Nessuno verifica gli
atti prima che producano effetti. Il risultato è l’inseguirsi di norme
inutilmente ripetitive e l’Anac che funge da anticamera alle procure
Tornare sulla situazione caotica
del comune di Roma è utile per comprendere la reale condizione dell’ordinamento
istituzionale della pubblica amministrazione in Italia.
L’intera vicenda è
caratterizzata da contraddizioni in termini di una quantità di norme e
comportamenti, tale da rendere potenzialmente completamente inefficace e
comunque casuale l’azione non solo dell’amministrazione, ma anche la reazione dell’ordinamento
alle eventuali illegittimità.
Le cause di tutto questo, lo si
ribadisce per l’ennesima volta, sono da rinvenire in particolare nella
decisione sciagurata di eliminare i controlli preventivi di legittimità sui
provvedimenti, aprendo spazi per forme “suppletive”, tuttavia assolutamente non
in grado né di scongiurare l’adozione di atti illegittimi, né di fare da
deterrenza e, invece, capaci di generare un contenzioso giurisdizionale
infinito.
Codice etico e responsabilità penale. Moltissimi, nell’esaminare e
prendere in considerazione (se l’hanno fatto) il dpr 62/2013, il codice di
comportamento dei dipendenti pubblici, lo hanno sottovalutato.
Vi è la convinzione diffusissima
che si tratti, in fondo, solo di un orpello burocratico e mediatico, il cui
scopo è creare l’ennesimo diluvio burocratico di autodichiarazioni e clausole, nonché
evitare di accettare regali di valore (come gli orologi preziosissimi, che
invece i componenti di missioni all’estero del Governo si disputano
accanitamente, si vedano le cronache de Il Fatto Quotidiano sul viaggio a Ryad
dell’8 novembre 2015).
Eppure, il dpr 32/2013 porta con
sé un articolo 16, comma 1, dal tenore piuttosto chiaro: “La violazione degli obblighi
previsti dal presente Codice integra
comportamenti contrari ai doveri d’ufficio. Ferme restando le ipotesi in
cui la violazione delle disposizioni contenute nel presente Codice, nonché dei
doveri e degli obblighi previsti dal piano di prevenzione della corruzione, dà luogo anche a responsabilità penale,
civile, amministrativa o contabile del pubblico dipendente, essa è fonte di
responsabilità disciplinare accertata all’esito del procedimento disciplinare,
nel rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità delle sanzioni”.
Insomma, l’obbligo di astensione
nel caso di conflitto di interessi, anche solo potenziale, posto dal dpr 62/2013
in attuazione delle regole disposte dalla legge “anticorruzione”, la legge
190/2012, non è un semplice consiglio, né un auspicio. E’ un dovere che il
dipendente pubblico è tenuto a rispettare, la cui infrazione non ha rilevanza
solo amministrativa, ma in un crescendo di responsabilità proprio della sola
PA, comporta responsabilità disciplinare, civile, amministrativo-contabile e
anche penale.
Se una norma dispone che la
violazione ai propri precetti “integra comportamenti contrari ai doveri d’ufficio”,
avvicina il comportamento all’ipotesi di reato di “corruzione per atto
contrario ai doveri d’ufficio”, prevista dall’articolo 319 del codice penale: “Il pubblico ufficiale, che, per omettere o
ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per
compiere o per aver compiuto un atto
contrario ai doveri di ufficio, riceve,
per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la
promessa, è punito con la reclusione da due a cinque anni”.
Non si deve sottovalutare la
portata della norma, come pare evidente sia accaduto nel comune di Roma, dove l’inciampo
nel conflitto di interessi derivante dalla partecipazione del dirigente del
personale, Raffaele Marra, al procedimento di incarico dirigenziale del
fratello Renato Marra verso una posizione più elevata della precedente, sembra
un dato di fatto.
Se, dunque, giunge in Procura
della Repubblica un fatto come quello del comune di Roma, appare difficile che
i pubblici ministeri possano non aprire un fascicolo di inchiesta.
Nel caso di specie, gli
elementi, in astratto, vi sono tutti: la violazione del codice di
comportamento, segnatamente del divieto di conflitto di interessi, per aver
preso parte al procedimento di “promozione” del fratello, dal quale è
conseguita la ricezione di “altra utilità” (appunto la promozione), per effetto
di un “patto illecito” col sindaco, che a quella promozione ha dato esito.
