghi di persona al posto
della politica che formi direttive illegittime appare evidente.
Le modifiche al regime della
responsabilità operate dalla riforma Madia sono del tutto in linea con
l’assoggettamento della dirigenza alla politica, quale sua longa manus.
Nell’attuale e vigente assetto
ordinamentale, i dirigenti rispondono di già (e da sempre) per responsabilità
amministrativa connessa ai propri atti gestionali.
E’ bene, però, ricordare che, sempre
nell’ordinamento già vigente, i dirigenti non rispondono davanti alla
magistratura contabile dei provvedimenti adottati dagli organi di governo
nell’esercizio della propria competenza di espressione di indirizzo
politico-amministrativo, se non per i pareri tecnici o gli atti istruttori che
ne costituiscono il presupposto necessario.
E’ evidente che la riforma
introduce un elemento nuovo: “l’esclusiva
imputabilità” dei dirigenti per la responsabilità amministrativa dovuta
all’adozione di atti gestionali. La legge delega, sostanzialmente, introduce
una vera e propria non imputabilità per responsabilità amministrativa in favore
degli organi politici di governo.
Infatti, il meccanismo introdotto
prevede che gli organi politici non potranno essere coinvolti dalla Corte dei
conti come parti in causa in azioni su atti che, anche se legati a doppio filo
a scelte politiche, siano sottoscritti dai dirigenti. E’ il potenziamento dell’esimente
politica, prevista dall’articolo 1, comma 1-ter, della legge 20/1994, ai sensi
del quale “nel caso di deliberazioni di organi collegiali la responsabilità
si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole. Nel caso di atti che rientrano nella
competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non
si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano
approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione”.
Come si nota, la norma citata
contempla espressamente un legame tra adozione di atti di competenza
dell’apparato amministrativo (dirigenti o responsabili di servizi) e titolari
degli organi politici, allorquando questi ultimi abbiano autorizzato o in
qualsiasi modo consentito (cioè, abbiano “spinto” o abbiano indotto, o
concertato) oltre che l’adozione, anche l’esecuzione del provvedimento sottoscritto
dal dirigente.
Invece, per effetto della
riforma scatterebbe un’assoluta non imputabilità, tale, quindi, da impedire la
chiamata in giudizio degli organi di governo, anche laddove l’atto gestionale
fosse stato adottato ed eseguito dal dirigente, su induzione dell’organo di
governo.
La conclusione, dunque, non è
che una sola: la legge delega crea una sfera di non imputabilità degli organi
politici, estremamente dannosa. Infatti, potrebbe indurre gli organi politici,
più di quanto già non avvenga adesso, a selezionare
i dirigenti in base a quanto essi, come dimostrazione di gratitudine
per l’incarico o prova della fedeltà o, ancora, modo per evitare di restare
senza incarico e, dunque, destinati al licenziamento, siano disposti a coprire
scelte politiche discutibili con la firma di atti dannosi, a scudo
dell’incaricante.
La riforma, letta nelle sue
combinazioni di strumenti e norme, insomma, costruisce una dirigenza davvero
succuba del potere politico e costruita per assecondarne gli intenti di
costruzione del consenso, più che il perseguimento dell’interesse generale,
agendo nel rispetto degli indirizzi, ma con autonomia tecnica ed operativa.
Il rischio è che trovino sempre
più spazio i dirigenti disponibili a mettere nel conto la necessità di fare da
parafulmine, apponendo la propria firma su atti gestionali a copertura di
scelte politiche non legittime o, comunque, non rispondendo ai fini generali e
che l’intera dirigenza possa essere in futuro selezionata sulla base della
disponibilità a svolgere non una funzione gestionale, trasparente ed
imparziale, ma un’attività funzionale alla conservazione del potere di chi la
nomina e dispone di formidabili strumenti di pressione e coercizione.
Andiamo al vizio di eccesso di
delega. Se le disposizioni dell’articolo 11, lettera m), e 17, lettera t),
della legge 124/2015 potevano non apparire del tutto esplicite in merito alla
costruzione di una dirigenza vista come parafulmine, il decreto legislativo
attuativo pare togliere ogni residuo dubbio.
Infatti, la nuova lettera e-ter
dell’articolo 17 del d.lgs 165/2001 non solo prevede che i dirigenti siano
titolari in via esclusiva della responsabilità amministrativo-contabile
derivante dall’attività gestionale, ma precisa che tale responsabilità resti
esclusiva anche l’attività gestionale attui atti di indirizzo dell’organo di
vertice politico.
Ora, non v’è dubbio che la
riforma è esattamente lì che vuole arrivare. Tuttavia, la delega non ha
espressamente previsto che la responsabilità esclusiva della dirigenza facesse
da scudo anche ad indirizzi politici sbagliati e forieri di danno erariale.
Sarebbero comunque rimasti
margini alla Corte dei conti per valutare, fino ad escludere, l’esimente
politica.
