Il decreto legge 25/2017 pone
fine alla breve storia del lavoro accessorio, noto come “voucher” da 10 euro,
abolendo le norme del Jobs Act, gli articoli 48, 49 e 50 del d.lgs 81/2015, che
lo avevano esteso e potenziato, così da permettere l’esplosione del suo
utilizzo, registrata nel 2016.
Si potrà discutere a lungo sull’opportunità
di una decisione, quella di abolire totalmente l’istituto, sin troppo drastica,
così come si discuterà ancora a lungo sulla possibilità di introdurre un nuovo
sistema di disciplina dei lavori di breve durata di natura occasionale.
Certo è che la liberalizzazione
eccessiva del lavoro accessorio aveva sicuramente prodotto una serie di
storture, sicuramente non compensate dall’aiuto ad uscire dal lavoro nero che i
voucher avevano dato (per quanto, non quantificabile).
Esempio palmare di queste
storture è stato l’impiego dei voucher da parte delle amministrazioni
pubbliche. E’ noto che 7 comuni sono risultati tra i principali utilizzatori di
voucher in Italia.
Il lavoro accessorio può essere
concepito come strumento che faccia emergere il “nero” nel lavoro pubblico?
Ovviamente, a meno che nella PA non si vìolino contemporaneamente un mare di
norme, il lavoro accessorio per il sistema pubblico non può assolvere ad alcuna
funzione di emersione dal nero, poiché l’accesso agli impieghi esclusivamente
per concorso e le rigorosissime regole su assunzione e spese di personale, nonché
i conteggi molto precisi sulla consistenza del personale, impediscono l’attivazione
di rapporti di lavoro in nero nella PA.
Dunque, il fine di regolarizzare
rapporti di lavoro altrimenti in violazione delle regole, nel sistema pubblico
non c’è mai stato, né poteva esserci.
La realtà è un’altra: la
pubblica amministrazione ha utilizzato spessissimo in malo modo i voucher,
determinando nella gran parte dei casi una situazione di vero e proprio dumping (cioè ribasso oltre le regole) salariale.
Presso le amministrazioni
pubbliche l’impiego del lavoro accessorio si è esteso esponenzialmente: i voucher
sono stati utilizzati per scopi che sono andati da progetti finalizzati a
fornire opportunità di lavoro a disoccupati, a veri e propri strumenti per
coprire esigenze di organico.
L’esplosione dei voucher nella
PA è stata certamente favorita dalle recenti riforme, dalla legge 92/2012
(legge Fornero) al Jobs Act (d.lgs 81/2015), che hanno progressivamente
liberalizzato i voucher, tanto da non riferirli più a prestazioni “meramente”
occasionali, così da estenderli a prestazioni occasionali vere e proprie, per
anche un numero di ore potenzialmente molto ampio, visto che il tetto annuo è stato
portato a 7.000 euro proprio dal d.lgs 81/2015.
Vediamo nella tabella che segue l’evoluzione normativa dell’istituto, per
dimostrare la progressiva liberalizzazione fino al punto estremo vigente fino a
pochi giorni fa:
Articolo 70 d.lgs 276/2003 – testo originario
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Articolo 70 d.lgs 276/2003 – testo dell’ultima
modifica prima dell’abolizione
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Articolo 48 d.lgs 81/2015
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1. Per
prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività lavorative di natura meramente occasionale rese da
soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel
mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne, nell’ambito:
a) dei
piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresa la assistenza
domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con handicap;
b)
dell’insegnamento privato supplementare;
c) dei
piccoli lavori di giardinaggio, nonché di pulizia a manutenzione di edifici e
monumenti;
d) della
realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli;
e) della
collaborazione con enti pubblici e associazioni di volontariato per lo
svolgimento di lavori di emergenza, come quelli dovuti a calamità o eventi
naturali improvvisi o di solidarietà.
2. Le
attività lavorative di cui al comma 1, anche se svolte a favore di più
beneficiari, configurano rapporti di natura meramente occasionale e
accessoria, intendendosi per tali le attività che coinvolgono il lavoratore
per una durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno
solare e che, in ogni caso, non fanno complessivamente luogo a compensi
superiori a 3 mila euro sempre nel corso di un anno solare.