Ovviamente, si tratta solo di un
impianto accusatorio potenziale, non di una sentenza. Ma è un impianto che i pm
non possono trascurare.
L’avvio dell’inchiesta, allora,
è inevitabile. Come inevitabile è prendere una volta e per sempre atto che il
dpr 62/2013 è una cosa molto seria.
Semmai, c’è da chiedersi quanto
costituzionale sia una norma come il dpr 62/2013, che sul piano sostanziale si
può configurare come norma penale, la cui compatibilità, allora, con l’articolo
25, comma 2, della Costituzione appare piuttosto complicata, considerando che,
nella realtà, l’integrazione di comportamento contrario ai doveri d’ufficio
dovuto sempre in ogni caso alla violazione di qualsiasi precetto del codice di
comportamento appare anche una sorta di norma penale in bianco, che non
distingue la gravità delle fattispecie, allo scopo di indirizzare anche l’azione
penale. E’ lo stesso accettare un regalo superiore di un euro alla soglia
fissata dall’amministrazione, o favorire la promozione di un fratello o
congiunto che comporti un forte incremento stipendiale? E cosa si intende per
partecipazione al procedimento o, simmetricamente, per dovere di astensione?
Non sottoscrivere nessun atto? Oppure, anche, nemmeno rispondere ad
informazioni che il sindaco chieda sulle norme e sui trattamenti economici in
una chat on line? Insomma, quanto esteso è il dovere di astensione? Il fatto
stesso che si possa porre simile domanda, lascia capire il caos normativo
creato dalla disciplina ricordata.
Ruolo dell’Anac. Le vicende di Roma evidenziano che in casi come
quelli verificatisi, cioè quando un provvedimento come quello della nomina del
capo di gabinetto (era il caso della dottoressa Raineri) o dell’assegnazione
dell’incarico dirigenziale di vertice dell’ufficio turismo al fratello del
dott. Raffaele Marra, è già adottato e lo si trasmetta all’Anac per un “parere”
sul merito, la vicenda sicuramente trasla dal piano amministrativo a quello
penale.
Anche in questo caso molti non
hanno chiaro ruolo e funzione dell’Anac: non si tratta di un organo
amministrativo di controllo sugli atti, ma, appunto, di un’autorità
indipendente, con poteri estremamente pervasivi in tema di lotta alla
corruzione, trasparenza e appalti.
Laddove all’Anac venga
sottoposto l’esame di provvedimenti già adottati che, secondo l’istruttoria
compiuta dall’autorità stessa, possa comportare la violazione delle regole
normative anticorruzione, vista la connessione abbastanza diretta tra la
violazione della corruzione “amministrativa” prevista dalle regole della legge
190/2012 e dal dpr 32/2013 e la commissione di reati contro la PA, l’invio dell’incartamento
alla Procura della Repubblica (oltre che alla Corte dei conti ed ai servizi
ispettivi della Funzione Pubblica) è tanto certo, quanto doveroso.
L’Anac non può essere una “stanza
di compensazione” presso la quale risolvere incertezze su scelte già adottate.
Il modello che l’autorità ha proposto per la prevenzione della corruzione negli
appalti è quello della stipulazione di protocolli di intesa o simili atti con
le stazioni appaltanti, per collaborare con esse ai fini della verifica anche
preventiva di atti, come bandi o prezziari, e dei contratti.
Occorre, dunque, un atto
negoziale. Il fatto stesso che tale modello possa consentire all’Anac
interventi preventivi la dice lunghissima sull’errore clamoroso del legislatore
di aver eliminato i controlli preventivi di legittimità. Su questo, torneremo
dopo.
Fiduciarietà e procedure di incarico. E’ evidente che la questione
legata all’incarico a Renato Marra come dirigente del settore turismo si
collega strettamente alla più complessa questione degli incarichi dirigenziali,
maldestramente trattata dalla legge Madia, il cui decreto attuativo per fortuna
non è mai entrato in vigore, grazie alla provvidenziale sentenza della Consulta
251/2016.
Il tema che si pone è semplice:
sono ammessi e in che misura incarichi dirigenziali di natura fiduciaria?
Oppure, gli incarichi debbono essere attribuiti sulla base di procedure
selettive ad evidenza pubblica?
