Governo e Parlamento in questa
legislatura non hanno brillato particolarmente per capacità di
elaborare leggi e decreti legislativi pienamente conformi alla
Costituzione o, comunque, tali da superare senza problemi il vaglio
degli organi consultivi.
A partire dalla fine ingloriosa
della riforma della dirigenza, per passare attraverso le necessarie
modifiche al testo unico sulle società partecipate, per transitare
sulla legge elettorale incostituzionale e giungere anche alle
controverse questioni legate al codice dei contratti, sostanzialmente
non vi è stata una sola delle tanto acclamate “riforme” priva di
rilievi mossi dagli organi consultivi, in primis il Consiglio di
stato, o non caduta sotto gli strali delle giurisdizioni.
Sta di fatto, tuttavia, che in
modo sicuramente poco prudente il Governo in particolare ha adottato
un atteggiamento “decisionista”, volto a non tenere conto
praticamente mai dei pareri di Palazzo Spada o della Conferenza
Unificata o delle Commissioni Parlamentari. Finendo per incappare in
incagli oggettivamente imperdonabili o in palesi atteggiamenti
contraddittori, come l’abolizione dell’articolo 211, comma 2, del
codice dei contratti, letta sul piano della dietrologia politica come
un attacco indiretto all’ex premier, perpetrato mediante il
depotenziamento dell’Anac.
Probabilmente, questa chiave di
lettura ha più di qualcosa di fondato, visto che è in atto il
tentativo di addossare al Consiglio di stato la responsabilità di
detta abolizione, come dimostra l’articolo pubblicato su La
Repubblica del 22 aprile “Intervista a Alessandro Pajno - "Il
Consiglio di Stato mai ha chiesto di cancellare la norma sugli
appalti"”, nella quale si chiede conto al presidente del
Consiglio di spada appunto dell’ispirazione dell’abolizione della
norma, mentre il presidente spiega che Palazzo Spada si è limitato a
chiedere – per ben tre volte – non la sua abolizione, bensì la
sua correzione, necessitata da evidenti problemi di tenuta giuridica.
E’ un po’ curioso che, per un
verso, i pareri del Consiglio di stato risultino costantemente
superati come non esistessero; è vero che non sono vincolanti, ma
altrettanto vero è che Palazzo Spada fornisce sempre, come doveroso,
spunti estremamente interessati, che se ascoltati eviterebbero
cortocircuiti politico giuridici come quello scatenatosi sull’Anac;
e che, per altro verso, poi però si voglia reperire nel Consiglio di
stato il capro espiatorio.
Sarebbe necessario che il
Legislatore (inteso come complesso dei vari soggetti che tra Governo
e Parlamento entrano a far parte del processo di formazione delle
leggi) agisse con maggiori umiltà e capacità di ascolto.
Allo scopo, basterebbe evitare di
andare a cercare troppi spunti di originalità creativa del diritto,
che alla fine, pur essendo quelli che danno spazio alle ospitate in
TV, sono la causa principale di sentenze di incostituzionalità o di
interventi demolitori della magistratura, quando non di contenziosi
infiniti, con spaccature interpretative insanabili, di fronte alle
quali poi l’operatore concreto in prima linea non sa più come
agire.
Un altro esempio di potenziale
cortocircuito è dato dal parere 422/2017 del Consiglio di stato
sullo schema di decreto legislativo attuativo della legge 124/2015 di
riforma del d.lgs 165/2001, per quanto riguarda specificamente la
riforma del procedimento disciplinare.
La questione sollevata con
particolare attenzione da Palazzo Spada riguarda l’eliminazione del
principio di perentorietà dei termini del procedimento disciplinare,
che discenderebbe dal nuovo comma 9-ter dell’articolo 55-bis del
d.lgs 165/2001, il cui testo, se approvato definitivamente
nell’attuale versione dello schema, sarebbe: “la violazione
dei termini e delle disposizioni sul procedimento
disciplinare, previste dagli articoli da 55 a 55-quater del d. lgs.
n. 165 del 2011, fatta salva l’eventuale responsabilità del
dipendente cui essa sia imputabile, non determina la
decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e
della sanzione irrogata, purché non risulti
irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente,
e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in
ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto,
risultino comunque compatibili con il principio di tempestività”.
Oggettivamente, non pare occorra
una particolare genialità e competenza in giurisprudenza, bastando
anche una limitata esperienza universitaria, per comprendere che
simile disposizione è estremamente pericolosa e fonte certa di un
contenzioso infinito, perché:
a) implica il rischio di
procedimenti disciplinari senza mai fine;
b) lede certamente il diritto
alla difesa, come maldestramente ammette il testo stesso della norma,
nell’avvertire che il superamento dei termini, trasformati da
perentori ad ordinatori, appunto non deve compromettere detto
diritto.