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1. Per
prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività lavorative che non
danno luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi
superiori a 5.000 euro nel corso
di un anno solare, annualmente rivalutati sulla base della variazione
dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati intercorsa nell'anno precedente.
Fermo restando il limite complessivo di 5.000
euro nel corso di un anno solare, nei confronti dei committenti imprenditori
commerciali o professionisti, le attività lavorative di cui al presente comma
possono essere svolte a favore di ciascun singolo committente per compensi
non superiori a 2.000 euro, rivalutati annualmente ai sensi del presente
comma. Per gli anni 2013 e 2014,
prestazioni di lavoro accessorio possono essere altresì rese, in tutti i
settori produttivi, compresi gli enti locali, fermo restando quanto previsto
dal comma 3 e nel limite massimo di 3.000 euro di corrispettivo per anno
solare, da percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al
reddito. L'INPS provvede a sottrarre dalla contribuzione figurativa relativa
alle prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito gli
accrediti contributivi derivanti dalle prestazioni di lavoro accessorio.
2. Le
disposizioni di cui al comma 1 si applicano in agricoltura:
a) alle
attività lavorative di natura occasionale rese nell'ambito delle attività
agricole di carattere stagionale effettuate da pensionati e da giovani con
meno di venticinque anni di età se regolarmente iscritti a un ciclo di studi
presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, compatibilmente
con gli impegni scolastici, ovvero in qualunque periodo dell'anno se
regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso l'università;
b) alle
attività agricole svolte a favore di soggetti di cui all'articolo 34, comma
6, del decreto del Presidente della Repubblica
3. Il ricorso
a prestazioni di lavoro accessorio da parte di un committente pubblico è
consentito nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in
materia di contenimento delle spese di personale e, ove previsto, dal patto
di stabilità interno.
4. I compensi
percepiti dal lavoratore secondo le modalità di cui all'articolo 72 sono
computati ai fini della determinazione del reddito necessario per il rilascio
o il rinnovo del permesso di soggiorno.
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1. Per
prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività lavorative che non
danno luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi
superiori a 7.000 euro nel corso di un anno civile, annualmente rivalutati
sulla base della variazione dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per le
famiglie degli operai e degli impiegati. Fermo restando il limite complessivo
di 7.000 euro, nei confronti dei committenti imprenditori o professionisti,
le attività lavorative possono essere svolte a favore di ciascun singolo
committente per compensi non superiori a 2.000 euro, rivalutati annualmente
ai sensi del presente comma.
2. Prestazioni
di lavoro accessorio possono essere altresì rese, in tutti i settori
produttivi, compresi gli enti locali, nel limite complessivo di 3.000 euro di
compenso per anno civile, rivalutati ai sensi del comma 1, da percettori di
prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito. L'INPS provvede
a sottrarre dalla contribuzione figurativa relativa alle prestazioni
integrative del salario o di sostegno al reddito gli accrediti contributivi
derivanti dalle prestazioni di lavoro accessorio.
3. Le
disposizioni di cui al comma 1 si applicano in agricoltura:
a) alle
attività lavorative di natura occasionale rese nell'ambito delle attività
agricole di carattere stagionale effettuate da pensionati e da giovani con
meno di venticinque anni di età se regolarmente iscritti a un ciclo di studi
presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, compatibilmente
con gli impegni scolastici, ovvero in qualunque periodo dell'anno se
regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso l'università;
b) alle
attività agricole svolte a favore di soggetti di cui all'articolo 34, comma
6, del decreto del Presidente della Repubblica
4. Il ricorso
a prestazioni di lavoro accessorio da parte di un committente pubblico è
consentito nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in
materia di contenimento delle spese di personale e, ove previsto, dal patto
di stabilità interno.
5. I compensi
percepiti dal lavoratore secondo le modalità di cui all'articolo 49 sono
computati ai fini della determinazione del reddito necessario per il rilascio
o il rinnovo del permesso di soggiorno.
6. E' vietato
il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio nell'ambito dell'esecuzione di
appalti di opere o servizi, fatte salve le specifiche ipotesi individuate con
decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sentite le parti
sociali, da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del
presente decreto.
7. Resta fermo
quanto disposto dall'articolo 36 del decreto legislativo n. 165 del 2001.
