Su Il Sole 24
ore del 22 novembre, con l’articolo “I tre obiettivi della riforma - Scompare
il rischio di maggioranze «asimmetriche»”
il professor
Roberto D’Alimonte, nel tentativo di magnificare la riforma della Costituzione,
ne svela indirettamente tutti i rilevantissimi difetti. Vediamone le ragioni.
D’Alimonte
sostiene che con la riforma non si è voluto eliminare la seconda camera ma
attivare un bicameralismo non paritario seguendo la strada “della differenziazione funzionale delle due
camere. Con un triplice obiettivo in mente: l'eliminazione del rischio di
maggioranze diverse tra le due camere, la semplificazione del processo
legislativo e la creazione di una sede m cui regioni e comuni possano far
sentire la loro voce al centro. Il primo di questi obiettivi è quello meno
controverso. Dopo la riforma la fiducia al governo sarà prerogativa della sola
Camera dei deputati. Scompare il rischio di un parlamento diviso”.
Il primo
elemento affrontato dal D’Alimonte è, dunque, l’eliminazione del presunto
rischio del parlamento diviso.
E’ facile
obiettare a questa argomentazione del “sì” al referendum che essa è totalmente
fuori strada.
Il “rischio”
del Parlamento diviso non deriva certo dalla circostanza che le due camere sono
oggi chiamate a dare entrambe la fiducia al Governo. Solo in due casi, nei 68
anni di vita repubblicana, è accaduto che una delle due camere non abbia
confermato la fiducia ad un Governo, determinandone la caduta. In tutti gli
altri casi le crisi di governo sono sempre state extraparlamentari, dovute a
screzi tra correnti di partiti o tra partiti nell’ambito delle coalizioni. Per
altro, anche nei due casi (sempre riguardanti governi presieduti da Prodi) le
crisi erano extraparlamentari e dovute a contrasti tra componenti delle
coalizioni: in entrambi i casi il presidente del consiglio dell’epoca preferì,
comunque, andare ai voti in Parlamento, per maggiore trasparenza, ma sempre a
giochi già decisi fuori da Palazzo Madama e Montecitorio.
Il rischio “divisione”,
allora, discende semplicemente dalla legge elettorale. Se da 15 anni a questa parte
abbiamo avuto regolarmente maggioranze molto diversificate Camera e Senato, ciò
è stato dovuto a leggi elettorali dissennate, in particolare il Porcellum del
resto dichiarato incostituzionale, scritte proprio appositamente per favorire
maggioranze diverse nelle due camere e così, in un sistema “bipolare” lasciare
sempre margini di intervento anche allo schieramento politico perdente. Per
correggere questo rischio, sarebbe più che sufficiente intervenire con una
legge elettorale, lasciando stare la Costituzione.
Un secondo
elemento di qualità della riforma costituzionale, secondo il D’Alimonte,
discenderebbe dalla “semplificazione”: “la
gran parte delle leggi che riguardano l'attività di governo, e cioè pensioni,
scuola, fisco, sanità, diritti civili ecc. sarà approvata solo dalla Camera. In
questi casi il Senato potrà proporre modifiche in tempi certi, ma sarà la
Camera ad avere l'ultima parola. Questo sarà il procedimento principale che
caratterizzerà i lavori del nuovo parlamento. Favorirà da una parte la
riduzione dei tempi di approvazione delle leggi e dall'altra la trasparenza
delle decisioni. Senza il ping pong tra le due camere le lobbies avranno molte
meno possibilità di influenza”.
Due facili
osservazioni. La prima: poichè nel caso delle materie sulle quali non è
conservata la funzione paritaria di Camera e Senato questo potrà solo proporre
modifiche fermo restando che sarà la Camera ad avere l’ultima parola, non si
capisce assolutamente perché sia stata conservata una seconda camera con
funzioni normative. Lungi dal “semplificare”, questo implica una grande
confusione operativa, che andava scongiurata. La seconda: lo capisce chiunque
che per le lobby è molto più facile intervenire solo su una camera, invece che
su due, per ottenere la scrittura nelle leggi di contenuti di propria
convenienza.
