La vicenda dell’incarico dirigenziale
conferito dal sindaco Raggi al dott. Renato Marra, fratello di Raffaele Marra,
come raccontata dal parere dell’Anac, rivela moltissimi dei tanti, troppi
difetti funzionali che caratterizzano certamente il comune di Roma, ma che
l’esperienza di ogni giorno rivela esistere trasversalmente in quasi tutte le
amministrazioni locali.
Si tratta della conferma dell’esistenza di
una refrattarietà molto forte all’applicazione delle regole operative, viste
non come guida, bensì come freno ad una supposta totale libertà di azione,
nella falsa convinzione che la configurazione della struttura amministrativa
possa fondarsi su scelte “personali” della persona fisica del sindaco pro
tempore, presuntivamente investito del potere messianico di decidere per in
base a valutazioni del tutto personali, alla stregua di un capo azienda.
Continuando a ripetere il gravissimo errore di prospettiva di paragonare una
pubblica amministrazione, con poteri e scopi pubblicistici soggetti a regole
molto cogenti di gestione e limitazione di quei poteri, con un soggetto
privato, soggetto sostanzialmente solo al diritto comune nella sua legittima
ricerca dell’interesse egoistico al profitto.
Tra le molte conseguenze di questo equivoco,
indotto da oltre 30 anni da consulenti ed esperti dell’aziendalismo reclutati
dai vari governi per redigere le riforme “epocali” della PA realizzate ogni 2
anni, c’è quella delle modalità di organizzare gli enti e di conferire gli
incarichi dirigenziali.
Organizzare
vuol dire disorganizzare. La
delibera dell’Anac 1305 del 21 dicembre 2016 , nel raccontare in premessa le vicende
sottese all’incarico, evidenzia un’inveterata abitudine di tutte le
amministrazioni locali: appena si insediano, sono prese dall’irresistibile
voglia di “riorganizzare”.
La delibera, quindi, riporta quanto riferito
dal responsabile della prevenzione della corruzione, che ha fornito “un quadro generale delle azioni che hanno
fatto seguito allo svolgimento delle elezioni amministrative in data 22 giugno 2016 , finalizzate ad un processo di ulteriore
razionalizzazione ed efficientamento della macrostruttura capitolina”.
Mai che l’organizzazione precedente risulti
razionale ed efficiente. Occorre necessariamente e regolarmente sia una
razionalizzazione, sia un efficientamento. Che, poi, sono il presupposto per
avvicendamenti degli incarichi dirigenziali, dando la stura ai criteri più o
meno “fiduciari” di assegnazione, nonostante la palese violazione dei principi
costituzionali e delle norme vigenti.
Il
fumo degli interpelli.
Realizzati razionalizzazione ed efficientamento, il comune di Roma (come tutti
gli altri 8100) naturalmente poi dà avvio alle procedure per preporre i
dirigenti ai vertici delle strutture.
L’Anac ci dice che “L’amministrazione capitolina, per la prima volta nella sua storia -
sottolinea il RPCT - ha provveduto ad una procedura
di pubblico interpello rivolto a tutti i dirigenti di ruolo, con nota prot.
GB/66646 del 19 ottobre”.
Ai più attenti non sarà sfuggita l’identità
lessicale con la sciagurata riforma Madia della dirigenza, fermata dalla
sentenza della Consulta 251/2016: anche nel testo della riforma bocciata si
parla, infatti, di procedura “pubblica” tramite “interepello”, cioè un sistema
di pubblicazione degli incarichi da assegnare, per permettere ai dirigenti di
candidarsi.
In generale, le procedure pubbliche, in
quanto “procedure” regolano non solo la conoscibilità del loro avvio (evidenza
pubblica), ma anche e soprattutto i criteri per selezionare quale tra i
candidati risponda meglio ai requisiti, visto che le scelte dovrebbero essere
sorrette da principi di imparzialità ed efficienza.