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Le PA non hanno tenuto nella
dovuta considerazione, però, che la liberalizzazione doveva fare in ogni caso i
conti con le regole speciali poste dal d.lgs 165/2001 alla disciplina del
lavoro pubblico.
Non è un caso che l’articolo 48,
comma 7, del d.lgs 81/2015, a proposito dei voucher, confermasse espressamente
che restava ferma la particolare e rigorosa disciplina dell’articolo 36, comma
2, del d.lgs 165/2001. Dalla quale, come noto, deriva il divieto di utilizzare
forme flessibili di lavoro per fare fronte ad esigenze stabili. Coprire,
dunque, ad esempio, posti di responsabili di uffici anche per poche ore con i
voucher, invece di attivare un rapporto di lavoro subordinato eventualmente a
part time, significava violare proprio l’articolo 36, comma 2, perché si
utilizzava una forma di lavoro flessibile a fronte di esigenze lavorative
stabili. Con l’ulteriore problema dell’assegnazione impropria ed illegittima a
lavoratori non inseriti nei ruoli di funzioni amministrative.
Le amministrazioni non hanno
tenuto nella dovuta considerazione che i voucher non potevano essere
legittimamente utilizzati per acquisire prestazioni lavorative richiedenti
l’inserimento del lavoratore pubblico nell’organizzazione interna. Come è noto,
l’esercizio dei poteri pubblici è connesso all’instaurazione del cosiddetto “rapporto
organico”. Il funzionario pubblico o comunque l’incaricato di pubblico servizio
esercita i poteri della persona giuridica pubblica non in virtù di un rapporto
di rappresentanza, ma perché è titolare di una funzione nell’ambito dell’organo
nel quale opera. E, per svolgere le sue funzioni nell’ambito dell’organo, deve
entrare nel ruolo di tale organo, il che può avvenire esclusivamente mediante
la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato. Infatti, perché un
dipendente pubblico possa lecitamente svolgere le mansioni previste, come
svolgere le funzioni non solo di direzione di strutture, ma di responsabile di
procedimenti o di istruttorie, ma perfino solo per accedere agli archivi e
trattare i contenuti delle banche dati, deve necessariamente condurre non solo
un rapporto di servizio con l’ente, ma anche e soprattutto il rapporto
“organico”. Il dipendente, cioè, deve impersonare la persona giuridica pubblica
ed agire per essa.
Poiché il rapporto organico si
costituisce esclusivamente mediante la costituzione di rapporti di lavoro
subordinato, è assolutamente illegittimo affidare lo svolgimento di attività di
produzione di lavori dell’organo a soggetti, come i lavoratori accessori, non
inseriti nei ruoli e non titolari di un rapporto subordinato.
E’ per questa ragione, che
l’articolo 7, comma 6, del d.lgs 165/2001, posto a regolare le “collaborazioni
esterne” vieta alle PA di utilizzare incarichi di lavoro autonomo (sia nella forma
delle collaborazioni, sia mediante prestazioni occasionali), per lo svolgimento
di attività “ordinarie”, intendendosi come tali proprio le varie attività
connesse all’esercizio dei poteri derivanti dal rapporto organico.
Il lavoro accessorio non era
certamente un rapporto di lavoro subordinato. In quanto tale, non faceva venire
in essere il necessario rapporto organico, escludendo qualsiasi legittimazione
del lavoratore accessorio a voucher a svolgere attività come organo dell’ente,
né tanto meno ad utilizzarne mezzi, strumenti, dati e conoscenze.
Col lavoro accessorio era,
semmai, possibile acquisire collaborazioni occasionali di limitata durata,
regolate con le forme semplificate del voucher: l’acquisto, cioè del buono, la
comunicazione anticipata dell’inizio dell’attività lavorativa e la consegna del
buono al lavoratore come controprestazione sinallagmatica, al posto della
stipulazione di un contratto, dell’obbligo di aprire posizioni assicurative,
dell’obbligo di effettuare le comunicazioni obbligatorie e di attivare
posizioni fiscali e produrre cedolini paga.