Poi, il D’Alimonte
concentra la propria attenzione sulla lista delle funzioni legislative lasciate
al Senato dalla riforma. Ed osserva: “Per
alcuni è un elenco cosi striminzito da dire che tanto valeva abolire
completamente il Senato invece di lasciarlo m piedi come un guscio vuoto. Per
altri invece il nuovo Senato conserva troppi poteri, per cui i vantaggi attesi
dalla riforma non compensano i problemi che potrebbero nascere da un
bicameralismo che tanto differenziato non è. Questo per dire quanto ampio sia
lo spettro delle opinioni critiche. […] L'opinione più sensata su questa
questione, come su altre, è che non esistono certezze apodittiche su ciò che
una seconda camera debba o non debba fare. La lista delle materie su cui il
Senato ha gli stessi poteri della Camera avrebbe potuto essere diversa. I
referendum avrebbero potuto essere esclusi. Ma è proprio scandaloso il fatto
che siano stati inclusi? Sono le scelte politiche e i compromessi parlamentari
ad avere determinato la lista in questione. Una lista diversa sarebbe stata
legittima, ma ciò che conta è che l'obiettivo della semplificazione del
processo legislativo non viene compromesso da queste scelte”.
A parte la
circostanza che definire “semplificazione” del processo normativo l’ircocervo
del nuovo articolo 70 della Costituzione significa negare l’evidenza, le
argomentazioni offerte dal D’Alimonte sono tutte fuori strada.
La questione
è semplicissima: nel momento in cui una delle due camere si afferma debba
limitarsi a rappresentare le autonomie locali, non ha senso alcuno che continui
ad interessarsi anche delle materie non concernenti tale ambito normativo.
La questione
non riguarda solo i referendum, citati da D’Alimonte, ma prerogative ben più
ampie e significative.
La domanda da
porsi è: perché un Senato non più eletto direttamente dal corpo elettorale,
oltre a conservare la possibilità di ingerirsi negli iter normativi di tutte le
materie, possa continuare a:
1.
eleggere, componendo il Parlamento riunito in seduta
comune, il Presidente della Repubblica;
2.
eleggere 2 membri della Corte costituzionale;
3.
eleggere, componendo il Parlamento riunito in seduta
comune, componenti del Consiglio Superiore della Magistratura;
4.
intervenire nell’iter della revisione delle leggi
costituzionali.
L’assenza del
legame rappresentativo diretto tra corpo elettorale e componenti del Senato avrebbe
dovuto condurre a differenziare ulteriormente Palazzo Madama dalla Camera,
eliminando poteri e prerogative che hanno senso solo se si agisce su mandato
dell’elettorato. La riforma elide qualsiasi rappresentanza tra Senato ed
elettori, sicchè assegnare a questa camera poteri così fondamentali per la
Nazione è una lesione della sovranità che dovrebbe spettare al popolo. Si
assiste ad una vera espropriazione di sovranità, concessa, al posto del corpo
elettorale, ad un Senato composto da persone che non traggono dal popolo la
propria legittimazione. Un’assurdità istituzionale.
Ma, su questo
tema, sempre il D’Alimonte è tornato su Il Sole 24 Ore del 24 novembre, con l’articolo
“Un’elezione di fatto «diretta» anche se
non proporzionale”.
Ecco il succo
del ragionamento proposto dal professore: “quante
volte si sente dire da noi che l'elezione indiretta dei senatori è un attentato
alla sovranità popolare? Ma il bello è che i futuri senatori italiani
saranno in ogni caso eletti dai cittadini. Secondo la proposta iniziale del
governo i 95 senatori avrebbero dovuto essere eletti dai consigli regionali e
dalle due province autonome di Trento e Bolzano. Poi all'ultimo momento si è
raggiunto un compromesso per cui la decisione finale sui futuri senatori
spetterà formalmente ai consigli regionali, ma dovrà essere presa «in
conformità alle scelte espresse dagli elettori». Per quanto questa
espressione sia stata collocata in un punto infelice nel testo della riforma, il
senso è chiaro: saranno gli elettori a scegliere i consiglieri-senatori, mentre
il consiglio regionale avrà un ruolo di ratifica. Dunque, si tratterà a
tutti gli effetti di una elezione diretta”.
