domenica 2 ottobre 2016

Dirigenza parafulmine per la responsabilità erariale della politica

Dirigenza parafulmine per la responsabilità erariale della politica

Lo schema di decreto legislativo attuativo della legge Madia prevede la puntuale traduzione in norma del criterio di delega fissato con la legge 124/2015, tendente ad espandere all’estremo la cosiddetta “esimente politica” della responsabilità erariale, per scaricarla integralmente sulla dirigenza.

La riforma, così come immaginata, dunque finisce per minare in modo molto profondo la garanzia dell’imparzialità e buon andamento dell’amministrazione. Esse postulano professionalità, valutazione e piena flessibilità della dirigenza, unitamente, però, alla necessaria autonomia, che viene del tutto compromessa non solo dalla totale precarizzazione degli incarichi e dalla politicizzazione degli incarichi, ma anche dall’intento molto chiaro di trasformare i dirigenti in soggetti di assoluta fiducia degli organi politici, allo scopo di prestarsi a fare da scudo, per addossarsi al loro posto le responsabilità erariali, persino a discapito dell’attuale incarico. Accollarsi la responsabilità erariale per aver attuato direttive politiche evidentemente contrarie a legge e causative di danno, col sistema previsto dalla riforma, paradossalmente non sarà causa di deplorazione per i dirigenti, ma elemento di merito. Il dirigente che accetti di pagare per la politica davanti alla Corte dei conti, sarà considerato “affidabile” e continuerà a ricevere incarichi, anche a scapito di altri dirigenti dal cursus immacolato. Ma, soprattutto, a discapito dell’interesse pubblico alla corretta amministrazione, definitivamente compromesso da un sistema di potenziali connivenze sulle responsabilità, foriero di un degrado senza freni della legalità dell’azione amministrativa.
L’articolo 11, lettera m), della legge 124/2015 prevede il criterio di delega del “riordino delle disposizioni legislative relative alle ipotesi di responsabilità dirigenziale, amministrativo-contabile e disciplinare dei dirigenti e ridefinizione del rapporto tra responsabilità dirigenziale e responsabilità amministrativo-contabile, con particolare riferimento alla esclusiva imputabilità ai dirigenti della responsabilità per l'attività gestionale”. La legge delega ripone talmente importanza strategica a questa trasformazione della dirigenza in un “cordone sanitario” contro la responsabilità erariale politica, che questa previsione è ribadita anche nell’articolo 17, lettera t), sempre della legge 124/2015, ove si indica al legislatore delegato il criterio del “rafforzamento del principio di separazione tra indirizzo politico amministrativo e gestione e del conseguente regime di responsabilità dei dirigenti, anche attraverso l'esclusiva imputabilità agli stessi della responsabilità amministrativo-contabile per l'attività gestionale”.
Lo schema di decreto legislativo attuativo dà corpo ai due criteri di delega, introducendo un ultimo periodo nell’articolo 16, comma 1, lettera d) e una nuova lettera e-ter nell’articolo 17 del d.lgs 165/2001, il cui contenuto riportiamo confrontandolo con la previsione dell’articolo 21, comma 1, prima parte del medesimo d.lgs 165/2001, prima parte che, invece, non viene modificata:
Articolo 16, comma 1, lettera d)
Articolo 21, comma 1.
d) adottano gli atti e i provvedimenti amministrativi ed esercitano i poteri di spesa e quelli di acquisizione delle entrate rientranti nella competenza dei propri uffici, salvo quelli delegati ai dirigenti, e sono titolari, in relazione a tale attività gestionale, in via esclusiva della responsabilità amministrativo-contabile;
Il mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze del sistema di valutazione di cui al Titolo II del decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni ovvero l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano, previa contestazione e ferma restando l'eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l'impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione può inoltre, previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio, revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all'articolo 23 ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo”.
Articolo 17, comma 1
e-ter) sono titolari in via esclusiva della responsabilità amministrativo-contabile per l’attività gestionale, ancorché derivante da atti di indirizzo dell’organo di vertice politico”.
