L’accordo sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego non ha
qualsiasi efficacia immediata, né comporta alcun incremento , medio che sia, di
85 euro medi al mese (che, comunque, sarebbero lordi).
E’ bene fare quella chiarezza che all’indomani della sottoscrizione del
30 novembre pare essere mancata nella stampa, i cui articoli celebrativi
dell’accordo destano l’impressione che da domani i dipendenti pubblici vedranno
la propria busta paga un po’ più pingue. Le cose non stanno affatto così.
Si tratta di un accordo genericissimo, che parla solo di linee
generali, con un linguaggio irto di tipico lessico “sindacalese”, evidente
frutto di una riconciliazione tra Governo e sindacati, forse dovuta al rush finale
per il referendum confermativo della legge di riforma della Costituzione, forse
derivante da un ripensamento del rapporto Governo-sindacati, certamente
tutt’altro che idilliaco all’inizio dell’esperienza di questo Esecutivo.
Le tracce di questa “sindacatalesità” sono evidenti ovunque. In
particolare nella previsione della costituzione dell’immancabile “osservatorio”
della riforma della pubblica amministrazione e delle sue fasi attuative. Come
far mancare, in accordi sindacali o, comunque, in vista di riforme finalizzate
alla pace ed alla captazione del consenso sindacale, un bell’osservatorio? E
non disperiamo: magari, salterà fuori anche qualche Agenzia o, meglio ancora,
Authority, vista la conclamata indispensabilità di simili organismi.
Andando ad esaminare un po’ meglio, per quello che è possibile data la
vaghezza del testo, i contenuti, si notano due elementi:
1)
l’intento di tornare ad attribuire alla contrattazione collettiva, sia
nazionale, sia decentrata, il ruolo di fonte principale della disciplina del
rapporto di lavoro, non solo economica;
2)
il potenziamento del ruolo dei contratti anche nella regolazione dei
sistemi organizzativi e di definizione delle regole sulla produtittività.
Potenziamento dei contratti. Questo primo punto segna una discontinuità molto chiara col d.lgs
150/2009, che ha, al contrario, ristretto la fonte contrattuale sostanzialmente
alla sola disciplina del rapporto di lavoro.
La riforma Brunetta partiva da una forte sfiducia nella contrattazione
collettiva, specie quella decentrata, alla luce di un’osservazione oggettiva:
la scarsissima capacità delle amministrazioni di contrattare come effettiva
“parte datoriale”, dunque portatrice di interessi contrapposti rispetto a
quelli sindacali; interessi da comporre, certo, ma pur sempre datoriali. Nella
gran parte dei casi, invece, le contrattazioni di secondo livello sono state
spinte dalla politica, nonostante la sua assenza nelle delegazioni trattanti,
verso la ricerca del consenso e della pace sindacale, a tutto detrimento proprio
di elementi quali la selettività nei sistemi di valutazione e di assegnazione
di riconoscimenti di produttività.
Da qui, per esempio, due elementi di fortissima criticità dei contratti
decentrati:
a)
il vero e proprio abuso delle progressioni economiche (o orizzontali),
effettuate in modo indistinto e generalizzato, tale da aver soffocato i fondi
di parte stabile ed impedito di utilizzare le risorse a fini di produttività,
inducendo le amministrazioni ad incrementi della parte variabile spessissimo
poco giustificati o, comunque, eccessivamente generosi;
b)
l’intento di considerare la produttività come un sistema di
distribuzione di reddito, qualcosa di simile ad una quattordicesima, assegnata
col “disturbo” di sistemi di valutazione per giustificarla.
Che oggettivamente la contrattazione decentrata sia stata di pessima
qualità lo attestano le decine e decine di ispezioni del Mef e il rapporto
sui troppi vizi dei contratti da questo redatto.
Non sembra proprio che le cose siano cambiate. Eppure, l’accordo fa un
“voto di fiducia” sulla possibilità di rilanciare il ruolo della contrattazione,
accondiscendendo alle richieste dei sindacati, sempre fieri avversari
specialmente della parte della riforma Brunetta che aveva depotenziato la
contrattazione collettiva.
Ovviamente, anche in questo caso l’accordo è solo una promessa. Il
Governo, infatti “si impegna” a promuovere, col decreto legislativo
attuativo dell’articolo 17 della legge 124/2015, “il riequilibrio, a favore
della contrattazione, del rapporto tra le fonti che disciplinano il rapporto di
lavoro”. L’impegno, in particolare, sarà “rivedere gli ambiti di
competenza, rispettivamente, della legge e della contrattazione, privilegiando
la fonte contrattuale quale luogo naturale per la disciplina del rapporto di
lavoro, dei diritti e delle garanzie dei lavoratori, nonché degli aspetti
organizzativi a questi direttamente pertinenti”.