Appare
davvero grave che possa passare l’idea secondo la quale la legge fondamentale
della Nazione, la Costituzione, possa essere composta da norme “di fatto” e non
da regole di diritto cogenti, che pongono precetti o principi connessi comunque
solo al diritto positivo, cioè posto, espresso e non lasciato al “fatto”.
Il D’Alimonte
conferma la pericolosità della scelta riformista, offrendo l’argomento principe
di preoccupazione: non la “svolta autoritaria” che è un’esagerazione
dialettica, ma certamente la compressione molto forte dei contrappesi al potere
verticistico.
Un po’ di
storia, forse, non fa male. Sappiamo che uno dei punti focali dell’evoluzione
del diritto nell’antica Roma derivò dal culmine dei contrasti tra patrizi e
plebei. Questi ultimi, esasperati dall’imposizione delle tasse e dagli abusi
dei patrizi nel giudicare e disporre norme solo verbali, pretesero norme
scritte per limitare l’arbitrio dei patrizi. Ne derivò la cosiddetta “legge
delle 12 tavole” il primo corpus di
leggi scritte a Roma.
Cosa ci
insegna questo riferimento storico? Che la norma scritta, chiara nei suoi contenuti
e precetti, è di per sé un vincolo all’abuso del potere. La mera situazione “di
fatto”, al contrario, è funzionale esattamente all’arbitrio e alla negazione
dei controlli, perché la formazione “di fatto” è ovviamente sempre nelle mani
di chi occupa il potere. Non garantisce se non chi il potere lo ha e lo
esercita, a detrimento degli altri.
Immaginare,
allora, che la Costituzione possa dare corso a situazioni “di fatto” e non “di
diritto” significa accettare un’involuzione del diritto stesso verso il caos irrimediabile.
Sulla base di
questa consapevolezza, giuridica ed anche storica, non si può in alcun modo
accettare l’idea che i senatori siano eletti “di fatto” direttamente. La verità
è una sola: il Senato non sarà composto da rappresentanti diretti del popolo.
Le ragioni
sono chiarissime:
1)
l’articolo 57 riformato della Costituzione prevede:
a.
al comma 1: “Il
Senato della Repubblica è composto da novantacinque senatori rappresentativi delle
istituzioni territoriali e da cinque senatori che possono essere nominati dal
Presidente della Repubblica. I Consigli
regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono,
con metodo proporzionale, i senatori fra
i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, fra i sindaci dei
comuni dei rispettivi territori”; non c’è dubbio alcuno, per espressa
previsione di legge, rispetto alla quale ogni “fatto” non ha alcun rilievo, che
i senatori, per la quota loro spettante, siano eletti dai consigli regionali
tra i propri componenti; il che esclude senza appello che l’elezione possa
essere ascritta al corpo elettorale;
b.