Invece la formulazione della
nuova lettera impedirà alla magistratura contabile di imputare mai alcunché agli
organi di vertice politico, anche se l’atto gestionale adottato dai dirigenti e
poi produttivo di danno sia null’altro se non appunto la traduzione in atti di
direttive che costituiscano la base della linea causa-effetto del danno
erariale prodottosi.
E c’è di più. La previsione
della responsabilità erariale esclusiva ancorchè discendente da direttive di
vertice si riscontra solo nella lettera e-ter nell’articolo 17 del d.lgs
165/2001, ma non nell’articolo 16, comma 1, lettera d). Insomma, sui dirigenti
non di vertice si scarica una responsabilità maggiore estendendo senza confini
l’esimente politica alla sola attività dei dirigenti non di vertice: forse perché
i dirigenti generali in effetti sono da sempre molto connessi alla politica ed
anche loro hanno il compito di esprimere direttive aventi anche natura
politica?
Andando alla seconda questione,
concernente la contraddittorietà assoluta sulla definizione dei doveri e delle
responsabilità della dirigenza, esaminiamo ancora la legge 124/2015 e l’articolo
11, lettera m), che contiene, a proposito della responsabilità dirigenziale, altri
due criteri di delega:
-
limitazione della responsabilità dirigenziale alle
ipotesi di cui all'articolo 21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165;
-
limitazione della responsabilità disciplinare ai
comportamenti effettivamente imputabili ai dirigenti stessi;
In relazione alla gravità della
violazione accertata, la responsabilità dirigenziale implica, dunque, tre
possibili conseguenze:
1.
il mancato rinnovo dell’incarico, al momento della
scadenza; ma, questa “sanzione” nella realtà appare piuttosto depotenziata dal
nuovo sistema dei ruoli unici, che nella realtà impedisce di per sé il rinnovo
degli incarichi; ciò testimonia come il sistema della “rotazione obbligata”
degli incarichi impostato dalla riforma sia fortemente penalizzante, in quanto
generalizza per i dirigenti una misura, l’impossibilità del rinnovo degli
incarichi, fin qui prevista come sanzione per incapacità di ottenere risultati
adeguati;
2.
la revoca dell’incarico: in questo caso, l’organo di
governo stabilisce di far cessare il dirigente dall’incarico prima ancora della
scadenza;
3.
la risoluzione del rapporto di lavoro: una vera e
propria ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o giusta
causa.
Ora, che la responsabilità
dirigenziale resti circoscritta alla sua disciplina normativa non c’erano
dubbi. Non si capisce, dunque, quale sia la portata della delega, laddove
conferma che la responsabilità dirigenziale resti confermata entro i confini
dell’articolo 21 del d.lgs 165/2001, posto che, al contrario, come detto prima,
la riforma nel suo complesso generalizza il mancato rinnovo come sistema di
gestione della dirigenza, a prescindere dagli esiti della gestione dei
dirigenti. Per altro, il decreto legislativo attuativo della legge 124/2015
estende al parossismo la responsabilità dirigenziale, introducendo ulteriori
casi nell’articolo 21[1], molto
generici e confusi, tanto da creare una vera e propria responsabilità “oggettiva”,
derivante dalla semplice circostanza di rivestire la qualifica dirigenziale.
Leggendo il testo del decreto
legislativo attuativo della legge, si riscontra che nessuno dei due ulteriori
criteri di delega è stato tradotto in norma. In particolare manca il secondo,
quello della limitazione della responsabilità disciplinare ai “comportamenti
effettivamente imputabili” ai dirigenti stessi. In effetti, non si riesce a
capire quale sarebbe la concreta portata e l’intento della previsione
normativa, posto che la responsabilità disciplinare è personale, sicchè per sua
natura non può che dipendere da un comportamento commissivo od omissivo del
dirigente, direttamente collegato all’evento illecito e, quindi, da “comportamenti
effettivamente imputabili”.
In ogni caso, il decreto
legislativo attuativo non contiene nessuna possibile limitazione della
responsabilità dirigenziale.
Al contrario, modificando come
visto gli articoli 16 e 17 e prevedendo la responsabilità erariale esclusiva
dei dirigenti per la gestione, anche se derivante da direttive del vertice
politico, crea una contraddizione paradossale ed insanabile proprio con l’articolo
21.
Infatti, da un lato, l’attribuzione
ai dirigenti della responsabilità erariale esclusiva, anche se discendente da
direttive politiche, implica che i dirigenti per evitarla dovrebbero
necessariamente adottare scelte gestionali diverse da quelle derivanti dagli
indirizzi del vertice politico.
Il che, in un’organizzazione
impostata non sul principio di gerarchia, bensì su quello della competenza, è
ammissibile: la direttiva non è un ordine di servizio e lascia margini al
destinatario per discostarvisi, motivatamente.