Un bel guazzabuglio, che come minimo evidenzia:
1.      vizio di eccesso di delega;
2.      contraddittorietà assoluta sulla definizione dei doveri e delle responsabilità della dirigenza.
Facciamo un passo indietro. All’epoca della definizione del testo della legge 124/2015, alcuni esponenti della maggioranza, in particolare il relatore del ddl in Senato, Guido Pagliari, sostennero che le disposizioni del ddl sulla responsabilità erariale, poi tradotte nella normativa in esame, non avrebbero portata innovativa, e che il loro scopo sarebbe rafforzare la separazione tra politica e dirigenza.
E’, tuttavia, un dato di fatto che l’intera impostazione della riforma della dirigenza vada nella direzione diametralmente opposta: la riduzione dell’autonomia dei dirigenti, attraverso la precarizzazione estrema del loro status.
Una lettura radicale della riforma? Facciamo un ulteriore passo indietro e andiamo all’8 gennaio 2014, quando l’attuale premier era ancora sindaco di Firenze ma, sostanzialmente, era premier in pectore e pochissime settimane dopo, infatti, avrebbe soppiantato Enrico Letta. Già ragionava da premier e divulgava, con le sue e-news contenuti di riforma, che sarebbero poi entrati nel programma governativo. L’8 gennaio 2014, nel presentare l’idea del Jobs Act, l’allora sindaco di Firenze previde il seguente passaggio della riforma: “6. Eliminazione della figura del dirigente a tempo indeterminato nel settore pubblico. Un dipendente pubblico è a tempo indeterminato se vince concorso. Un dirigente no. Stop allo strapotere delle burocrazie ministeriali”.
Come è noto, la riforma del diritto del lavoro privato, sfociata essenzialmente nei d.lgs 22/2015, 23/2015 e 81/2015, non ha poi contenuto norme specifiche relative al lavoro pubblico, o, quanto meno, non ha trattato in via diretta il rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici, proprio perché allo scopo si pensò, dopo, di adottare una norma specificamente dedicata, sfociata nella riforma-Madia.
Tuttavia, allo scopo di ricostruire i reali intenti delle riforme, questo flashback appare estremamente interessante: l’intento programmatico è esattamente quello di precarizzare la dirigenza. La legge 124/2015 e lo schema di decreto legislativo attuativo non dispongono espressamente che i dirigenti pubblici non debbono avere un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ma l’introduzione della messa in disponibilità senza causa, anche in presenza di risultati positivi, laddove l’incarico scada e ad esso non ne segua uno nuovo, di fatto persegue esattamente l’intento enunciato quasi tre anni fa.
E’ evidente che la precarizzazione influisce moltissimo sulla concezione stessa del ruolo e della funzione che la dirigenza pubblica deve assolvere.
Come è noto, la Corte costituzionale, a partire dalla sentenza 103/2007, ha sviluppato e approfondito la teoria, condivisibilissima, dell’incostituzionalità dello spoil system, riferendolo per altro non al rapporto di lavoro a tempo determinato dei dirigenti, sibbene al solo incarico dirigenziale a tempo determinato, ammettendo tuttavia che gli incarichi (cioè la concreta preposizione agli uffici) nei massimi vertici, quelli più vicini agli organi di governo, possano decadere in uno con la scadenza del mandato politico.
Se l’indicazione programmatica dell’allora sindaco si fosse limitata ai vertici superiori dei ministri, le cose sarebbero rimaste quasi esattamente come stanno ancora oggi.
Ma, in realtà, il principio programmatico del gennaio 2014 è un altro, molto chiaro: eliminare la “figura” del dirigente a tempo indeterminato in quanto tale, senza troppo sottilizzare se si tratti di dirigenza “apicale” o meno. Il tutto, ovviamente, non tenendo conto alcuno della consolidata giurisprudenza costituzionale, la quale sostiene che il rapporto “servente” della dirigenza rispetto alla politica non deve ledere l’autonomia operativa della dirigenza medesima, che è comunque tenuta ad agire nell’esclusivo interesse della Nazione (articolo 98 della Costituzione) ed in modo imparziale (articolo 97 della Costituzione) così da attuare sul piano tecnico gli indirizzi generali espressi dagli organi di governo. Pertanto, non è ammissibile configurare come “fiduciario” il rapporto tra politica e dirigenza, nè corretto collegare gli incarichi dirigenziali alla durata del mandato politico, perchè si violerebbero i principi enunciati dagli articoli 97 e 98 della Costituzione, nonchè l’ulteriore principio desumibile da quello del “buon andamento”, ovvero quello della continuità dell’azione amministrativa.