Leggendo l’articolo 97 della
Costituzione e seguendo minimi principi di logica, oltre che di efficienza e
valutazione del merito, la risposta non potrebbe che essere una: la
fiduciarietà andrebbe bandita e limitata esclusivamente a pochissimi incarichi
di stretta pertinenza allo staff politico: i massimi vertici dello Stato, come
il ragioniere generale, il comandante delle forze armate, il capo della polizia
e similari, i consiglieri politici o diplomatici dei ministri, i capi di
gabinetto dei ministeri (non dei sindaci, perché la figura del capo di
gabinetto negli enti locali, in cui la presenza di collaboratori diretti del
sindaco quali sono gli assessori, e del segretario generale, la rende assolutamente
inutile e costosa), i porta voce, gli addetti stampa.
Invece, come noto, l’impianto
della Madia seguiva il desiderio di ogni politico: poter incaricare dirigenti a
propria immagine e somiglianza, esclusivamente per via fiduciaria ed
appartenenza politica. Curiosamente, simile modo di assegnare gli incarichi,
evidentemente contrario a tutti i principi fissati dalla Costituzione (e non è
un caso che la Corte costituzionale puntualmente affossi qualsiasi legge che
cerchi di espandere lo spoil system oltre i confini degli incarichi
dirigenziali esemplificati sopra; da ultimo, la sentenza 15/2017) difficilmente
dà la stura a casi come quelli di Roma, però.
Certo, il conflitto di interessi
dei fratelli coinvolti e la poca accortezza del sindaco Raggi appaiono molto
chiari.
Ma, chiunque conosca anche non
troppo a fondo il mondo della PA, sa che esistono migliaia di incarichi
dirigenziali nei quali il conflitto di interessi, che scatta non solo in caso
di parentela tra i soggetti coinvolti, ma anche per legami di amicizia o di
vicinanza per altre ragioni, è meno evidente ma potenzialmente presentissimo.
Sono appunto gli incarichi assegnati saltando qualsiasi selezione, dovuti a
ragioni di vicinanza politica, con fortissimi sospetti sulla circostanza che il
beneficiato restituisca al king maker parte della retribuzione annuale; come
diffusissimi sono gli incarichi assegnati a persone visibilmente prive di
requisiti di professionalità o titoli di studio: è incredibile controllare
accedendo alle banche dati delle sentenze della Corte dei conti e dei Tar
quanto diffusa sia l’assegnazione di incarichi dirigenziali a persone prive di
laurea o addirittura con la sola terza media.
E’ bene ricordare, a questo
proposito, che uno dei primi interventi del Governo Renzi, paladino del “merito”,
per riformare la PA è stato il d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014, che
al suo interno ha una norma “capolavoro” di modifica dell’articolo 90, nel
quale è stato introdotto il celeberrimo comma 3-bis: “Resta fermo il divieto di effettuazione di attività gestionale anche
nel caso in cui nel contratto individuale di lavoro il trattamento economico, prescindendo dal possesso del titolo di
studio, è parametrato a quello dirigenziale”.
Una norma, insomma, che consente
ai sindaci di chiamare per via diretta nel proprio staff chiunque, ma proprio
chiunque, assegnargli uno stipendio dirigenziale, prescindendo dal titolo di
studio. Il modo, insomma, per legittimare incarichi a “cavalli di Caligola”,
proprio perché diffusissimi.
Paradossalmente, simili
incarichi non saranno mai oggetto di azione penale, perché c’è una legge che li
consente.
Nel caso di Roma, la vicenda,
anche se gestita malissimo, è di tutt’altro tenore. Renato Marra, fratello di
Raffaele, era da decine di anni dirigente del comune. A meno di licenziarlo o
farlo fuori perché presso l’ente lavorava anche suo fratello, come qualsiasi
altro dirigente aveva diritto, e il comune di Roma simmetrico dovere, di
ricevere un incarico dirigenziale.
Ora, se il sindaco del comune di
Roma, come qualsiasi altro organo politico, avesse compreso (e fosse stato ben
consigliato) che utilizzare procedure selettive ad evidenza pubblica e
trasparenti è a tutela oltre che del buon andamento e dell’interesse pubblico
generale, anche della singola posizione individuale dei soggetti coinvolti, non
avrebbe sicuramente agito un po’ fingendo di dare corso ad una procedura
selettiva, un po’, però, riservandosi un’ultima parola da deus ex machina. Esattamente l’equivoco della pessima riforma
Madia, che simulando un sistema selettivo della dirigenza, sotto la cortina
fumogena del ruolo nazionale e degli “interpelli” (avvisi pubblici per
permettere agli appartenenti al ruolo di candidarsi ad incarichi da conferire),
avrebbe consentito a sindaci e organi di governo di incaricare esattamente chi
sarebbe loro parso meglio, senza alcuna motivazione, senza alcuna selezione.