Non nel caso degli incarichi dirigenziali:
gli interpelli, nel comune di Roma, come nello stesso disegno di riforma Madia,
altro non sono se non una cortina fumogena, per far apparire come “pubblica”
una procedura che, di pubblico, ha solo la prima parte, la pubblicazione degli
avvisi. Poi, invece, la scelta finale fuoriesce totalmente da qualsiasi sfera
di controllabilità della scelta, perché attratta nelle esclusive valutazioni
personali “di fiducia”. Infatti, la delibera dell’Anac, sulla base delle
delucidazioni del responsabile antocorruzione capitolino, aggiunge: “tutte le candidature pervenute presso la
segreteria del citato dipartimento sono state protocollate, raccolte dal
competente ufficio del dipartimento organizzazione e risorse umane e sono state
integralmente consegnate alla Sindaca, in data 27 ottobre 2016 “ai fini della successiva
analisi e valutazione in qualità di Organo individuato dalla normativa quale
soggetto investito di autonoma ed
esclusiva responsabilità rispetto alla nomina dei dirigenti, ai sensi del
citato art. 50, co. 10 del d.lgs. n. 267/2000”.
Nessuna
valutazione di merito, ma solo politica. L’Anac racconta anche come, poi, il sindaco ha “selezionato” i
dirigenti, riportando sue dichiarazioni: “Con
riguardo all’iter decisorio, la
Scrivente ha esaminato la documentazione pervenuta, come da
interpello, al Dipartimento Organizzazione e Risorse Umane, integralmente
consegnatami dagli uffici competenti alla scadenza del termine per la
presentazione delle domande ed ha individuato, con modalità non comparative, i candidati per le posizioni
dirigenziali oggetto di interpello, tenendo conto delle prioritarie esigenze
organizzative ed amministrative della nuova Amministrazione, delle risultanze
curriculari oltre che attraverso il dovuto
procedimento partecipativo con gli Assessori ed i Presidenti dei Municipi,
altresì sentiti i Consiglieri di maggioranza. Esaurita tale fase, ho
impartito le conseguenti direttive al Direttore del Dipartimento Organizzazione
e Risorse Umane non nota prot. n. RA/73456 del 9 novembre 2016 , affinché procedesse
alla conforme predisposizione delle relative Ordinanze”.
Dichiarazioni che rivelano la sconcertante e
consapevole riconduzione dell’assegnazione degli incarichi a valutazioni di
natura politica e non di carattere tecnico.
Infatti, il sindaco Raggi afferma:
1)
che
l’individuazione dei candidati è stata effettuata con “modalità non
comparative”, perifrasi per affermare che si è trattato di scelte fiduciarie
(la comparazione richiede una motivazione; la scelta intuitu personae no);
2)
che allo
scopo, ha coinvolto organi politici, come se si trattasse di selezionare quadri
di partito e non funzionari soggetti all’esclusivo interesse della Nazione, ai
sensi dell’articolo 98 della Costituzione.
Un modo di agire, questo, totalmente in
contrasto con le prescrizioni normative e, precisamente, con l’articolo 19,
comma 1, del d.lgs 165/2001, che descrive in tutt’altro modo l’iter da seguire:
“Ai fini del conferimento di ciascun
incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla natura e
alle caratteristiche degli obiettivi prefissati ed alla complessità della
struttura interessata, delle attitudini e delle capacità professionali del
singolo dirigente, dei risultati conseguiti in precedenza nell'amministrazione
di appartenenza e della relativa valutazione, delle specifiche competenze
organizzative possedute, nonché delle esperienze di direzione eventualmente
maturate all'estero, presso il settore privato o presso altre amministrazioni
pubbliche, purché attinenti al conferimento dell'incarico. Al conferimento
degli incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si applica l'articolo
2103 del codice civile”.
La disposizione normativa richiamata, che si
applica obbligatoriamente anche agli enti locali per effetto dell’articolo 98
del d.lgs 267/2000, come si nota impone proprio una valutazione di natura
comparativa, perché nega totalmente un rapporto di fiducia che non sia
“tecnica”, dunque da motivare in relazione ad elementi oggettivi di
valutazione-comparazione.
Il modus operandi del comune di Roma è
diffusissimo e dimostra che la riforma Madia, lungi dall’essere rivolta alla
valorizzazione del merito, altro non sarebbe stata se non la copertura
normativa a prassi estesissime di violazione delle regole operative. Prassi,
per altro, seguite senza troppi patemi anche da forze politiche qualificate come
“innovatrici”.
Confusione
tra politica e gestione.
Altro elemento rivelatore del caos operativo e della refrattarietà delle
amministrazioni ad applicare principi e regole è lo strano istituto della
“controfirma”, anch’esso abbastanza diffuso.
Il sindaco Raggi afferma di aver selezionato
in totale autonomia il dott. Renato Marra come dirigente del settore turismo.
