Cosa hanno in comune un acquisto di
pc e stampanti da 900 euro, un ponte che crolla e l’appalto da 2,7
miliardi per il facility managenent, indetto dalla Consip?
Apparentemente nulla, data la
profonda diversità dei fatti e dei presupposti che regolano le
diverse fattispecie.
Però, valutando con maggiore
attenzione le tre ipotesi, un filo conduttore si trova: è il codice
dei contratti, ma, meglio ancora, la complessa normativa che regola
gli appalti. Talmente complessa, da scatenare procedure di controllo
per importi oggettivamente risibili, ma non riesce a garantire misure
di sicurezza tali da non far cadere un viadotto in manutenzione,
mentre non riesce a sventare con mezzi amministrativi tentativi di
corruzione su appalti di importo talmente elevato che dovrebbe
risultare ovvia e certa la loro enorme esposizione a tentativi di
malaffare.
Il codice, d.lgs 50/2016, è stato
acclamato dalla stampa generalista in particolare come la riforma che
ad un tempo avrebbe rilanciato l’edilizia e gli investimenti,
aumentato la sicurezza degli appalti e ridotto la corruzione.
E’ passato quasi un anno dal 19
aprile del 2016, ma gli effetti auspicati non si sono assolutamente
visti. Il controcanto dei tanti commentatori e soprattutto operatori
rispetto alle decantazioni della stampa generalista non era,
purtroppo, privo di fondamento.
Del resto, come dimostrano anche le
sorti del Jobs Act, non possono essere riforme dell’ordinamento a
rilanciare l’economia. Come non si possono creare posti di lavoro e
ricchezza per legge, è impossibile rilanciare l’edilizia per
effetto di un codice dei contratti, se manca un presupposto
fondamentale: disporre di denari, di capacità di spesa per
investimenti. Disponibilità che, se non è chiaro è bene
precisarlo, deve possedere lo Stato e la PA. Infatti, il d.lgs
50/2016 è il “codice degli appalti pubblici”, l’insieme delle
regole, quindi, delle commesse pubbliche. Ma, se il bilancio dello
Stato è stretto da 30 miliardi circa tra bonus come gli 80 euro e le
decontribuzioni dedicate appunto al Jobs Act, da un debito di oltre 2
mila miliardi, da un rapporto deficit/pil oltre i limiti concessi da
Bruxelles e da una spesa per interessi di 70 miliardi; se il bilancio
dello Stato non consente da 8 anni di rinnovare nemmeno i contratti
del pubblico impiego e la normativa impone forme sempre più astruse
di spending review
esattamente allo scopo di ridurre la spesa, appare ben difficile che
qualsiasi riforma riesca davvero a rilanciare investimenti nel campo
delle commesse pubbliche.
Al
contempo, se la lotta alla corruzione resta comunque appannaggio vero
delle sole indagini giudiziarie, quelle che hanno stanato le trame
dietro al mega appalto Consip di facility management, nonostante un
dilagare incontrollato di norme, codicilli e adempimenti formali
della normativa anticorruzione, non può non risultare evidente che
anche in questo campo il d.lgs 50/2016 è solo una sovrastruttura,
che ha finito per andare oltre la doverosa funzione di regolazione
dei modi con i quali la PA acquisisce le commesse, per divenire un
roveto di spine di regole che arrovellano gli operatori, senza
costrutto.
Accade,
così, che avvenga il cortocircuito delle regole e dell’operatività,
per una pipa di tabacco.
Un
comune colpito dal recente terremoto, si è ritrovato senza sede
perché dichiarata inagibile.
Per
lavorare, dunque, non potendo accedere più agli uffici e, quindi, ai
pc e alle stampanti necessari a trascrivere i provvedimenti, hanno
deciso di comprarli. D’urgenza.
Quel
comune, colpito dal sisma, ha ritenuto, allora, di ritrovarsi nella
situazione di “somma urgenza” prevista dall’articolo 163 del
codice dei contratti. Il cui comma 6 dispone: “Costituisce
circostanza di somma urgenza, ai fini del presente articolo, anche il
verificarsi degli eventi di cui all'articolo 2, comma 1, lettera c),
della legge 24 febbraio 1992, n. 225”,
cioè il verificarsi di calamità naturali. E un terremoto,
indubbiamente, è una calamità naturale.
Il
comma 6 dell’articolo 163 prosegue precisando che “in
tali circostanze le amministrazioni aggiudicatrici possono procedere
all'affidamento di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture
con le procedure previste nel presente articolo”.
