I media all’unisono hanno continuato a raccontare la favola che la riforma Madia avrebbe introdotto la “licenziabilità”, che invece esiste da sempre
La Corte di cassazione toglie un
altro velo alla propaganda di questi mesi, intrisa di troppi slogan populisti e
fuorvianti, spesso declamati prima da una stampa non specializzata davvero
impreparata sui temi, poi fatti propri dalle istituzioni, a caccia di “riforme”,
per un verso utili a soddisfare il populismo, per altro verso da sfruttare nel
tentativo di rafforzare il potere.
E’ il caso emblematico della
riforma della dirigenza avviata con la legge 124/2016, ma schiantatasi sulla
sentenza della Consulta 251/2016, perché le “riforme”, proprio in quanto prive
di sostanza giuridica e di utilità comune, sono scritte in modo talmente
sommario e mirato all’utilità di pochi, da essere formulate in termini sommari,
così da trascurare la rilevanza anche dei dettagli procedurali.
Dunque, la gran parte dei media
ha ossessionato con l’esaltazione della (pessima) riforma Madia perché, tra l’altro,
avrebbe “introdotto” la tanto agognata (non si sa perché) “licenziabilità” dei
dirigenti pubblici.
Ovviamente, non era vero niente.
Come non era vero (chiedere al comune di San Remo) che i “furbetti del
cartellino” non fossero licenziabili prima della riforma Madia (d.lgs 116/2016),
è assolutamente falso, gravemente falso, sostenere che la legge 124/2015 e i
suoi decreti attuativi avrebbero previsto la licenziabilità dei dirigenti.
Come tutti i lavoratori
subordinati, i dirigenti pubblici possono essere licenziati e da sempre.
Appunto ce lo ricorda la Cassazione, Sezione civile lavoro, con la sentenza
22/11/2016, n. 23744, che ha rigettato il ricorso proposto da un dirigente
avverso la pronuncia della corte di appello, di rigetto del ricorso proposto
contro il licenziamento disposto dal comune di appartenenza.
Tranciante è il ragionamento
della Corte: “Nella specie, come risulta
dalla sentenza impugnata, i comportamenti contestati — di cui nel presente
ricorso non viene messa in discussione la sussistenza — consistono in leggerezze nella gestione delle gare di
appalto, cattiva gestione del
personale con irrigazione di sanzioni disciplinari in contrasto con l'art.
55 del d.lgs. n. 165 del 2001, rifiuto
nel passaggio delle consegne, scorrettezza
nei rapporti con l'assessore di riferimento, ritardi e incompletezze nella redazione delle schede-obiettivo per il
2011, mancato raggiungimento dei
risultati per il 2009 e il 2010. Non possono, pertanto, nutrirsi dubbi
sulla sussistenza degli estremi per la configurazione di una responsabilità
dirigenziale meritevole di licenziamento per
giusta causa, anche a prescindere dalla comunicazione o meno delle
direttive generali, visto che quelle contestate sono condotte di per sé sono
contrarie all'art. 5, comma 1, del CCNL cit. secondo cui: "Il dirigente
conforma la sua condotta al dovere costituzionale di servire la Repubblica con
impegno e responsabilità e di rispettare i principi di buon andamento,
imparzialità e trasparenza dell'attività amministrativa nonché quelli di leale
collaborazione, di diligenza e fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 del codice
civile, anteponendo il rispetto della legge e l'interesse pubblico agli
interessi privati propri ed altrui". Peraltro, si tratta di comportamenti
contrari anche ai successivi commi dello stesso art. 5 che elencano gli
obblighi dei dirigenti, fermo restando che, come affermato da questa Corte: a)
in presenza di più addebiti la
valutazione della condotta deve essere globale; b) la responsabilità dirigenziale è configurabile anche nei casi in cui vi
sia un indissolubile intreccio tra tale tipo di responsabilità e quella disciplinare”.
La Cassazione, dunque, chiarisce
estremamente bene due concetti:
1.
la responsabilità dirigenziale discende da una
valutazione complessiva della condotta e dei risultati, sicchè può (forse
invetibabilmente, deve) esservi un intreccio da responsabilità disciplinari e
dirigenziali in senso proprio;
2.
la responsabilità dirigenziale può fondare il
licenziamento “per giusta causa”.
