Precisiamo subito che l’attenzione
deve sempre essere rivolta alla foresta che cresce silenziosamente più che al
fragore dell’albero che cade. Dunque, la notizia vera è che fin qui la gran
parte dei 32 provvedimenti di licenziamento emessi dal Comune di San Remo
contro i truffatori del cartellino hanno superato indenni i ricorsi al giudice
del lavoro.
Poiché, però, siamo in Italia la
probabilità che qualcuno si incagliasse nei giudizi, anche per mere questioni procedurali,
erano elevate.
Puntualmente, dunque, si è
verificato il caso dell’annullamento di un licenziamento, con connessa
reintegra, di uno dei dipendenti che hanno truffato il comune, lo Stato e tutti
noi, motivata dalla circostanza che l’atto di licenziamento non “recava” (piace
ogni tanto il linguaggio cripto-giuridico-burocratico) le firme necessarie.
Dunque, il giudice ha considerato il licenziamento come espresso per sola via
verbale e non scritta e, come tale, inefficace.
Risultato? Una persona che ha
fraudolentemente finto di lavorare, mentre in orario di lavoro si dedicava a
tutt’altro, percependo altrettanto fraudolentemente uno stipendio che non gli
spettava, tornerà al suo posto di lavoro nel comune che ha accertato la frode e
che ha, comunque, espresso in modo inequivoco la volontà di recidere ogni
rapporto con quel dipendente infedele.
Ora, per carità: la legge è legge.
Il licenziamento, come qualsiasi altro atto della pubblica amministrazione,
deve essere formale. L’articolo 2, comma 1, della legge 604/1966 è molto
chiaro: “Il datore di lavoro,
imprenditore o non imprenditore, deve
comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro”.
Altrimenti, il licenziamento è inefficace.
Ma, sul piano della pura “forma”,
quello che ha seguito il giudice del lavoro, è facile notare che la norma
citata non fa alcun riferimento alla sottoscrizione della comunicazione del
licenziamento.
Non è una questione di lana
caprina. La norma vuole impedire il licenziamento ad nutum, espressione che tradotta letteralmente dal latino
significa “ad un semplice cenno”, appunto espressa solo implicitamente e
verbalmente; tale da impedire di comprendere le motivazioni e, quindi, di
apprestare una possibile difesa in controversia.
Difficile immaginare che il
comune di San Remo non abbia potuto produrre al giudice ampia documentazione
sulla frode del dipendente, visto che le iniziative disciplinari sono partite a
seguito di riprese filmate che hanno “inchiodato” gli autori delle truffe, come
ben noto. Difficile che non siano stati esposti con dovizia di particolare atti
e risultanze del procedimento disciplinare.
Ammettendo anche che manchi la
collocazione della sottoscrizione nel lembo di carta opportuno, c’è da
chiedersi: ma, non è possibile, visto che l’articolo 2, comma 1, pretende solo
la forma scritta della comunicazione senza nulla affermare in merito alla
sottoscrizione, ricondurre la volontà del licenziamento al datore di lavoro aliunde? Non bastano, appunto, i fatti
accertati, la tenuta di un procedimento disciplinare, la carta intestata,
elementi che evidenzino la provenienza certa del licenziamento dal comune
datore di lavoro, per giungere comunque alla prova inconfutabile che la
risoluzione del rapporto di lavoro sia in ogni caso ascrivibile al datore, pur
rimanendo incerta la determinazione della specifica persona fisica che ne ha
formato gli atti?
Nel caso di specie, non manca la
forma scritta; manca, appunto la sottoscrizione. E’ socialmente tollerabile la reintegrazione
nel lavoro di chi abbia platealmente frodato tutti noi, per un difetto di forma
ampiamente rimediabile?
La domanda resta sospesa e si
vedrà in appello. Questo episodio, comunque, conferma quanto sbagliata sia la
strada del d.lgs 116/2016, che vuole accelerare oltre ogni ragionevole misura
il procedimento di licenziamento, riducendo a soli 30 giorni il tempo per
giungere alla risoluzione del rapporto di lavoro.
Il comune di San Remo ha dovuto
fare le corse e veder lavorare le proprie strutture decine di ore al giorno per
chiudere nei termini centinaia di procedimenti tutti insieme: termini appena
sufficienti, di 120 giorni, che certamente non apparivano affatto lunghi,
rispetto all’incertezza assoluta proprio della conclusione dei procedimenti
giudiziari.
Portare il termine
procedimentale da 120 a 30 giorni, implicherà, per altri casi di truffa delle
presenze di tipo collettivo (e lo sono sempre, perché gli autori si coprono tra
loro), istruttorie convulse ed affrettate, il cui esito sarà molto facilmente
affetto da vizi di forma e di sostanza derivanti proprio dalla corsa a
perdifiato cui induce una riforma scriteriata.
Riforma che, probabilmente, non
ha tenuto conto dei problemi formali in sede di giudizio: quelli che, per una
firma non apposta, consentono ad un frodatore di continuare a lavorare nella
PA, a disdoro della fiducia che i cittadini dovrebbero avere il diritto di
riporre non solo nelle istituzioni in astratto, ma anche nei confronti di chi
ha l’onore di servire i propri concittadini da funzionario pubblico. Un onore
che chi truffa sulle presenze ha tradito per sempre. Qualunque possa essere il
vizio formale del licenziamento.
Noi si lavora per la forma...facciamo un minuto di silenzio per la sostanza. Scomparsa cosi prematuramente…ci mancherà…
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