Scritto così, l’impegno pare proprio finalizzato ad un ritorno al
passato della “cogestione” politica-sindacati dell’organizzazione del lavoro
pubblico. Strano, per un Governo che mira sempre al futuro ed alla rottamazione
delle vecchie politiche, degli inciuci e del consociativismo.
Attribuire ai contratti la disciplina dell’organizzazione del lavoro,
tipicamente datoriale e come tale unilaterale, è un bel salto indietro di 30
anni ed una professione di fede nella qualità dei contratti e dell’assenza
totale di conflitti di interesse dei sindacati.
La conferma del ritorno alla cogestione è data da due ulteriori
elementi. Il primo è l’impegno reciproco delle parti “ad individuare
ulteriori ambiti della partecipazione sindacale per nuove e piene relazioni
sindacali”: si tornerà a dover chiedere l’assenso dei sindacati anche per
esprimere ordini di servizio o adottare piani di lavoro? Il secondo è l’impegno
a ridurre la portata dell’atto unilaterale sostitutivo del contratto, nel caso
di prolungata trattativa sindacale senza approdare alla stipula del contratto.
Una previsione contenuta nell’articolo 40, comma 3-ter, del d.lgs 165/2001 ed
introdotta dalla riforma Brunetta, per la verità pochissimo utilizzata, ma
odiatissima dai sindacati, autori di feroci ricorsi ai giudici del lavoro per
“comportamento antisindcale” nei rari casi in cui le amministrazioni avessero
avuto piè fermo nell’avvalersi della previsione normativa. Inizialmente, i
giudici del lavoro caddero nella retorica del comportamento antisindacale, per
poi assestare, grazie all’opera interpretativa in sede di appello, la propria
giurisprudenza e riconoscere piena legittimità agli atti unilaterali.
Per “spuntare”, dunque, un’arma importantissima per evitare il blocco
della contrattazione dovuto alle impuntature sindacali su aspetti talvolta
nemmeno negoziabili, bisognava solo eliminare o depotenziare la norma. E il
Governo rende felicissimi i sindacati con l’impegno di riformare l’articolo 40,
comma 3-ter, “vincolando il ricorso all’atto unilaterale motivato delle
amministrazioni, dopo aver esperito tutte le procedute negoziali e nel rispetto
della correttezza dei rapporti tra le parti, limitatamente ai casi nei quali il
perdurare dello stallo nelle trattative, per un periodo di tempo che sarà
definito dai contratti collettivi, determini un pregiudizio economico
all’azione amministrativa. I contratti collettivi determineranno la durata
massima della vigenza dell’atto unilaterale”.
Qualcuno avrebbe dovuto informare il Governo, prima di impegnarsi in
simile modo, che la riforma della contabilità pubblica impone ormai senza
alcuna più possibilità di deroga, di sottoscrivere i contratti decentrati molto
presto, ben entro l’anno finanziario, perché in caso contrario non si può
lecitamente creare il titolo giuridico necessario per impegnare la spesa ed
imputarla correttamente. Dunque, qualsiasi stallo delle trattative che vada
oltre il febbraio, massimo marzo di ciascun anno determina un pregiudizio
economico all’azione amministrativa, che viene esposta a fortissimi danni
erariali e a tutte le noie conseguenti a ispezioni del Mef ed azioni della
magistratura contabile.
L’impegno assunto dal Governo, sia dal lato dell’incremento del peso
dei contratti, sia relativamente alla sostanziale eliminazione dell’unico
elemento di forza nelle trattative rappresentato dall’atto unilaterale, avrebbe
avuto maggior senso se fosse stato accompagnato, anche, da una ampia revisione
proprio dei sistemi di controllo e sanzione sulla contrattazione decentrata.
Detti controlli sono rimessi, sostanzialmente, solo ai revisori dei
conti: soggetti debolissimi, la cui utilità è oggettivamente scarsissima, visto
che non sono mai stati in grado nel passato di impedire stipule di contratti
decentrati scellerati (oltre alla altrettanto dubbia efficacia del loro ruolo
di vigilanza sui conti pubblici).