Le
procedure in argomento sono, nella sostanza, la possibilità di
ordinare direttamente la commessa all’operatore economico,
effettuando l’impegno della spesa correlata successivamente. Una
deroga alle ordinarie procedure, proprio giustificata dall’urgenza.
Ma,
c’è un ma. Nel Paese nel quale la riforma della contabilità
pubblica è considerata una sua “semplificazione”, ma ha, invece,
prodotto un proliferare incontrollato di “fondi” di varia natura
e fatto redigere fiumi di “principi contabili” inestricabili e
complicatissimi, portando al parossismo gli adempimenti anche in
campo contabile, oltre che nel campo dell’anticorruzione,
regolarizzare una spesa assunta in via d’urgenza, anche per un
comune terremotato, anche per una spesa irrisoria, diventa un Everest
burocratico.
Sì,
perché l’assunto della normativa anticorruzione non è tanto
scovare i comportamenti dei corruttori, quanto impedire ai dipendenti
pubblici di farsi corrompere, partendo dal presupposto che sono loro,
i dipendenti pubblici, la parte debole del sistema, della quale non
ci si può fidare.
Nel
caso di specie, quel comune ha acquistato due pc ed una stampante
spendendo 900 euro in tutto.
Ai
sensi del comma 9 dell’articolo 163 del codice dei contratti, però,
qualora si acquistino beni come previsto dal comma 6 “per
i quali non siano disponibili elenchi di prezzi definiti mediante
l'utilizzo di prezzari ufficiali di riferimento, gli affidatari si
impegnano a fornire i servizi e le forniture richiesti ad un prezzo
provvisorio stabilito consensualmente tra le parti e ad accettare la
determinazione definitiva del prezzo a seguito di apposita
valutazione di congruità”.
Quel
comune, evidentemente preso dallo scrupolo, ha ritenuto opportuno
considerare la spesa (di 900 euro) non collegata a prezziari
ufficiali di riferimento, che, in effetti, per forniture e servizi
non esistono. Dunque, il responsabile del procedimento ha agito come
dispone, nel prosieguo, il comma 9: ha comunicato il prezzo
provvisorio, unitamente ai documenti esplicativi dell'affidamento,
all'ANAC. Questa, come prevede la norme, entro i successivi 60 giorni
si è mossa per rendere il proprio parere sulla congruità del
prezzo.
Allo
scopo, anche se la comunicazione del comune risale al gennaio 2017,
l’Anac ha ritenuto di dover applicare la procedura indicata nel
Comunicato del Presidente datato 15 febbraio e pubblicato il 3 marzo
del 2017. Detto Comunicato prescrive che allo scopo di consentire
all’Autorità di valutare, allo scopo di attivare la propria
consulenza collaborativa sulla conguità del prezzo, l’ente deve
indicare: “tutte le informazioni e gli elementi
essenziali relativi all’acquisto effettuato che permettono di
procedere alla valutazione di congruità del prezzo”.
Infatti, in caso contrario “L'Autorità informa le
amministrazioni qualora la comunicazione risulti incompleta. In tal
caso, il termine di sessanta giorni previsto dall'articolo 163,
comma 9, del d.lgs. n. 50/2016 decorre dal ricevimento delle
informazioni che integrano la comunicazione”.
Dunque,
l’Anac ha chiesto al comune terremotato marca, modello,
caratteristiche tecniche e singoli prezzi unitari; marca, modello,
caratteristiche tecniche e costo unitario degli switch acquistati;
modalità di acquisto e di
pagamento, indicando che non si tratta di spesa di natura economale,
effettuato mediante il ricorso al servizio di cassa interno.
Il
comune, terremotato, dovrà rispondere adeguatamente, per consentire
all’Anac di esprimere il proprio parere “collaborativo” di
congruità. Che, così “collaborativo”
evidentemente non è se l’articolo 163, comma 9, conclude
disponendo che “Avverso la decisione dell'ANAC sono
esperibili i normali rimedi di legge mediante ricorso ai competenti
organi di giustizia amministrativa”:
sembra evidente che la
pronuncia dell’Anac ha natura provvedimentale e definitiva, tanto
che se stabilisse un prezzo diverso ed inferiore l’ente che ha
attivato l’acquisto di somma urgenza potrebbe ricorrere avverso la
decisione dell’Anac solo rivolgendosi al giudice amministrativo.