Sicuramente, proprio l’estrema
semplicità gestionale del lavoro accessorio rispetto a qualsiasi altra forma di
lavoro regolamentata (unico sistema “concorrente” è stato forse il tirocinio)
ha contribuito in maniera decisiva alla clamorosa progressione nell’utilizzo
del sistema, anche nella PA, nell’errato presupposto che oggetto del lavoro accessorio
potessero essere attività di istituto e che il reclutamento dei lavoratori
accessori potesse essere effettuato senza applicare le regole selettive imposte
persino per i collaboratori ai sensi dell’articolo 7, comma 6, del d.lgs
165/2001.
Ma, le storture non si sono
limitate all’utilizzo improprio del lavoro accessorio. Per lo più hanno
riguardato proprio l’effetto di dumping.
Le pubbliche amministrazioni hanno commesso il gravissimo errore nel
quale sono incorsi praticamente tutti coloro che da “datori” hanno utilizzato i
voucher: far coincidere il valore del voucher, 10 euro lordi (dei quali 1,3
euro come versamento contributi all’Inps, 0,7 euro come assicurazione Inail e
0,5 euro come rimborso spese al concessionario), cioè 7,5 euro netti, con il
compenso orario della prestazione prevista.
Si tratta di un travisamento. Il voucher è sia un sistema di regolazione
del rapporto di lavoro, sia un mezzo di pagamento: non è affatto, invece, la
determinazione del costo orario della prestazione. Se un’attività prevista
normalmente nel mercato come collaborazione tra committente e prestatore fosse
stata fissata in 15 euro netti l’ora, le parti, accordandosi per un pagamento
mediante voucher dovrebbero prevedere che ogni ora venga retribuita con due
buoni, mantenendo il valore di 15 euro orari.
Spessissimo, invece, non avviene così: il valore facciale del voucher
viene fatto coincidere con il pagamento dell’ora di lavoro. E questo crea
appunto il deprezzamento del costo del lavoro, ragione principale del ricorso
all’istituto.
Facciamo un esempio. Un’amministrazione che ha acquisito mediante lavoro
accessorio prestazioni corrispondenti alle mansioni esecutive di un impiegato
di categoria B3. Il costo orario contrattuale lordo, nel caso di assunzione con
contratto di lavoro subordinato, è di circa 14 euro e quello netto di circa 10
euro.
Come si nota, ben 4 euro in più del lordo del voucher, che è di 10 euro,
e ben 2,5 euro in più del netto (7,5) a fronte di prestazioni aventi il
medesimo contenuto.
Il fatto è che i voucher avrebbe dovuto essere utilizzato per quello che
erano: il contratto era definito come “accessorio” proprio perché i voucher dovevano
essere, da un lato, uno strumento perché non solo disoccupati, ma anche
lavoratori, potessero ottenere un reddito “aggiuntivo” a quello percepito (o un
reddito tout court), in maniera
flessibile e semplice; dall’altro lato, il lavoro accessorio doveva essere un
mezzo col quale i datori di lavoro, dalle famiglie alle imprese, acquisissero
prestazioni molto brevi, per esigenze contingenti (sgombero di magazzini,
interventi di giardinaggio, funzioni di accoglienza ed hostess per convegni di
limitata durata, ecc…), per le quali il carico “burocratico” di un’assunzione
sarebbe risultato sproporzionato, ma al tempo stesso garantendo copertura
assicurativa e versamenti contributivi e senza rapportare il costo contrattuale
e di mercato al “valore facciale” del buono che era e doveva restare un mezzo
di pagamento.
Si poteva certamente intervenire in modo meno radicale e, ad esempio,
specificare appunto che il voucher non doveva rappresentare il costo orario
della prestazione, da rapportare a quella della contrattazione collettiva alla
quale ascrivere la prestazione richiesta. Si poteva anche meglio precisare la
tipologia soggettiva dei datori ai quali permettere l’utilizzo del sistema.
Si è preferito, invece, abolire tutto. Per la pubblica amministrazione,
tuttavia, non c’è sicuramente da stracciarsi le vesti. L’utilizzo improprio sin
qui fatto dei voucher rende la misura dell’abolizione, certamente troppo
drastica nel mercato privato, probabilmente utile e necessaria, per evitare che
le pubbliche amministrazioni contribuissero a creare ulteriore precariato di
cattiva qualità, quel precariato che l’imminente riforma Madia vorrebbe
estirpare definitivamente.
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