Bisognerebbe, allora, che servizi ispettivi del Mef e Corte dei conti
fossero coinvolti pienamente nella rielaborazione delle relazioni sindacali. Il
potenziamento della contrattazione riaprirebbe voragini verso deroghe alle
regole normative, che la delegazione trattante di parte pubblica, stretta nella
morsa della politica e dei sindacati, farebbe estrema fatica a contenere. Non
si dimentichi che nella delegazione trattante di parte pubblica sono presenti i
dirigenti: la riforma, naufragata ma sempre in rampa di lancio, della
dirigenza, è bene non dimenticarlo, prevedeva la responsabilità esclusiva dei
dirigenti per atti gestionali causativi di danno erariale, anche se attuativi
di indirizzi politici. La norma, non entrata (ancora) in vigore sembrava
scritta esattamente per il caso dei contratti decentrati: la politica, infatti,
in questi casi dispone direttive. Allora, col gioco combinato di incremento del
peso dei contratti, da un lato, ed attuazione (eventuale) della norma sulla
responsabilità dirigenziale, per la politica sarebbe semplicissimo concordare
al di fuori della contrattazione i contenuti del contratto decentrato, imporli
come direttiva alla dirigenza che si dovrebbe addossare tutte le conseguenze di
contratti decentrati affetti da varie violazioni dei vincoli normativi e
contrattuali.
Un caos, un disastro operativo, che sarebbe il caso di evitare, sia con
una saggia riforma del lavoro pubblico e un’accorta redistribuzione
dell’efficacia delle fonti contrattuali normative, sia non introducendo mai
l’esimente politica sulla responsabilità, sia soprattutto chiarendo una volta e
per sempre a Corte dei conti e Mef la portata delle relazioni sindacali. Se i
contratti decentrati diverranno fonte privilegiata di significativi aspetti
della regolazione, allora non sarà tollerabile che le ispezioni valutino il
merito delle scelte. Allo stesso modo, se qualche indennità sarà fissata per
valori decisi dalle parti, anche superiori a quelli fissati dalla
contrattazione nazionale ma comunque senza sforare il tetto al fondo, o, sempre
senza superare il tetto, si introduca qualche indennità non prevista, non dovrà
essere consentito alla Corte di attivare comunque l’azione di responsabilità
erariale solo “formale”. Oppure, Mef o Corte dei conti, a scelta, dovranno
essere coinvolti nel procedimento, mediante contolli preventivi, esattamente
come la Core dei
conti fa per il contratto collettivo nazionale di lavoro.
Produttività. Tutte
le criticità valutate sopra valgono a maggior ragione per il delicatissimo
argomento della produttività.
Ma, l’accordo prevede elementi ulteriori, tutti rimarchevoli. Si
registra l’impegno delle parti “ad individuare nuovi sistemi di valutazione”.
Questa è una formula stanca, che si ripete ormai da 30 anni. E’ da sperare che
possa essere l’occasione per riuscirvi davvero, ma se il presupposto è la
cogestione sindacale c’è da essere ben poco ottimisti.
I “nuovi sistemi di valutazione” ovviamente non potranno non garantire
“una adeguata valorizzazione delle professionalità e delle competenze”,
misurando e valorizzando “i differenti apporti individuali”. L’accordo,
purtroppo, continua a perpetuare l’errore principale di qualsiasi riforma
riguardante i sistemi di valutazione: puntare sulla misurazione dell’apporto
individuale, la famigerata performance (l’accordo ha di buono che questo
orrendo termine non è mai riprodotto), quando la produttività deve essere
necessariamente questione di lavoro di gruppo. Proprio l’inganno del peso della
produttività individuale ha generato il “mostro” delle fasce di valutazione,
imposto dalla riforma Brunetta, ma mai entrato in vigore, tutto incentrato
esattamente sul miraggio della performance individuale.
L’accordo avrebbe potuto essere un passaggio verso la maturità e la
consapevolezza che la produttività si misura con metriche necessariamente
connesse a risultati colti dall’amministrazione o propri settori. L’incentivo
individuale può ridursi a pochissimi premi di eccellenza, ma da lasciare alla
piena discrezionalità, per quanto motivata, della dirigenza. Del resto, anche
il decreto
che individua, nel privato, gli indicatori per incentivare il salario di
produttività contempla esclusivamente grandezze riferite alle aziende nel loro
complesso, e non la produttività individuale.
Tuttavia, il testo dell’accordo del 30 novembre è immerso in questo
perdurante equivoco ed aggiunge: “le parti si impegnano a individuare
specifiche misure volte a favorire le condizioni di lavoro e la valorizzazione
dell’apporto individuale in relazione agli obiettivi di produttività”.
