Una delle argomentazioni più
utilizzate per rilevare l’efficacia se non la necessità della riforma
costituzionale consiste nella velocizzazione del processo legislativo.
I fatti concreti dimostrano che
l’Italia soffre sicuramente di un problema opposto: l’eccesso di leggi. In ogni
caso, in particolare negli ultimi 20 anni, la funzione legislativa del
Parlamento è stata soverchiata dall’iniziativa del Governo, tanto che leggi di
iniziativa parlamentare praticamente non se ne approvano più: la quantità schiacciante
di norme è composta da decreti legge convertiti in legge e da decreti
legislativi, con una velocità media di approvazione complessiva di circa 55
giorni.
Tuttavia, il messaggio che si
vuol far passare è che il bicameralismo perfetto è causa di lentezza, senza
riuscire a spiegare come mai l’Italia primeggi per numero di leggi approvate o
la velocità media dell’iter sia certamente di non poco conto.
Per altro, poiché le leggi sono
lo strumento fondamentale della regolazione del convivere civile, valutarle in
base alla velocità di approvazione e non in relazione alla qualità dei
contenuti è come considerare il valore di un’opera d’arte in relazione alle
ore-lavoro impiegate e non alla maestria dell’artista. Forse, la ponderazione,
la valutazione completa, profonda e meditata delle norme da approvare dovrebbero
essere la qualità principale del processo legislativo. Per i casi di necessità
e urgenza la Costituzione da sempre prevede la decretazione d’urgenza, che
consente al Governo di adottare subito la norma e prevede la conversione del
decreto entro i successivi 60 giorni.
Dunque, la “velocità” dell’iter
delle leggi è certamente un problema del tutto falso. Certo, non si può
escludere che l’eliminazione del bicameralismo perfetto potenzialmente può
abbreviare gli iter. Ma, allo scopo, occorrerebbe proprio abolire una delle due
camere, così che la potestà legislativa resti solo per una delle due. La
riforma, invece, lascia in piedi il Senato, prevedendo l’approvazione
obbligatoria di entrambe le camere per decine di tipologie di leggi e
consentendo comunque al Senato di intervenire su tutte, ma proprio tutte, le
leggi di altra tipologia.
Tuttavia, l’argomentazione della
velocità continua ad affascinare molto. Per esempio, tra gli ammaliati da
questo concetto vi sono Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, che sul Corriere
del 30 ottobre, nell’articolo “Manovra finanziaria, i pregi e i difetti”,
affermano: “la variabile più importante
che determinerà i nostri conti pubblici nei prossimi anni è l'intensificazione
delle riforme, a cominciare da norme sulla concorrenza che liberino il mercato
dei servizi cosi come il Jobs act ha liberato il mercato del lavoro. Questo
richiede che il processo legislativo acquisti certezza e soprattutto venga
accelerato. Ad esempio, la legge sulla
concorrenza, inviata dal governo al Parlamento nel febbraio 2015, giace
dimenticata da 600 giorni, durante i quali ogni lobby, grande e piccola, è
riuscita a «convincere» deputati e senatori a far depennare le norme che la
riguardavano e che le toglievano un po' di rendita. In questa luce la proposta
di modifica della Costituzione che verrà sottoposta a referendum il 4 dicembre
limita il potere di interdizione delle lobby in Parlamento. Il nuovo articolo
72 della Costituzione introduce un'innovazione importante, il voto a data certa. «Il governo può chiedere alla Camera dei
deputati di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di
legge indicato come essenziale per l'attuazione del programma di governo sia iscritto
con priorità all'ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via
definitiva della Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni dalla
deliberazione». A noi pare una norma molto utile”.
La norma che ad Alesina e
Giavazzi appare molto utile, ad un esame più accurato, al contrario, è di un’inutilità
assoluta sul piano della velocizzazione dell’iter, ma, invece, rappresenta uno
degli elementi di maggiore rischio della tenuta democratica.