al comma 5: “La
durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali
sono stati eletti, in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i
candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo
le modalità stabilite dalla legge di cui al sesto comma”. Secondo il D’Alimonte
e la corrente di pensiero alla quale appartiene, sarebbe questa norma che “di
fatto” configurerebbe l’elezione dei senatori come “diretta”. Ma, questa
considerazione è totalmente da rigettare. Gli elettori indicheranno ai consigli
regionali (non si sa come, perché la legge ordinaria che dovrebbe attuare
questa previsione non esiste) quali tra i consiglieri saranno eleggibili come
senatori. Non si tratterà per una di una semplice “ratifica” della volontà degli
elettori, come erroneamente afferma D’Alimonte. Infatti, i consigli potranno
eleggere un numero limitato di senatori, ma nulla potrà impedire agli elettori
di indicare come “eleggibili” un numero di consiglieri regionali maggiore di
quello effettivamente destinati ad andare in Senato. D’altra parte, si è visto
al comma 1 che i consigli regionali dovranno eleggere i senatori “con metodo
proporzionale”: dunque, se le indicazioni degli elettori non fossero tali da
consentire il rispetto del metodo proporzionale (di per sé già non garantito
dal numero troppo limitato di senatori da eleggere), comunque i consigli
regionali dovrebbero esprimere i propri eletti senza poter tenere conto delle “indicazioni”
degli elettori;
In ogni caso,
se la legge ordinaria di attuazione dell’articolo 57, comma 5, della
Costituzione attribuisse ai cittadini l’elezione “diretta” dei senatori, essa
sarebbe immediatamente incostituzionale, per violazione chiarissima delle norme
dettate sopra. Ancora una volta, dunque, si dimostra che la situazione “di
fatto” si rivelerebbe solo una prevaricazione delle regole.
Il D’Alimonte
ammette, comunque, che la riforma della Costituzione non disegna il migliore
dei mondi possibili: “Certo, anche questo
modello non è esente da difetti. Novantacinque senatori divisi tra 19 regioni e
due province autonome sono pochi per assicurare un buon livello di
proporzionalità. […]. Non si può avere la moglie ubriaca e la botte piena. Non
si può avere un Senato con pochi mèmbri e il pieno rispetto del principio
proporzionale. Sono due obiettivi contraddittori. Su questo punto, come su
altri aspetti del funzionamento del nuovo senato, si troveranno dei compromessi ragionevoli che sarà l'esperienza
pratica a suggerire. Questo vale, per esempio, per quanto riguarda
organizzazione dei lavori, rapporti tra le due camere, ruolo dei due
presidenti. Col tempo molte delle questioni che oggi suscitano perplessità
verranno risolte pragmáticamente”.
Dunque, il
professore, insiste: sia la “prassi” la guida della vita delle istituzioni del
Paese, non, di conseguenza, la fissazione delle regole.
Si afferma
che la riforma serve per “uscire dalla palude”, rappresentata dalle pastoie dei
troppi compromessi, ma contestualmente si afferma che la regolazione delle
funzioni del Senato sia da lasciare proprio a “compromessi” (ma “ragionevoli”,
si badi) e che la “prassi”, cioè sempre il mero “fatto”, la situazione
contingente serva a delineare meglio ciò che è incerto.
Non è chi non
veda che questi sono difetti esiziali per una Costituzione, norma delle norme,
la quale dovrebbe avere il compito di fissare con assoluta chiarezza e certezza
le regole di funzionamento. E se certamente non è possibile pretendere la
perfezione assoluta delle regole, nemmeno appare possibile il compromesso al
ribasso, e contentarsi di un testo talmente deficitario che coloro stessi che
lo sostengono non possono che affidarsi al “fatto”, alla “prassi” al “compromesso”,
per dare maggiori lumi. Un conto è una norma che tende alla perfezione, senza
poterla toccare; altro è una norma lontanissima dall’essere perfetta, anzi
tecnicamente sbagliata così da dover essere puntellata da interpretazioni di
convenienza basate sulla pratica pedestre. Simile norma, simile Costituzione
non può essere accettata, semplicemente perché tecnicamente mal concepita e
peggio trascritta, così da rivelarsi non funzionale ed esposta ad essere
attuata con norme incostituzionali.
Da ultimo,
poi, il D’Alimonte su Il Sole 24 Ore del 25 novembre nell’articolo “Governi più
efficienti e responsabili” esalta ulteriormente la riforma, perché capace di
migliorare l’efficienza della macchina dello Stato.
L’analisi
conclude con quella che, invece, è la vera e propria premessa ideologica: “proprio questo è uno degli obiettivi
complessivi della riforma: favorire la creazione di governi più efficienti ma
anche più responsabili. È un passo verso un modello di democrazia in cui il
potere è un pochino meno disperso e un pochino più concentrato. A questo
servono il supera mento del bicameralismo e il rafforzamento della capacità
decisionale del governo”.