Con formulazione del tutto generica e, comunque, in questo caso riproduttiva
esattamente delle disposizioni della riforma Brunetta, si aggiunge che la
valorizzazione della produttività sarà anche finalizzata al “soddisfacimento
delle esigenze dei cittadini in termini di qualità e tempi certi di
nell’erogazione dei servizi”. E’, comunque, un chiarimento utile: gli
obiettivi di produttività da premiare dovrebbero essere solo quelli che
comportino benefici per la popolazione amministrata e non quelli relativi a
meri sistemi organizzativi interni.
Presenze e assenze. A
conferma della confusione totale, comunque, sul concetto di produttività,
obiettivi ed indicatori, è la previsione dell’accordo nella quale le parti “si
impegnano ad individuare, con cadenza periodica, criteri e indicatori al fine
di misurare l’efficacia delle prestazioni delle amministrazioni e la loro
produttività collettiva (esiste anche quella collettiva, nene, nda) con
misure contrattuali che incentivino più elevati tassi medi di presenza”.
Facciamo, qui, proprie le parole di G. Trovati, nell’articolo “Responsabilità
da condividere per centrare gli obiettivi” su Il Sole 24ore dell’ dicembre
2016: “Intendiamoci, però: l'impegno a «incentivare più elevati tassi di
presenza» del personale, scritto nell'intesa, può valere come obiettivo
anti-assenteismo, tanto più dopo che il decreto Madia è finito nelle maglie
della sentenza costituzionale, ma non certo come rilancio della produttività: contrabbandare
per merito la sola presenza in ufficio appartiene infatti al novero delle
peggiori esperienze di contratti decentrati, e non può essere
istituzionalizzato in un'intesa che si vuole innovativa”.
A compensare la “presenza” dovrebbe essere più che sufficiente lo
stipendio, pagato, in realtà – come dovrebbe essere noto – non per la sola
cortesia di essere presenti sul lavoro, ma anche e soprattutto per realizzare
le attività richieste.
Sembra di rileggere le assurdità
a suo tempo contenute nell’articolo 71, comma 5, del d.l. 112/2008, convertito
in legge 133/2008 (disposizione, poi, abolita dopo che si sono accorti della
sua totale irragionevolezza ): “Le assenze dal servizio dei
dipendenti di cui al comma 1 non sono equiparate alla presenza in servizio
ai fini della distribuzione delle somme dei fondi per la contrattazione
integrativa”.
Dopo un legislatore che aveva scritto (in una legge!) che l’assenza non
equivale a presenza, un accordo che considerasse come “merito” o “risultato” la
presenza in servizio, così da renderla meritevole di incentivo, oggettivamente
si sperava di potercelo risparmiare.
Parte economica.
Infine, il “succo”. L’incremento di 85 euro “medi”. Una somma che, in realtà,
nessuno vedrà mai.
Intanto, perché si tratta ovviamente di un “lordo”, cosa che nessuno ha
avuto voglia di scrivere. Ma, soprattutto non perché:
1)
il finanziamento dei quasi 5 miliardi necessari è diluito in 3 anni ed
è del tutto incerto: non si capisce proprio dove, regioni, comuni e soprattutto
le disastrate province e città metropolitane, potranno mai reperire il
finanziamento a proprio carico, mentre gli enti del sistema sanitario nazionale
dovrebbero sottrarre risorse alle prestazioni sanitarie, per assicurare
l’aumento previsto;
2)
anche si dovessero reperire le risorse (si teme, con l’ennesima
operazione in deficit a incremento del debito complessivo del Paese), comunque
nelle tasche dei dipendenti non andranno le somme di cui si parla.
Infatti, l’accordo insiste molto sul “welfare aziendale”: un modo molto
elegante e british, per dire che siccome i fondi previsti in realtà non
vi sono e non vi saranno, gli enti saranno in qualche modo autorizzati (si
vedrà come, sempre tenendo presente che occorrerebbe verificare con la Corte dei conti i limiti da
rispettare in via preventiva) a dare gli incrementi “in natura” invece che in
denaro, appunto con prestazioni di welfare: come integrazioni
pensionistiche, misure di conciliazione del tempo di lavoro con quello
familiare e similari.
L’ultimo accenno riguarda il tema sempre presente della riduzione delle
forme flessibili di lavoro e del precariato. Se ne parla dal 2007: tra breve,
saranno 10 anni.
Insomma il Re è nudo. E diciamoci la verità fa anche un attimino schifo.
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