Torniamo
al caso di specie. Un funzionario del comune, dopo aver effettuato un
acquisto di 900 euro (novecento euro) ha redatto la richiesta di
parere all’Anac; questa, ha istruito la pratica ed un altro
funzionario ha specificato di non poter esprimere il parere di
congruità su una spesa di 900 euro (novecento euro), chiedendo le
integrazioni viste prima; il funzionario comunale dovrà nuovamente
istruire la pratica, fornendo all’Anac le integrazioni richieste;
l’Anac riprenderà in mano gli atti e formulerà il parere di
congruità. Sperando che sia favorevole: difficilmente, si immagina,
il comune ricorrerebbe al Tar su valutazioni di congruità relative
ad un acquisto di 900 euro, considerando che il solo contributo
unificato ne costerebbe circa 750 di euro.
Ora,
è chiaro che l’Anac, richiesta del parere, non poteva certo
sottrarsi ad un dovere di ufficio di applicare le regole operative,
anche se alcune di queste le ha elaborate l’Anac stessa
successivamente al parere stesso.
Ma,
la vicenda suscita alcune domande. Al di là della doverosità di
agire da parte dell’Anac:
1)
quanto costa complessivamente questa complessa istruttoria così
articolata, tra spese del comune e spese dell’Anac?
2)
qual è il rapporto tra le spese di istruttoria e il costo
complessivo della fornitura, che, si ribadisce, è di 900 euro
(novecento euro)?
3)
nessuno, proprio nessuno, ha pensato, nel redigere il codice, ad
introdurre una soglia sotto la quale attivare simili procedure,
connesse per altro anche a situazioni drammatiche come un terremoto,
per evitare defatiganti
procedure per valori irrisori?
4)
sono i 900 euro in questione, spesi da un comune terremotato per
svolgere le funzioni amministrative minime, che determinano, in
Italia, l’esplosione della spesa pubblica, l’insorgere di
responsabilità erariali, il dilagare della corruzione?
Nel Paese che ha eliminato da un
quarto di secolo ogni controllo preventivo di legittimità, dunque,
accade l’ipertrofia dei controlli su una spesa bassissima, 900 euro
(novecento euro), mentre negli stessi giorni in cui si lancia questa
intricatissima procedura di controllo collaborativo sulla spesa del
comune terremotato, si scopre che su un appalto da 2,7 miliardi (non
900 euro) nessun controllo anticorruzione ha minimamente funzionato,
e si constata che i ponti cadono, i lavori pubblici uccidono,
nonostante tutte le insistenze normative su sicurezza e qualità
degli appalti.
Ora, non si vuole essere qui così
ingenui da immaginare che chi vuol delinquere smetta e che i cantieri
divengano effettivamente sicuri solo perché le norme prescrivono
misure contro i delinquenti e per la sicurezza.
Certo è, però, che se le norme
non sono in grado, almeno, di discernere quali sono i casi nei quali
valga davvero la pena scatenare procedure burocratiche complesse e
costose e provare una volta a semplificare sul serio il quadro,
queste norme alla fine producono paradossi, come quello di trattare
una spesa di 900 euro come fosse un affare di Stato.
Quando, per altro, era possibile
prendere atto che nel caso di specie, quel comune avrebbe potuto
acquistare quella stessa fornitura utilizzando l’articolo 63, comma
2, lettera c), del codice, che consente di acquisire in via d’urgenza
mediante affidamento diretto qualsiasi lavoro, fornitura o servizio,
anche per importi superiori alla soglia di 200.000 euro prevista
dalla “somma urgenza”, che vanno oltre perfino la soglia
comunitaria, senza che in quel caso sia richiesta alcuna valutazione
di congruità, per quanto collaborativa, a nessuno. Con l’ulteriore
paradosso, dunque, che nel caso di “somma urgenza” da terremoto,
una spesa da 900 euro possa andare incontro all’iperburocrazia
vista prima, mentre una spesa di 9 miliardi, se ricorre l’urgenza,
potrebbe anche essere adottata in assenza di qualsiasi intervento di
controllo di chiunque.
Il filo rosso, dunque, che unisce
le tre vicende elencate all’inizio c’è: è un codice dei
contratti che non ha nemmeno un anno di vita per il quale si prevede
un “correttivo” volto a modificarne circa 120 articoli dei suoi
220 attualmente vigenti. Qualcosa non funziona.
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