Maggiore
efficienza e responsabilità dei governi è, quindi, il mantra, l’approccio. E’,
allora, da verificare se a questa affermazione corrispondano esattamente gli
strumenti previsti dalla riforma.
Afferma,
dunque, D’Alimonte che “Di fronte alle
sfide - a volte drammatiche - che i vari esecutivi a partire dal 1992 hanno
dovuto affrontare il governo è diventato prepotente. È passato da una posizione
di debolezza ad una di forza attraverso l'uso distorto di decreti legge e voti
di fiducia. Senza poter disporre di strumenti normali per vedere approvati in
tempi certi i suoi provvedimenti ha fatto ricorso a strumenti eccezionali
previsti dalla Costituzione per soddisfare altre esigenze”. E’ una
constatazione di fatto, certamente vera e corretta.
Il D’Alimonte
pare fornire una valutazione negativa alla circostanza che i governi abbiano
con “prepotenza” cercato di soverchiare il Parlamento con un uso che egli
stesso definisce “distorto” dei decreti legge, allo scopo di veder approvati “in
tempi certi” i “suoi provvedimenti”.
Una
puntualizzazione, prima di andare oltre. I provvedimenti del Governo sono “suoi”
solo se e quando hanno lo scopo di attuare le leggi: questo è il compito del
potere “esecutivo”, così definito perché esegue, attua le disposizioni delle
leggi, poste in essere, invece, dal potere “legislativo”.
I decreti non
sono atti “del Governo”. Pur essendo vero che il Governo li adotta, tuttavia
essi debbono essere convertiti in legge dal Parlamento, perché solo così si
garantisce la divisione dei poteri: il Parlamento ha la libertà di fare propri,
anche con modifiche, oppure no, i decreti legge. Dunque è intanto da
sottolineare quanto sia sbagliato sostenere che il Governo possa pretendere
tempi certi per “suoi provvedimenti”.
In ogni caso,
se il D’Alimonte ritiene che l’abuso dei decreti legge sia un atto di
prepotenza del Governo contro il Parlamento, allora ci sarebbe da aspettarsi
dalla riforma della Costituzione un riequilibrio, posto a rimediare a tale
prepotenza, mediante una decisa posizione di ulteriori e stringenti vincoli al
Governo nell’emanazione dei decreti legge.
Ma, nulla di
tutto ciò è contenuto nella riforma. Afferma D’Alimonte che grazie alla riforma
della Costituzione “non sarà più
possibile utilizzare i "decreti omnibus". Infatti i provvedimenti di
urgenza dovranno avere un contenuto «specifico, omogeneo e corrispondente al
titolo». Ne si potrà più proporre, al momento della conversione dei decreti,
emendamenti che non hanno nulla a che vedere con il loro oggetto e la loro
finalità”.
Peccato che
queste previsioni della riforma altro non siano se non l’operazione di portare
nel testo della Costituzione vincoli ai decreti legge già esistenti, accertati
dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. E’, infatti, la Consulta che
da oltre 20 anni ha consolidato il proprio orientamento, considerando
costituzionalmente illegittimi i decreti legge privi di contenuto “specifico,
omogeneo e corrispondente al titolo”. Ed è conseguenza di questa giurisprudenza
anche la necessità di garantire che il contenuto dei decreti legge non sia
ampliato oltre misura, nella legge di conversione, mediante gli emendamenti.
Pertanto, la
riforma della Costituzione non introduce alcun nuovo vincolo alla decretazione
d’urgenza del Governo che non sia già vigente ed operante, grazie all’opera di
interpretazione e custodia della Costituzione svolta meritoriamente dalla
Consulta.
Sta di fatto
che la riforma, mentre non limita in alcun modo la “prepotenza” dei decreti
legge, al contrario introduce un fortissimo potere normativo del Governo, tale
da ledere nella sostanza la stessa divisione dei poteri. Leggiamo ancora D’Alimonte,
secondo il quale coi decreti legge “il
governo ha forzato sistematicamente la programmazione dei lavori parlamentari.
