Ora che finalmente il comune di
Roma ha trovato l’assessore al bilancio e che pare ridimensionata la “crisi”
dovuta alla messa a disposizione del sindaco del proprio incarico da parte del
ragioniere generale, forse è possibile analizzare seriamente la questione dell’assessore
mancante e del problema delle direttive, che tanto ha inquietato, appunto, il
ragioniere generale.
Partiamo da una semplicissima
constatazione di cronaca: il ragioniere generale di Roma ricevette il proprio
incarico a fine 2014 dal sindaco Marino, nell’ambito di una giunta inquieta, ma
completa, nella quale operava un assessore al bilancio. Con tanto di direttive,
quindi.
I fatti ci dicono, tuttavia, che
quella giunta è durata ben poco: nell’ottobre del 2015, come è noto, i
consiglieri della maggioranza in uno studio notarile hanno sottoscritto il
documento per la parola fine all’esperienza del sindaco Marino.
Per tutto l’autunno 2015, l’inverno
2016 e fino al giugno 2016 a Roma ha operato il commissario Tronca.
Non risulta che, in una gestione
commissariale, vi sia né la giunta, né l’assessore al bilancio che possa
esprimere “direttive” ai dirigenti.
Viene, allora, spontaneo
chiedersi: ma, in quei mesi, senza assessori al bilancio che potessero emanare
direttive, la ragioneria generale di Roma, come ha fatto a lavorare? Sono state
inviate lettere volte ad esprime disagi operativi, analoghe a quelle all’indirizzo
del nuovo sindaco?
Si sa che la narrazione dell’operato
del commissario Tronca lo descrive come ubiquo ed instancabile: forse di simili
note non vi sarà stata necessità, perché il commissario avrà avuto la capacità
di esprimere direttive a getto continuo e di lavorare gomito a gomito con ogni
dirigente della capitale, anche solo utilizzando la “forza” come un vero
cavaliere Jedi.
In ogni caso, è indubitabile che
un assessore al bilancio non vi fosse. Ciò ha impedito al comune di gestire e
svolgere le proprie funzioni?
Ovviamente no. Per una ragione
molto semplice: per paradosso, un assessore al bilancio potrebbe semplicemente
non esistere nemmeno.
Non si tratta di una figura
politica né necessaria, né obbligatoria. L’ordinamento degli enti locali da 26
anni è una sorta di assaggio della verticalizzazione del potere che si sta
tentando di far salire al livello statale. Nella realtà, il potere di governo è
quasi integralmente concentrato sul sindaco, anche per la circostanza che l’organo
monocratico riceve direttamente dal corpo elettorale il proprio mandato.
E’ il sindaco che determina l’indirizzo
politico dei comuni e agisce non come primus
inter pares, ma come vertice anche gerarchico nella giunta, tanto è vero
che dispone di un potere quasi assoluto di incarico e revoca degli assessori
(salva una dovuta informazione al consiglio).
La giunta è così disciplinata
dall’articolo 48 del d.lgs 267/2000: “La
giunta collabora con il sindaco o
con il presidente della provincia nel governo del comune o della provincia ed opera attraverso deliberazioni collegiali”.
E’ un organo di collaborazione
del sindaco, da esso dipendente, che svolge la propria attività mediante
deliberazioni in forma collegiale.
Infatti, gli assessori, nei
comuni, non sono organi, ma meri componenti della giunta.
L’assessore non dispone di
alcuno specifico potere, tranne, proprio, quello della direttiva. Ma, la
direttiva dell’assessore non può che essere una specificazione di dettaglio
dell’indirizzo espresso dall’organo collegiale del quale fa parte, non un atto
autonomo ed individuale.
Questo dimostra che le direttive
possono perfettamente essere disposte direttamente dalla giunta e anche dal
sindaco, non essendo assolutamente necessario, né fissato dalla legge, l’elenco
tipico degli incarichi (non sono deleghe, anche se ostinatamente i media
continuano così a definire l’assegnazione di funzioni agli assessori) degli
assessori.
Roma, come qualsiasi comune, può
benissimo fare a meno dell’assessore al bilancio: l’indirizzo lo può formare
certamente il sindaco e la giunta nel suo complesso.
Del resto, gli indirizzi
fondamentali per la formazione del bilancio e la sua gestione sono atti
collegiali: il Dup (documento unico di programmazione) ed il bilancio di
previsione, approvati da giunta e consiglio; il Piano esecutivo di gestione che
traduce in obiettivi gestionali i programmi dei documenti programmatici; le
aliquote, decise dal consiglio; i regolamenti su tributi, tariffe e patrimonio,
di competenza del consiglio.
Un assessore al bilancio non
potrebbe che muoversi dentro queste strettoie, rese ancora più fitte dalla
moltitudine di norme di legge che vincolano la gestione finanziaria e
contabile: grazie alla riforma della contabilità, mentre prima poche decine di
articoli del d.lgs 267/2000 governavano il sistema, oggi pagine, pagine e
pagine di “principi contabili” fissano nel minimo dettaglio ogni procedura,
ogni spesa, ogni vincolo. In modo che la “direttiva” dell’assessore risulti
sostanzialmente marginalizzata, se non quasi del tutto sostanzialmente inutile.
Insomma, una ragioneria sulla
base di queste norme ha un percorso assolutamente definito e chiaro per
approvare un bilancio di previsione ed ogni altro documento contabile. Certo,
senza spingersi verso scelte non tecniche, come pressione fiscale e aliquote.
Ma, queste possono essere oggetto di indicazioni e direttive degli organi
collegiali, senza che allo scopo serva necessariamente un assessore addetto.
Questa è la realtà dei fatti e
questo è quel che emerge dalle norme. Il resto appare molto una coloritura
metagiuridica e molto massmediatica.
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