Si è, invece, formata la convinzione che la dirigenza, se autonoma e non vincolata da un rapporto di fiducia innanzitutto politico (fino all’appartenenza politica) con l’organo di governo, non sia affidabile. Tanto da poter di fatto “soverchiare” la politica, forte della circostanza che “i ministri passano, i dirigenti restano”.
All’indomani della proposta di creare una dirigenza solo a termine molta stampa plaudì all’idea. Su Italia Oggi del 10 gennaio 2014, nell’articolo “Renzi, dirigenti solo a termine” Goffredo Pistelli ebbe ascrivere: “Il Rottamatore dimostra di conoscere bene la storia della seconda repubblica, in cui s'è andata affermando una legislazione che ha riconosciuto ai dirigenti pubblici un alveo di autonomia, quasi una terzietà, formalmente legato alla competenze. La politica ha il potere di indirizzo, si è andato ripetendo come un mantra, mentre alla dirigenza va la potestà dell'applicazione, nel rispetto di leggi e regolamenti. Ineccepibile. Senonché in regioni, province, comuni e, ovviamente, nei ministeri e negli enti centrali dello Stato, si è cominciato ad affermare il costume della dirigenza che non firmava i provvedimenti. Questa singolare obiezione di coscienza professionale, bypassabile in punta di diritto, finiva spesso per mettere con le spalle al muro la politica, spesso timorosa di avere a che fare con le procure contabili e coi le richieste di danno erariale, prima che con quelle penali”.
Senza giri di parole, le affermazioni del Pistelli sono semplicemente sconcertanti e paiono fornire ancora oggi la chiave di lettura corretta della riforma della responsabilità che ora si vede nel testo del decreto legislativo attuativo della legge Madia. Letta al contrario, la considerazione del Pistelli pare legittimare la conclusione secondo la quale compito della dirigenza è “firmare” tutto ad ogni costo, anche se la decisione da firmare risulti fonte di danno erariale e, addirittura, illecito penale, magari allo scopo di “coprire” il politico di riferimento del dirigente. Comunque, il dirigente, se riceve una direttiva politica produttiva di danno, non potrebbe, secondo questa visione, fermarsi perché la direttiva in “punta di diritto” non sarebbe corretta, ma dovrebbe darvi corso, comunque, senza dover fermarsi nemmeno di fronte alla responsabilità erariale connessa con l’atto lesivo.
Si è portata avanti, dunque, una concezione della dirigenza di natura feudale, che mette da parte totalmente qualsiasi principio discendente non solo dalla Costituzione, ma anche la scienza dell’amministrazione. L’agire amministrativo, infatti, non è e non deve essere finalizzato a creare un “corpo” unico di politica e dirigenza ad essa contigua, che decidano con sprezzo della corretta amministrazione e del codice penale, bensì al perseguimento dell’interesse generale. Insomma, non funziona con lo schema “io decido, tu te ne assumi le responsabilità erariali e penali”, ma “io programmo, tu ti assumi la responsabilità di attuare le indicazioni, con la gestione più corretta ed efficace, senza creare danno alla finanza pubblica e senza commettere reati”.
Figli del primo schema sono la corruzione, che tanto si combatte a parole e con l’assurda burocrazia generata dalla legge 190/2012, incapace di conteneree le “cricche”, o le Mafia Capitale che la pochissima memoria sia degli italiani, sia, purtroppo, dei media hanno fin troppo presto lasciato scivolare nell’oblio.
Eppure, la stessa stampa generalista, che in questo momento appende i gran pavesi di bandiere e brinda all’idea della dirigenza solo a tempo determinato, fornisce fulgidi esempi di quanto una dirigenza debole, ricattabile con lo sventolio del termine apposto al contratto di lavoro, asservita alla politica, possa risultare dannosa per la collettività.