E’ evidente a chiunque che la
riforma così come proposta risulti lesiva del principio del “giusto
procedimento” desunto dalla Costituzione ed enunciato in
particolare nella legge 241/1990, ove si afferma “la tutela del
profilo partecipativo al procedimento (contraddittorio), dell’obbligo
di motivazione del provvedimento, della conclusione entro
termini certi, della conoscenza degli atti della pubblica
amministrazione, della responsabilità dei funzionari e dei
dipendenti pubblici” (S. Mangiameli, “Giusto procedimento”
e “giusto processo”. Considerazioni sulla giurisprudenza
amministrativa tra il modello dello Stato di polizia e quello dello
Stato di diritto, in
http://archivio.rivistaaic.it/dottrina/garanzie/Mangiameli01.pdf).
D’altra parte, la necessità di
termini certi nei procedimenti giurisdizionali è espressamente
affermata dall’articolo 111 della Costituzione ed appare piuttosto
complicato non concordare sulla circostanza che il disposto di tale
articolo della Carta non enunci un principio direttamente esteso a
qualsiasi procedura, sebbene non giurisdizionale, caratterizzata da
contraddittorio e dalla presenza di un ruolo di “incolpato”, come
avviene esattamente nel procedimento disciplinare.
Allora, immaginare di scrivere
una norma che elimini la certezza dei termini procedimentali
all’evidente scopo di fornire un segnale “mediatico” da parte
del Governo contro i “furbetti” di varia natura, è certamente un
salto nel buio, che espone con elevatissimo grado di probabilità la
norma stessa ad un contenzioso infinita.
Basterebbe che a Palazzo Vidoni
(o in qualsiasi altra sede di “produzione” delle norme) in certi
casi, quando è opportuno se non necessario, si limitassero davvero a
copiare qua ne là qualche tesi di laurea o approfondimento
giuridico, anche senza citazioni, o quanto meno accettassero le
illuminate indicazioni del Consiglio di stato, dismettendo i panni
degli “innovatori” a qualunque costo (e, spesso,
all’amatriciana).
Nel caso di specie, il Consiglio
di stato più chiaro non potrebbe essere: “la previsione de qua
non appare in sintonia con la legge delega che all’art. 17, comma
1, lett. s) («introduzione di norme in materia di responsabilità
disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e
rendere concreto e certo nei tempi e di espletamento e di conclusione
l’esercizio dell’azione disciplinare»), giacché
l’eliminazione totale di termini perentori rischia di mettere a
repentaglio proprio il perseguimento di tali obiettivi,
procrastinando sine die l’avvio e la conclusione del procedimento
disciplinare ed esponendo il dipendente al rischio di un esercizio
dell’azione disciplinare arbitrario o addirittura ritorsivo, anche
a lunga distanza di tempo dai fatti. L’integrale
eliminazione del principio della perentorietà dei termini del
procedimento disciplinare (già messo in crisi dalla ricordata
introduzione, ad opera del d. lgs. n. 116 del 2016, nell’art.
55-quater del d. lgs. n. 165 del 2011 del nuovo comma 3-ter, ultimo
periodo) sembra aprire un vulnus nel principio di legalità
dell’azione disciplinare e appare in contraddizione con la
previsione di cui al comma 1, dell’art. 55, del d. lgs. n. 165 del
2001, secondo cui «le disposizioni del presente articolo e di quelli
seguenti, fino all’articolo 55-octies, costituiscono norme
imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419,
secondo comma, del codice civile, e si applicano ai rapporti di
lavoro di cui all’articolo 2, comma 2, alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2». La
giurisprudenza, proprio quanto alla prospettata natura ordinatoria e
non più perentoria dei termini che disciplinano l’esercizio
dell’azione disciplinare nelle sue diverse fasi, ha sottolineato
che tutte le disposizioni normative e contrattuali in questa materia
«perseguono il fine evidente di prevedere termini certi finalizzati
a garantire la tempestività dell’azione disciplinare, che
nell’impiego pubblico deve essere immediata nel suo inizio e rapida
nella sua conclusione, posto che la tempestività è finalizzata non
solo a tutelare la effettività del diritto di difesa dell’incolpato,
ma anche il buon andamento e l’imparzialità della Pubblica
Amministrazione» (Cass., sez. L, 15 settembre 2016, n. 18128)”.
Vedremo se anche in questo caso
il Governo ingaggerà una “prova di forza” con l’organo
consultivo, salvo accorgersi in ritardo di effetti nefasti della
scelta di andare comunque dritto per la propria strada, magari poi
cercando di reperire le responsabilità delle proprie scelte in sfere
soggettive altrui.
Cosa significa che «sono considerati perentori il termine per la contestazione disciplinare e il termine per la conclusione del provvedimento disciplinare» (art 55bis comma 9-ter dell'attuale TUPI), se subito prima c'è scritto che «la violazione dei termini, fermo restando la responsabilità del dipendente a cui è imputabile, non determina la decadenza dell'azione disciplinare»? Quindi il perentorio come va inteso? grazie
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