La riforma tende - timidamente - a correggere questa situazione. Infatti,
l'articolo 70 dice «il governo può chiedere alla Camera dei deputati di
deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge
indicato come essenziale per l'attuazione del programma di governo sia iscritto
con priorità all'ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia definitiva della
Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione».
In termini più semplici, questa norma prevede una sorta di corsia
privilegiata per i provvedimenti del governo”.
Non è chi non
possa comprendere, dunque, che la riforma lungi dal riequilibrare la posizione
del Parlamento rispetto a quella del Governo, introduca, al contrario, un nuovo
ed ulteriore potere governativo: quello di orientare in modo pesantissimo la
funzione legislativa, prevedendo, in aggiunta ai decreti legge che non
spariscono, anche la “corsia preferenziale” che, ancora una volta reiterando l’errore
tecnico e di prosettiva il D’Alimonte considera riferita ai “provvedimenti del
Governo”, confondendo, dunque, tra iniziativa legislativa e potere legislativo.
Il D’Alimonte
spiega ulteriormente: “Si tratta di quel
«voto a data certa» criticato da tutti coloro che sono ossessivamente ancorati
all'idea della centralità del parlamento e vedono in questo strumento un altro
tassello di una fantomatica deriva autoritaria. L'irragionevolezza di un simile
timore sta nel fatto che non sarà il governo a decidere unilateralmente su
questa accelerazione del processo legislativo. Infatti la decisione se aderire
o meno alla sua richiesta spetterà comunque alla camera”.
Quanto
afferma il D’Alimonte non può essere condiviso. Intanto, l’esaltazione del “voto
a data certa” è un controsenso logico e giuridico, qualcosa che avvicina un
atto importante come una legge ad una cambiale tratta a data certa. E’ l’esaltazione
della velocità, del presunto decisionismo come valore in sé, a prescindere
dalla qualità del contenuto delle leggi.
Il
legiferare, al contrario, richiede ponderazione, misura, approfondimento,
fatica, valutazione dei possibili impatti e delle conseguenze. Non può essere
considerata, la produzione delle leggi, alla stregua della manifattura di
bottoni o tondini di ferro, nell’ambito della quale la “produttività” dipende
dalla quantità di prodotto realizzato nell’unità di tempo. Ci sono leggi e
leggi, molte incidono su valori, libertà, comportamenti, servizi generali. Ci
si chiede come sia possibile davvero pretendere di connettere l’efficienza del
processo legislativo alla sola “data certa” e non, ad esempio, ad una maggiore
correttezza nell’espletamento del mandato parlamentare. Sarebbero utili norme
che impongano la presenza obbligatoria almeno 5 giorni la settimana, in
sessioni sia mattutine sia pomeridiane di non meno di 4 ore ciascuna. Ma, allo
scopo, non servirebbe nessuna riforma della Costituzione: basterebbero i
regolamenti parlamentari e, soprattutto, un po’ di etica.
In ogni caso,
è assolutamente evidente che la possibilità di “scelta” della Camera sulla
richiesta del Governo di attivare la legge a data certa è solo una finzione. La
Camera non potrebbe sottrarsi a simile richiesta, senza innescare comunque una
crisi tra maggioranza che sostiene il Governo e Governo stesso.
La riforma
della Costituzione, da questo punto di vista sortisce un effetto perverso.
Torniamo a D’Alimonte: “grazie al voto a
data certa, l'uso dei decreti legge e dei voti di fiducia dovrebbe essere
riportato dentro un quadro di rapporti più funzionale in cui le responsabilità
del governo e quelle del parlamento sono più nettamente distinte”.
Ma, è vero
esattamente l’opposto. Il voto di fiducia ha almeno il pregio di evidenziare la
rottura tra maggioranza e Governo. Invece, la richiesta delle leggi a data
certa innesca eventuali crisi sotto traccia, extra parlamentari, opache, non
controllabili nelle sedi istituzionali, qualora dovesse essere respinta.
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