Sul piano dell’utilità, la
legislazione entro 70 giorni non cambia di una virgola la situazione attuale,
visto che la media in giorni dell’iter legislativo è, come visto sopra,
inferiore, di circa 55 giorni e, soprattutto, visto che il Governo può per i
casi di necessità e urgenza approvare con immediatezza i decreti legge, i
quali, è bene precisare, entrano in vigore subito: i 60 giorni servono solo per
convertirli in legge, ma appena il Consiglio dei ministri approva il decreto
esso è immediatamente efficace.
Dunque, sul piano dell’iter, la
legge a “data certa” (come una cambiale…) è solo uno specchietto per le
allodole, che distrae dal vero impatto della norma costituzionale che la
prevede, molto più deflagrante.
La previsione secondo la quale
il Governo può imporre al Parlamento di approvare una legge entro una scadenza
fissa è l’attestazione definitiva dello svuotamento del potere legislativo,
subordinato totalmente al Governo. Un cambiamento surrettizio del sistema della
divisione dei poteri ed uno spostamento deciso del potere dal Parlamento all’esecutivo.
Non è una questione solo
tecnica, ma democratica: la rappresentanza del corpo elettorale è del
Parlamento, che la esprime appunto attraverso la funzione legislativa. Il
Governo dovrebbe curarsi dell’esecuzione delle leggi.
Invece, da anni il Governo ha
esteso a dismisura i suoi poteri di iniziativa politica, sconfinando nel potere
legislativo vero e proprio, tenendo in ostaggio il Parlamento con i decreti
legge a grandine, sui quali regolarmente chiede la fiducia.
La previsione dello strumento
della legge a scadenza imbriglia ulteriormente la funzione legislativa, impone
al Parlamento di trattare con priorità i disegni di legge governativi, dunque
trascurando del tutto quelli di iniziativa parlamentare, e rischia di fatto di
rendere il Parlamento un ufficio di ratificazione delle decisioni disposte dal
Governo, con privazione definitiva della funzione di rappresentanza del popolo
ed evidente vulnus all’articolo 1 della Costituzione.
Né è detto che la norma possa
rivelarsi “utile”, come affermano Alesina e Giavazzi, per superare i problemi
da loro segnalati ad esempio sulla materia della concorrenza.
Se davvero la legge sulla
concorrenza che giace da tempo in Parlamento fosse di interesse per Governo e
maggioranza, non vi sarebbe problema alcuno ad approvarla. Infatti, sia alla
Camera, sia al Senato, la maggioranza è fortissima ed in grado di approvare qualsiasi
legge, come dimostrano i grappoli di riforme di questi mesi. Del resto, laddove
il Governo considerasse necessario ed urgente intervenire sulla concorrenza,
potrebbe in ogni momento adottare un decreto.
Cosa fa credere ad Alesina e
Giavazzi che su questa materia il Governo chiederebbe al Parlamento di
intervenire con la legge a data certa, se fin qui non è intervenuto col decreto
legge? E cosa fa credere che il monocameralismo acceleri davvero il processo
legislativo per le leggi diverse da quelle di conversione dei decreti e quelle
a data certa? Cosa garantisce, cioè, che le divisioni delle maggioranze, vere
cause dello stallo di alcune leggi, oggi evidenziati dalle “navette” ma,
soprattutto, dagli insabbiamenti delle leggi nelle varie commissioni, non
blocchino e rallentino gli iter anche se operasse una sola camera? Le
commissioni continuerebbero egualmente ad esistere e potrebbero fare le “veci”
di qualsiasi seconda camera nell’intralcio degli iter. E le lobby non è che
facciano sentire il loro peso solo in Senato.
Per valutare bene davvero gli
effetti della riforma costituzionale forse è il caso di non fermarsi alla
superficie e ai dettagli insignificanti, come la “velocità” sublimata a valore
della legislazione a detrimento della qualità dei suoi contenuti.
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