D’altra parte, questo è quanto
deriva non solo dalla contrattazione collettiva, ma direttamente dall’articolo
21, comma 1, de d.lgs 165/2001: “Il
mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze del
sistema di valutazione di cui al Titolo II del decreto legislativo di
attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della
produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche
amministrazioni ovvero l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente
comportano, previa contestazione e ferma restando l'eventuale responsabilità disciplinare
secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l'impossibilità di
rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi,
l'amministrazione può inoltre, previa contestazione e nel rispetto del
principio del contraddittorio, revocare l'incarico collocando il dirigente a
disposizione dei ruoli di cui all'articolo 23 ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le
disposizioni del contratto collettivo”.
Come volevasi dimostrare (e come
ha sempre sostenuto chi scrive), la normativa vigente consente di licenziare i
dirigenti, si ribadisce, alla stregua di quanto accade per qualsiasi lavoratore
dipendente.
La Cassazione chiarisce un
fatto, per altro più che ovvio: per il licenziamento occorre una “giusta causa”.
Insomma, si richiede all’ente datore di lavoro la “fatica” di evidenziare i
risultati mancati, i comportamenti non corretti, le violazioni poste in essere,
così da poter costruire l’assetto motivazionale che rende la “causa” del licenziamento
“giusta”. Come si richiede per qualsiasi altro lavoratore al mondo.
Licenziare i dirigenti pubblici,
pertanto, è possibile, possibilissimo, a condizione che, come detto sopra, si
faccia la “fatica” di raccogliere gli elementi di fatto necessari.
La riforma Madia, dunque, non
avrebbe introdotto per nulla la licenziabilità, perché già esistente, come
dimostra la Cassazione. Ma, avrebbe prodotto un effetto ben diverso ed
inaccettabile sempre alla luce della Costituzione vigente, anche se non c’è
stato – fortunatamente – modo di andare dalla Consulta per dimostrarlo:
prevedere il licenziamento “senza causa”.
Questo sarebbe stato il vero
effetto dirompente ed inaccettabile della riforma Madia. La scadenza di ogni
incarico dirigenziale, infatti, avrebbe comportato la collocazione del dirigente
in disponibilità, nella condizione di dover partecipare in ogni parte di Italia
a procedure di conferimento di nuovi incarichi lasciate al totale arbitrio
della politica, e a rischio di veder risolto il rapporto di lavoro dopo 24
mesi, anche a prescindere da una valutazione negativa e dall’esistenza di un “dossier”
di violazioni varie. Anzi, la riforma sarebbe giunta al paradosso assoluto: un
dirigente, confermato per altri 2 anni dopo i 4 iniziali di incarico proprio
per aver ottenuto una valutazione positiva, si sarebbe comunque trovato alle
soglie del licenziamento, una volta scaduto l’incarico.
La riforma Madia era palesemente
rivolta esattamente allo scopo di sollevare gli organi politici dal “peso” di
dover valutare i dirigenti e motivare esplicitamente le ragioni del licenziamento,
sì da evidenziare la “giusta causa” che, ovviamente, la Cassazione considera
imprescindibile. Nonostante Palazzo Vidoni avesse insistentemente dichiarato
che al lavoro pubblico si continui ad applicare la tutela dell’articolo 18
dello Statuto dei lavoratori, è evidente che per i dirigenti il meccanismo del
licenziamento senza causa non avrebbe consentito questa tutela, data solo per
illiceità del provvedimento di licenziamento: ma la riforma non avrebbe reso
nemmeno necessario il provvedimento di licenziamento espresso, lasciando la
conseguenza della risoluzione del rapporto di lavoro al mero trascorrere del
tempo, trasformando dunque un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in un
vero e proprio lavoro a chiamata a tempo determinato (anche se con scadenza non
prefissata, altro vulnus inaccettabile al sistema)
E’ bene tenere a mente queste
vicende, perché la tentazione di ritornare su una riforma impostata come quella
voluta dal Ministro Madia sarà sicuramente forte anche in futuro, considerando
per altro che in Italia, in Friuli Venezia Giulia, c’è comunque una previsione
di legge fortemente improntata nei contenuti alle indicazioni di una riforma
sciagurata, che la ventura ha evitato entrasse in vigore.
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