Certamente la notizia che uno dei componenti del collegio dei revisori del comune di Roma che ha “bocciato” la delibera del bilancio di previsione è sotto processo
per bancarotta fraudolenta è molto succosa. Bene hanno fatto, dunque, doverosamente i media a darvi il giusto risalto.
Meno indicato è, però, riconnettere il fatto che la persona interessata appartenga ad un’area politica che a quanto sembra è ascrivibile alla destra e lasciare
apparire che possa esservi una contraddizione tra il severo parere contrario sullo schema di bilancio capitolino e disavventure giudiziali.
In altre parole è meglio non oscurare il merito della questione, cioè il contenuto del parere, con elementi sicuramente di curiosità, ma che difficilmente si può
dimostrare inficino in alcun modo.
Prima di affermare ironicamente che il revisore sotto processo si erge a “censore”, ma non è stato capace di svolgere correttamente il proprio lavoro in passato o
che sia stato teleguidato da indicazioni politiche della destra, è meglio considerare i contenuti del parere. Che, alla luce dei debiti fuori bilancio pregressi ed anche emersi all’ultimo, doverosamente ha messo
il consiglio in guardia, come si richiede ad un organo di controllo, chiamato proprio a meglio far considerare all’organo politico tutti gli aspetti tecnici e giuridici delle decisioni da adottare, per rendere la decisione
consapevole e mirata, in applicazione del banale principio “conoscere per deliberare”.
E’, per altro, da ricordare che il parere dei revisori sullo schema di bilancio non è vincolante: il che permette in linea teorica al consiglio di approvare egualmente
la delibera, dovendo però, naturalmente, spiegare le ragioni per le quali ritiene di superare i contenuti del parere.
E’ sicuramente vero che nel passato simili cautele nell’approvazione dei bilanci del comune di Roma sono mancate, visto l’accumularsi del mostruoso debito di 18 miliardi.
Ma, la reazione a questo stato delle cose pare proprio inopportuno possa consistere nella ricerca di falle e vizi personali dei componenti del collegio dei revisori, per giungere a dimostrare che i controlli sono politicizzati
e, dunque, inutili o orientati solo a boicottare.
E’ esattamente l’eliminazione dei controlli preventivi resi da organi o funzionari autonomi se non indipendenti dagli organdi di governo uno dei problemi più gravi
della PA in generale e degli enti locali in particolare. Sappiamo che le riforme Bassanini hanno di fatto eliminato sia i controlli preventivi interni del segretario comunale, una volta visto come figura di supporto ai sindaci,
ma autonoma e terza, ma poi assoggettati ad uno spoil system selvaggio, preso in parte a modello dalla riforma Madia (che, per altro, intendeva proprio abolire la figura dei segretari). Inoltre, le riforme hanno avviato quel
percorso di abolizione dei controlli preventivi esterni, sublimato dall’abolizione dei Co.Re.Co. con la riforma (sciagurata) del Titolo V della Costituzione.
I revisori dei conti sono un organo di controllo interno, privo, però, del potere di bloccare l’efficacia degli atti. Debbono esprimere appunto pareri motivati sul piano
tecnico contabile (e in parte anche giuridico).
Se, nel passato, l’efficacia della loro attività (a Roma, come in moltissimi altri comuni) è stata sicuramente bassissima, ciò è da addebitare all’assurda
circostanza che fino a qualche tempo fa i revisori erano nominati dai consigli comunali: applicazione del deleterio sistema per il quale il controllore sceglie il controllato.
Proprio l’insoddisfacente efficacia del precedente sistema ha indotto più di recente a modificare il sistema di nomina. Ma se si è risolto il problema della troppo
stretta dipendenza dei revisori dall’organo di governo, si è scelto un sistema oltre modo grezzo: il sorteggio da un elenco tenuto dai prefetti. Sistema che, come insegna il caso di Roma, non è nemmeno
capace di segnalare o tenere conto di vicende personali dei soggetti iscritti che renderebbero quanto meno inopportuna la nomina.
Dunque, da ripensare non è certamente la funzione del collegio dei revisori, bensì il sistema delle nomine, che andrebbe reso certamente meno rozzo del becero sorteggio.
L’obiettivo dovrebbe consistere nel ripristinare funzioni di controllo autorevole, indipendente e terzo, proprio per evitare che chi di competenza si giri dall’altro lato, come troppe volte deve essere avvenuto
nel comune di Roma, oppure accondiscenda alle richieste (talvolta presentate come imposizioni) della politica di non rendere gli atti di controllo o i più banali pareri, o quanto meno non metterli per iscritto. Pretese
che mettono continuamente in difficoltà gli uffici interni e che potrebbero essere rintuzzate dal ripristino di rigorosi, seri e indipendenti organi di controllo.
Occorrerebbe, però, abbandonare del tutto le logiche delle riforme dell’ultimo quarto di secolo. Non sarebbe difficile: qualsiasi Paese consapevole non faticherebbe a trarre
la conclusione che tali riforme sono state tutte fallimentari, in modo tanto più clamoroso quanto più “vendute” come “epocali”. Tuttavia, i segnali sono di segno del tutto contrario, anche
perchè i riformatori di oggi continuano ad avere come consulenti proprio i riformatori di ieri, quelli ai quali si deve un sistema fuori controllo e senza controlli come quello attuale.
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