Tale concezione della dirigenza è esattamente quella, certamente deviante, emersa nell’inchiesta sulle ingerenze della deputata De Girolamo nei riguardi delle Usl del Sannio. Celeberrimo, resta l’atto di fede del direttore generale della Usl: “Nunzia io non resterei un secondo di più qui alla Asl, se non per te e con te, perché la nomina l'ho chiesta a te, tu me l'hai data ed è giusto che ci sia un riscontro”.
Essendo questi alcuni dei fatti di cronaca che narrano di come vi sia poca tolleranza verso una dirigenza imparziale, perché venga sostituita con una dirigenza in tutto soggetta alla politica, si evidenzia molto bene che l’idea della riforma, fatta passare per “modernizzazione”, miri piuttosto alla creazione di un apparato che da “servente” passi a “servile”. Ecco, ancora, altre parole del Pistelli, tratte dall’articolo citato sopra: “Nella terza repubblica di cui vuol strenuamente diventare protagonista, Renzi immagina una politica che fa la politica cioè che valuta e decide. E una burocrazia, fatta di dirigenti a termine, e che quindi hanno lo stimolo a farsi riconfermare per la loro efficacia e non hanno il paracadute di un profilo garantito ab aeternum, una burocrazia, dicevamo, che si faccia in quattro per applicare. Presto e bene”.
Ma simile burocrazia “che si fa in quattro” assomiglia moltissimo a quei dirigenti della Provincia di Firenze che, Renzi presidente, nulla ebbero da obiettare, anzi eseguirono “al volo” le delibere di assunzione di decine di portaborse del presidente e degli assessori, inquadrandoli in categorie di laureati, pur essendo privi di laurea. La “politica che fa la politica” decise; i dirigenti “si fecero in quattro”, ma il risultato è stato un abuso.
Tornando ad oggi, non si può fare a meno di notare che l’intenzione di formare una dirigenza precaria che “firmi” tutto, anche quando ciò sia contrario a legge, e paghi di persona al posto della politica che formi direttive illegittime appare evidente.
Le modifiche al regime della responsabilità operate dalla riforma Madia sono del tutto in linea con l’assoggettamento della dirigenza alla politica, quale sua longa manus.
Nell’attuale e vigente assetto ordinamentale, i dirigenti rispondono di già (e da sempre) per responsabilità amministrativa connessa ai propri atti gestionali.
E’ bene, però, ricordare che, sempre nell’ordinamento già vigente, i dirigenti non rispondono davanti alla magistratura contabile dei provvedimenti adottati dagli organi di governo nell’esercizio della propria competenza di espressione di indirizzo politico-amministrativo, se non per i pareri tecnici o gli atti istruttori che ne costituiscono il presupposto necessario.
E’ evidente che la riforma introduce un elemento nuovo: “l’esclusiva imputabilità” dei dirigenti per la responsabilità amministrativa dovuta all’adozione di atti gestionali. La legge delega, sostanzialmente, introduce una vera e propria non imputabilità per responsabilità amministrativa in favore degli organi politici di governo.
Infatti, il meccanismo introdotto prevede che gli organi politici non potranno essere coinvolti dalla Corte dei conti come parti in causa in azioni su atti che, anche se legati a doppio filo a scelte politiche, siano sottoscritti dai dirigenti. E’ il potenziamento dell’esimente politica, prevista dall’articolo 1, comma 1-ter, della legge 20/1994, ai sensi del quale “nel caso di deliberazioni di organi collegiali la responsabilità si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole. Nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione”.
Come si nota, la norma citata contempla espressamente un legame tra adozione di atti di competenza dell’apparato amministrativo (dirigenti o responsabili di servizi) e titolari degli organi politici, allorquando questi ultimi abbiano autorizzato o in qualsiasi modo consentito (cioè, abbiano “spinto” o abbiano indotto, o concertato) oltre che l’adozione, anche l’esecuzione del provvedimento sottoscritto dal dirigente.