Ma, l’Anac ha gioco facile nel ritenere che, al contrario, il sindaco si sia
avvalso dell’operato quanto meno istruttorio del settore del personale, retto
da Raffaele Marra, fratello di Raffaele, sia perché nell’ordinanza di nomina si
dà espressamente atto dell’operato svolto da quella struttura, sia perché il
dott. Raffaele Marra ha “controfirmato” l’ordinanza del sindaco.
Il cosa consista questa “controfirma” non è
dato sapere, almeno riferendosi a norme e canoni positivamente scritti
nell’ordinamento giuridico.
Gli atti del sindaco non sono soggetti alla
controfirma di nessun altro organo o soggetto e sono da imputare alla sua
esclusiva sfera giuridica.
Anche la “controfirma” del dirigente su atti
del sindaco, non potendosi attribuirle funzioni di controllo, è una mera
prassi, di illegittimità molto probabile. Infatti, da un lato ciascun
provvedimento amministrativo non può che essere sottoscritto in via esclusiva
dal solo soggetto competente, poiché la commistione nel processo di adozione
con altro soggetto vizia appunto l’atto di incompetenza. Per altro verso, la
ricerca da parte dell’organo di governo della “controfirma” intesa sicuramente
come “assenso” o “compartecipazione”, è una chiara violazione del principio di
separazione tra le funzioni politico-amministrative e funzioni di gestione, le
prime spettanti in via esclusiva agli organi di governo, le seconde alla
dirigenza.
La “controfirma” è semplicemente una prassi
che vìola il principio: utile, sicuramente, per riaffermare la “corrispondenza
di amorosi” sensi tra organo politico e dirigente “di fiducia”. Ma, in
contrasto con l’ordinamento.
Ordinanza? Accanto, poi, a disfunzioni caotiche “di
sistema”, la vicenda evidenzia anche ulteriori elementi quanto meno “ellittici”
rispetto all’ordinamento, come l’utilizzo, per gli incarichi dirigenziali
dell’ordinanza sindacale.
Ora, è vero che non occorre troppo fissarsi
sulla “forma” o sul nomen iuris,
dovendo necessariamente badare alla sostanza e, comunque, applicare il
principio secondo il quale l’errata qualificazione di un negozio giuridico non
lo inficia se la sua struttura sostanziale è correttamente impostata verso
l’effetto giuridico reale cui mira.
Tuttavia, dovrebbe essere cosa nota che
l’ordinanza, nell’ordinamento locale, è atto per sua natura:
1) straordinario: cioè extra ordinem, da
adottare non in modo “normale”;
2) consentito dalla legge: da adottare solo
quando la legge lo preveda.
E le ordinanze sono previste nei casi
indicati negli articoli 50 e 54 del d.lg 267/2000, che autorizzano i sindaci ad
adottarle, ma contestualmente circoscrivono e limitano lo spazio per l’adozione
di simili provvedimenti.
L’assegnazione di incarichi dirigenziali non
ha nulla di straordinario: è un atto di organizzazione, per altro strettamente
connesso anche alla gestione del rapporto di lavoro con la dirigenza, sicchè la
sua qualificazione come provvedimento amministrativo straordinario ed urgente è
da considerare erronea. Il sindaco non agisce quale autorità locale sanitaria o
di pubblica sicurezza, né nell’ambito di un procedimento amministrativo
sanzionatori, bensì nella funzione ordinaria di capo dell’amministrazione,
dotato di una competenza specifica di natura “corrente” ed abituale.
Conflitto di interessi. La delibera dell’Anac conferma la
necessità di applicare in modo esteso ed ampio il dpr 62/2013, noto come codice
di comportamento dei dipendenti pubblici.
L’indicazione dell’autorità non
può considerarsi sorprendente, perché in linea con quanto prevede proprio
l’articolo 6, comma 2, del citato dpr 62/2013: “Il dipendente si astiene dal prendere decisioni o svolgere attività
inerenti alle sue mansioni in situazioni di conflitto, anche potenziale, di
interessi con interessi personali, del coniuge, di conviventi, di parenti, di
affini entro il secondo grado. Il conflitto può riguardare interessi di
qualsiasi natura, anche non patrimoniali, come quelli derivanti dall’intento di
voler assecondare pressioni politiche, sindacali o dei superiori gerarchici”
(norma parallela è l’articolo 7 del medesimo dpr 62/2013, citato espressamente
dall’Anac nella sua delibera). Come si nota, la formula normativa è molto
estesa. Non solo il conflitto di interesse sorge se il dipendente “prende
decisioni”, cioè esercita il potere di determinare il contenuto del
provvedimento che possa riguardare interessi anche di propri parenti; l’ipotesi
si verifica anche laddove il dipendente svolga comunque “attività” concernenti
il procedimento.