Tuttavia, il dirigente incappa
nella responsabilità dirigenziale che può inibirgli per sempre il rinnovo dell’incarico
(anche a seguito di nuovo interpello) o costargli la revoca anticipata per
responsabilità (che dimezza il tempo di permanenza in disponibilità prima del
licenziamento ad un anno) o direttamente il licenziamento, proprio per “inosservanza
delle direttive” a lui imputabile.
La riforma crea un vicolo cieco
paradossale:
1. se
il dirigente adotta atti gestionali conformi ad indirizzi politici (cioè, a
direttive) potenzialmente lesive della corretta gestione e fonte di
responsabilità erariale, risponde direttamente del danno erariale, al posto
degli organi politici che, pure, con la direttiva, hanno innescato la gestione
dannosa;
2. se
il dirigente, tuttavia, si discosti dalla direttiva e, quindi, dia corso a loro
inosservanza, rischia come minimo il mancato rinnovo dell’incarico attualmente,
se non la revoca o peggio il licenziamento.
Un sistema, questo, davvero
contrario a qualsiasi principio di buon andamento e garanzia dell’interesse
pubblico. Esattamente come richiesto dalla stampa generalista, i dirigenti
vengono spinti a scegliere il minore dei mali: affrontare il rischio della
responsabilità erariale, pur di non mettersi di traverso alle direttive politiche
illegittime e non rischiare non solo il mancato rinnovo dell’incarico, o la sua
revoca anticipata o il licenziamento, ma, soprattutto, di essere segnalato ed
additato come dirigente che “crea problemi” alla politica, ne vìola le
direttive, si mette in contrasto con essa, e così rischiare ulteriormente di
non essere mai più incaricato nella lotteria dell’assegnazione degli incarichi,
prevista dalla riforma.
Il tutto, a danno dei cittadini
e delle imprese: si deve ricordare che la responsabilità erariale è un’azione
di risarcimento di un danno alle casse pubbliche, attivata dopo che quel danno
si è prodotto e, per altro, mai in grado di recuperarlo del tutto ed in tempi
celeri.
Il tutto appare confermato dalla
mancata attuazione di un altro criterio di delega, previsto dall’articolo 11,
lettera q), della legge 124/2015: “previsione
di ipotesi di revoca dell'incarico e di divieto di rinnovo di conferimento di
incarichi in settori sensibili ed esposti al rischio di corruzione, in presenza
di condanna anche non definitiva, da parte della Corte dei conti, al
risarcimento del danno erariale per condotte dolose”. Una simile norma
avrebbe ulteriormente aggravato e reso ancor più paradossale il sistema della
responsabilità dei dirigenti; ma, avrebbe anche potuto in qualche misura rafforzarne
la determinazione a non eseguire le direttive produttive di danno, allo scopo
di non esporsi alla condotta dolosa che comporterebbe oltre alla condanna per
danno erariale anche la revoca dell’incarico e l’inibizione ad incarichi
delicati per la corruzione. Non pare un caso, alla luce delle riflessioni sin qui
condotte, che tale criterio non sia stato preso in nessuna considerazione dal
decreto attuativo.
Una simile riforma della
responsabilità vìola drammaticamente la Costituzione e ogni razionale gestione,
perché di fatto spinge appunto i dirigenti a farsi da parafulmine, accettare ed
attuare qualsiasi direttiva pur di non compromettere la successiva
candidabilità ad incarichi, anche a costo di procurare danni all’erario,
contando in primo luogo nella buona sorte sperando di non essere scoperti o
condannati, ma, soprattutto, sperando che l’esercizio della funzione di parafulmine
valga il rinnovo dell’incarico o un altro nuovo incarico. Come se, insomma, il
pagamento del danno erariale fosse una sorta di “tassa occulta” a carico di
ogni dirigente, anche se, nella realtà, i moltissimi casi di danni che la
riforma così impostata potrebbero produrre alla fine si concretizzerebbero in
un’immane ed in quantificabile tassa occulta per tutti i cittadini.
Luigi Oliveri
[1] Se ne riporta il testo:
“Costituiscono mancato raggiungimento degli obiettivi:
la valutazione negativa della struttura di appartenenza, riscontrabile anche da
rilevazioni esterne; la reiterata omogeneità delle valutazioni del proprio
personale, a fronte di valutazione negativa o comunque non positiva della performance
organizzativa della struttura, e in particolare il mancato rispetto della percentuale
del personale prevista dalla legge, o della diversa percentuale oggetto di negoziazione,
cui attribuire indennità premiali, secondo le indicazioni dei contratti
collettivi di lavoro; il riscontrato mancato controllo sulle presenze, e sul
contributo qualitativo dell'attività lavorativa di ciascun dipendente; la
mancata rimozione di fattori causali di illecito; il mancato rispetto delle
norme sulla trasparenza, che abbiano determinato un giudizio negativo
dell'utenza sull'operato della pubblica amministrazione e sull'accessibilità ai
relativi servizi; il mancato rispetto dei tempi nella programmazione e nella verifica
dei risultati imputabile alla dirigenza.
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