Invece, per effetto della riforma scatterebbe un’assoluta non imputabilità, tale, quindi, da impedire la chiamata in giudizio degli organi di governo, anche laddove l’atto gestionale fosse stato adottato ed eseguito dal dirigente, su induzione dell’organo di governo.
La conclusione, dunque, non è che una sola: la legge delega crea una sfera di non imputabilità degli organi politici, estremamente dannosa. Infatti, potrebbe indurre gli organi politici, più di quanto già non avvenga adesso, a selezionare i dirigenti in base a quanto essi, come dimostrazione di gratitudine per l’incarico o prova della fedeltà o, ancora, modo per evitare di restare senza incarico e, dunque, destinati al licenziamento, siano disposti a coprire scelte politiche discutibili con la firma di atti dannosi, a scudo dell’incaricante.
La riforma, letta nelle sue combinazioni di strumenti e norme, insomma, costruisce una dirigenza davvero succuba del potere politico e costruita per assecondarne gli intenti di costruzione del consenso, più che il perseguimento dell’interesse generale, agendo nel rispetto degli indirizzi, ma con autonomia tecnica ed operativa.
Il rischio è che trovino sempre più spazio i dirigenti disponibili a mettere nel conto la necessità di fare da parafulmine, apponendo la propria firma su atti gestionali a copertura di scelte politiche non legittime o, comunque, non rispondendo ai fini generali e che l’intera dirigenza possa essere in futuro selezionata sulla base della disponibilità a svolgere non una funzione gestionale, trasparente ed imparziale, ma un’attività funzionale alla conservazione del potere di chi la nomina e dispone di formidabili strumenti di pressione e coercizione.
Andiamo al vizio di eccesso di delega. Se le disposizioni dell’articolo 11, lettera m), e 17, lettera t), della legge 124/2015 potevano non apparire del tutto esplicite in merito alla costruzione di una dirigenza vista come parafulmine, il decreto legislativo attuativo pare togliere ogni residuo dubbio.
Infatti, la nuova lettera e-ter dell’articolo 17 del d.lgs 165/2001 non solo prevede che i dirigenti siano titolari in via esclusiva della responsabilità amministrativo-contabile derivante dall’attività gestionale, ma precisa che tale responsabilità resti esclusiva anche l’attività gestionale attui atti di indirizzo dell’organo di vertice politico.
Ora, non v’è dubbio che la riforma è esattamente lì che vuole arrivare. Tuttavia, la delega non ha espressamente previsto che la responsabilità esclusiva della dirigenza facesse da scudo anche ad indirizzi politici sbagliati e forieri di danno erariale.
Sarebbero comunque rimasti margini alla Corte dei conti per valutare, fino ad escludere, l’esimente politica.
Invece la formulazione della nuova lettera impedirà alla magistratura contabile di imputare mai alcunché agli organi di vertice politico, anche se l’atto gestionale adottato dai dirigenti e poi produttivo di danno sia null’altro se non appunto la traduzione in atti di direttive che costituiscano la base della linea causa-effetto del danno erariale prodottosi.
E c’è di più. La previsione della responsabilità erariale esclusiva ancorchè discendente da direttive di vertice si riscontra solo nella lettera e-ter nell’articolo 17 del d.lgs 165/2001, ma non nell’articolo 16, comma 1, lettera d). Insomma, sui dirigenti non di vertice si scarica una responsabilità maggiore estendendo senza confini l’esimente politica alla sola attività dei dirigenti non di vertice: forse perché i dirigenti generali in effetti sono da sempre molto connessi alla politica ed anche loro hanno il compito di esprimere direttive aventi anche natura politica?