Si potrebbe, poi, affermare che
chi di fiducia colpisce, di fiducia perisce. Il sindaco di Roma ha platealmente
inteso attivare con il dott. Raffaele Marra un rapporto di fiducia, quando lo
incaricò come vice capo di gabinetto (se nei comuni non serve assolutamente a
nulla il capo di gabinetto, proviamo a immaginare a cosa serva il vice di
questo o a cosa possa servire la mostruosa struttura di 260 impiegati nel
gabinetto del sindaco di Roma, che poi nemmeno riesce a tenere in maniera
corretta i conti di pranzi e cene del sindaco, come insegna il caso Marino).
La questione à davvero oltre il
kafkiano. Il sindaco di Roma affida, per propria fiducia personale, ad un
dirigente (comunque “discusso”) un incarico dirigenziale fiduciario, per dargli
un ruolo ufficiale dentro il “raggio magico”. Il partito di appartenenza
costringe il sindaco a recedere da quell’incarico troppo di fiducia. Il
sindaco, allora, lo incarica come capo del personale, per mantenergli un ruolo
rilevante sempre nel raggio d’azione della propria attività, trasformando anche
un incarico di natura gestionale, quale quello di vertice del personale, in una
vicenda dal sapore politico. Ma, quella “fiducia” era evidentemente mal
riposta. L’incaricato, infatti, finisce agli arresti. Vero è che il sindaco di
Roma non avrebbe mai potuto immaginare che tre anni prima, l’incaricato si
sarebbe macchiato di reati. Tuttavia, la cosa dovrebbe essere di insegnamento:
la fiducia di un politico su chiunque non può bastare a garantire la buona e
corretta amministrazione. Al di là delle responsabilità penali tutte da
accertare in capo al Raffaele Marra, la beffa è, comunque, che quel dirigente
incaricato ai vertici dirigenziali di Roma non ha avuto l’accortezza di tenersi
lontano, molto lontano, dalle procedure di incarico del fratello, contribuendo
a creare un clima di confusione amministrativa nel quale, alla fine, il sindaco
di Roma non ha avuto capacità di districarsi, finiendo anch’essa nell’inchiesta
dei PM.
Controlli preventivi. Al di là delle vicende personali dei
protagonisti, ci si dovrebbe chiedere: ma, in tutto questo caos, i cittadini di
Roma, che beneficio ne stanno traendo?
La risposta è chiara: nessuno.
Norme, regole, procedure che dovrebbero servire solo per far funzionare un ente
capace di rendere servizi utili ai cittadini, divengono, invece, un ginepraio,
un caos che invece di essere di beneficio alla comunità amministrata è una
mortificazione.
Ma, tutto questo, si potrebbe
evitare? Certo che sì. Torniamo alla questione dei controlli preventivi.
Se fosse vigente un sistema nel
quale l’atto del sindaco di incarico dei dirigenti debba essere sottoposto al
controllo preventivo di legittimità di un soggetto terzo (e anche a debita
distanza geografica dall’ente controllato), l’incarico al fratello di Raffaele
Marra non sarebbe stato conferito o non sarebbe stato valido ed efficace.
Il conflitto di interessi
avrebbe potuto essere limitato alla sola figura del Raffaele Marra, e il
sindaco avrebbe potuto continuare a governare il comune con un’inchiesta
giudiziaria in meno. L’Anac non sarebbe stata coinvolta, se non eventualmente
proprio per il caso di conflitto di interesse del solo capo del personale.
Insomma, l’intera vicende
avrebbe potuto avere dimensioni estremamente più ridotte e contenute sul piano
tecnico, giuridico e mediatico, a tutto vantaggio della certezza del diritto,
con l’eliminazione di concetti inconcepibili alla luce della Costituzione, come
la “fiduciarietà” e forse i cittadini di Roma avrebbero avuto un sindaco con
qualche ora della giornata in più da dedicare ai loro bisogni.
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