Pertanto, i rischi di
“corruzione amministrativa”, l’agire, cioè, col pericolo di inquinare fini ed
obiettivi generali pubblici con interessi privati, non si limitano alla sola
fase della decisione ed al solo ruolo di organo decidente. Al contrario, riguardano
sostanzialmente ogni fase procedimentale: da quella di avvio, all’istruttoria,
fino all’esecuzione.
La logica stringente della
normativa anticorruzione da questo punto di vista è coerente. Il conflitto di
interessi può indurre l’addetto alla protocollazione ad acquisire una domanda
prima di altre, l’istruttore a condurre l’esame delle condizioni e del
carteggio in modo meno penetrante, il controllore dell’esecuzione nel modo più
favorevole possibile per il destinatario.
Pertanto, le amministrazioni
debbono avere l'accortezza di verificare la situazione di conflitto di
interesse con riferimento sostanzialmente a tutti i dipendenti che, di volta in
volta, risultino coinvolti nelle molteplici attività realizzate nella gestione:
da chi dispone dei poteri decisori al responsabile del procedimento,
dall'addetto allo sportello al redattore dei testi, dal protocollatore a chi
invia le comunicazioni.
Illegittimità
e reati? E’ bene chiarire
che la situazione di conflitto di interesse, nel caso di specie, non ha
coinvolto il sindaco di Roma, bensì il dirigente del personale. E’ un conflitto
che si riflette sicuramente sull’incarico dirigenziale, ma non ne costituisce
vizio di legittimità per violazione di legge: semmai, i vizi di legittimità di
tale natura potrebbero ricavarsi dalle procedure seguite, non dalla
partecipazione al procedimento di una persona in conflitto di interessi,
questione che riguarda la responsabilità disciplinare, civile, contabile e
penale di questa, non il provvedimento in sé e per sé.
Ovviamente, si pongono problemi
sull’opportunità del provvedimento, ma è noto che le valutazioni
sull’opportunità concernono il merito e non la legittimità e sono sottratte al
giudizio del giudice amministrativo: sarà compito del sindaco di Roma valutare se
revocare l’incarico assegnato.
In quanto alla commissione di reati, è
impossibile qui pronunciarsi. Molti calcano la mano sulla circostanza che
l’Anac ha deciso di inviare il fascicolo alla Procura della Repubblica di Roma:
è un atto dovuto. Vedrà la
Procura se vi siano ipotesi di reato da perseguire.
L’automatismo tra conflitto di interesse del dirigente del personale
nell’incarico dirigenziale al fratello e l’abuso d’ufficio commesso dal sindaco
per l’assegnazione del medesimo incarico non sussiste: occorre verificare
quella rigorosa sequenza causa-effetto che caratterizza la commissione dei
reati.
Si deve anche ricordare che la violazione
delle norme disposte dal complesso delle regole “anticorruzione” si per sé non
determina automaticamente la commissione di un reato. Infatti, la disciplina
dell’anticorruzione discendente dalla legge 190/2012 è riferibile all’ipotesi
di “corruzione amministrativa”, consistente nello svolgere l’attività
amministrativa viziata ed inquinata dalla compressione o annullamento
dell’obiettivo dell’interesse pubblico, dovuta alla compresenza di interessi
privati ed egoistici da parte dei soggetti competenti ad agire.
Certo, come
sempre afferma l’Anac, occorre poter verificare se il conflitto di interesse
abbia costituito “fonte di illegittimità del procedimento e del provvedimento
conclusivo dello stesso, quale sintomo di eccesso di potere sotto il profilo
dello sviamento della funzione tipica dell’azione amministrativa”. In altre
parole, occorre capire se l’incarico al dirigente del turismo sia stato
condizionato proprio dall’intento di favorirlo in quanto stretto congiunto del
capo del personale, notoriamente “di fiducia” del sindaco. La dimostrazione di
ciò può essere l’innesco sia per una decisione di annullamento da parte del giudice
amministrativo, sia per l’avvio dell’azione penale, ma non è ovviamente questa
la sede per poter immaginare questi sviluppi.
La cosa da sottolineare è, però, che il caos
operativo del comune di Roma non è sicuramente solo del comune di Roma: le prassi
evidenziate dall’Anac sono trasversali e comuni al mondo degli enti locali nel
suo complesso.
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