Andando alla seconda questione, concernente la contraddittorietà assoluta sulla definizione dei doveri e delle responsabilità della dirigenza, esaminiamo ancora la legge 124/2015 e l’articolo 11, lettera m), che contiene, a proposito della responsabilità dirigenziale, altri due criteri di delega:
-                          limitazione della responsabilità dirigenziale alle ipotesi di cui all'articolo 21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165;
-                          limitazione della responsabilità disciplinare ai comportamenti effettivamente imputabili ai dirigenti stessi;
In relazione alla gravità della violazione accertata, la responsabilità dirigenziale implica, dunque, tre possibili conseguenze:
1.                          il mancato rinnovo dell’incarico, al momento della scadenza; ma, questa “sanzione” nella realtà appare piuttosto depotenziata dal nuovo sistema dei ruoli unici, che nella realtà impedisce di per sé il rinnovo degli incarichi; ciò testimonia come il sistema della “rotazione obbligata” degli incarichi impostato dalla riforma sia fortemente penalizzante, in quanto generalizza per i dirigenti una misura, l’impossibilità del rinnovo degli incarichi, fin qui prevista come sanzione per incapacità di ottenere risultati adeguati;
2.                          la revoca dell’incarico: in questo caso, l’organo di governo stabilisce di far cessare il dirigente dall’incarico prima ancora della scadenza;
3.                          la risoluzione del rapporto di lavoro: una vera e propria ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o giusta causa.
Ora, che la responsabilità dirigenziale resti circoscritta alla sua disciplina normativa non c’erano dubbi. Non si capisce, dunque, quale sia la portata della delega, laddove conferma che la responsabilità dirigenziale resti confermata entro i confini dell’articolo 21 del d.lgs 165/2001, posto che, al contrario, come detto prima, la riforma nel suo complesso generalizza il mancato rinnovo come sistema di gestione della dirigenza, a prescindere dagli esiti della gestione dei dirigenti. Per altro, il decreto legislativo attuativo della legge 124/2015 estende al parossismo la responsabilità dirigenziale, introducendo ulteriori casi nell’articolo 21[1], molto generici e confusi, tanto da creare una vera e propria responsabilità “oggettiva”, derivante dalla semplice circostanza di rivestire la qualifica dirigenziale.
Leggendo il testo del decreto legislativo attuativo della legge, si riscontra che nessuno dei due ulteriori criteri di delega è stato tradotto in norma. In particolare manca il secondo, quello della limitazione della responsabilità disciplinare ai “comportamenti effettivamente imputabili” ai dirigenti stessi. In effetti, non si riesce a capire quale sarebbe la concreta portata e l’intento della previsione normativa, posto che la responsabilità disciplinare è personale, sicchè per sua natura non può che dipendere da un comportamento commissivo od omissivo del dirigente, direttamente collegato all’evento illecito e, quindi, da “comportamenti effettivamente imputabili”.
In ogni caso, il decreto legislativo attuativo non contiene nessuna possibile limitazione della responsabilità dirigenziale.
Al contrario, modificando come visto gli articoli 16 e 17 e prevedendo la responsabilità erariale esclusiva dei dirigenti per la gestione, anche se derivante da direttive del vertice politico, crea una contraddizione paradossale ed insanabile proprio con l’articolo 21.
Infatti, da un lato, l’attribuzione ai dirigenti della responsabilità erariale esclusiva, anche se discendente da direttive politiche, implica che i dirigenti per evitarla dovrebbero necessariamente adottare scelte gestionali diverse da quelle derivanti dagli indirizzi del vertice politico.
Il che, in un’organizzazione impostata non sul principio di gerarchia, bensì su quello della competenza, è ammissibile: la direttiva non è un ordine di servizio e lascia margini al destinatario per discostarvisi, motivatamente.
Tuttavia, il dirigente incappa nella responsabilità dirigenziale che può inibirgli per sempre il rinnovo dell’incarico (anche a seguito di nuovo interpello) o costargli la revoca anticipata per responsabilità (che dimezza il tempo di permanenza in disponibilità prima del licenziamento ad un anno) o direttamente il licenziamento, proprio per “inosservanza delle direttive” a lui imputabile.
La riforma crea un vicolo cieco paradossale:
1.      se il dirigente adotta atti gestionali conformi ad indirizzi politici (cioè, a direttive) potenzialmente lesive della corretta gestione e fonte di responsabilità erariale, risponde direttamente del danno erariale, al posto degli organi politici che, pure, con la direttiva, hanno innescato la gestione dannosa;
2.      se il dirigente, tuttavia, si discosti dalla direttiva e, quindi, dia corso a loro inosservanza, rischia come minimo il mancato rinnovo dell’incarico attualmente, se non la revoca o peggio il licenziamento.
Un sistema, questo, davvero contrario a qualsiasi principio di buon andamento e garanzia dell’interesse pubblico. Esattamente come richiesto dalla stampa generalista, i dirigenti vengono spinti a scegliere il minore dei mali: affrontare il rischio della responsabilità erariale, pur di non mettersi di traverso alle direttive politiche illegittime e non rischiare non solo il mancato rinnovo dell’incarico, o la sua revoca anticipata o il licenziamento, ma, soprattutto, di essere segnalato ed additato come dirigente che “crea problemi” alla politica, ne vìola le direttive, si mette in contrasto con essa, e così rischiare ulteriormente di non essere mai più incaricato nella lotteria dell’assegnazione degli incarichi, prevista dalla riforma.
Il tutto, a danno dei cittadini e delle imprese: si deve ricordare che la responsabilità erariale è un’azione di risarcimento di un danno alle casse pubbliche, attivata dopo che quel danno si è prodotto e, per altro, mai in grado di recuperarlo del tutto ed in tempi celeri.
Il tutto appare confermato dalla mancata attuazione di un altro criterio di delega, previsto dall’articolo 11, lettera q), della legge 124/2015: “previsione di ipotesi di revoca dell'incarico e di divieto di rinnovo di conferimento di incarichi in settori sensibili ed esposti al rischio di corruzione, in presenza di condanna anche non definitiva, da parte della Corte dei conti, al risarcimento del danno erariale per condotte dolose”. Una simile norma avrebbe ulteriormente aggravato e reso ancor più paradossale il sistema della responsabilità dei dirigenti; ma, avrebbe anche potuto in qualche misura rafforzarne la determinazione a non eseguire le direttive produttive di danno, allo scopo di non esporsi alla condotta dolosa che comporterebbe oltre alla condanna per danno erariale anche la revoca dell’incarico e l’inibizione ad incarichi delicati per la corruzione. Non pare un caso, alla luce delle riflessioni sin qui condotte, che tale criterio non sia stato preso in nessuna considerazione dal decreto attuativo.
Una simile riforma della responsabilità vìola drammaticamente la Costituzione e ogni razionale gestione, perché di fatto spinge appunto i dirigenti a farsi da parafulmine, accettare ed attuare qualsiasi direttiva pur di non compromettere la successiva candidabilità ad incarichi, anche a costo di procurare danni all’erario, contando in primo luogo nella buona sorte sperando di non essere scoperti o condannati, ma, soprattutto, sperando che l’esercizio della funzione di parafulmine valga il rinnovo dell’incarico o un altro nuovo incarico. Come se, insomma, il pagamento del danno erariale fosse una sorta di “tassa occulta” a carico di ogni dirigente, anche se, nella realtà, i moltissimi casi di danni che la riforma così impostata potrebbero produrre alla fine si concretizzerebbero in un’immane ed in quantificabile tassa occulta per tutti i cittadini.
Luigi Oliveri






[1] Se ne riporta il testo:
“Costituiscono mancato raggiungimento degli obiettivi: la valutazione negativa della struttura di appartenenza, riscontrabile anche da rilevazioni esterne; la reiterata omogeneità delle valutazioni del proprio personale, a fronte di valutazione negativa o comunque non positiva della performance organizzativa della struttura, e in particolare il mancato rispetto della percentuale del personale prevista dalla legge, o della diversa percentuale oggetto di negoziazione, cui attribuire indennità premiali, secondo le indicazioni dei contratti collettivi di lavoro; il riscontrato mancato controllo sulle presenze, e sul contributo qualitativo dell'attività lavorativa di ciascun dipendente; la mancata rimozione di fattori causali di illecito; il mancato rispetto delle norme sulla trasparenza, che abbiano determinato un giudizio negativo dell'utenza sull'operato della pubblica amministrazione e sull'accessibilità ai relativi servizi; il mancato rispetto dei tempi nella programmazione e nella verifica dei risultati imputabile alla dirigenza.

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