domenica 14 maggio 2017

Perché l’assegno di ricollocazione e in generale la condizionalità non funzionano (tratto da Bollettino Adapt)


È inutile negare che la sperimentazione dell’assegno di ricollocazione non sta andando bene e, anzi, non funziona.
Non tanto perché le azioni di assistenza intensiva alla ricerca di lavoro non abbiano avuto frutti (è ancora presto per dirlo), ma per una ragione più evidente: i percettori di Naspi da oltre 4 mesi non avvertono né la necessità di avvalersi del sistema, né lo considerano come un’opportunità in più per trovare lavoro. Dunque, semplicemente nella gran parte decidono di non utilizzare l’assegno di ricollocazione.


Le ragioni di questo atteggiamento dei lavoratori sono più di una:
1. intanto, la denominazione dell’istituto “assegno” di ricollocazione è certamente erronea e comunque fuorviante: molti lavoratori avevano capito che si trattava di somme di denaro destinate a loro; scoperto, invece, che l’assegno finanzia l’ente che li aiuta a cercare lavoro, rinunciano;

2. è vero che il sistema propone un’assistenza intensiva, con la curatela di un tutor specificamente dedicato: ma, nella realtà, a parte la motivazione finanziaria per gli enti che cercano lavoro, il sistema di per sé non propone ai lavoratori modalità né particolarmente efficaci, né particolarmente innovative per cercare lavoro; questa evidenza è un’altra causa della sostanziale freddezza nei confronti dell’istituto;

3. utilizzare l’aiuto alla ricerca di lavoro o non utilizzarlo non cambia nulla della condizione soggettiva del percettore di Naspi: continua, infatti, a percepirla e il sistema che condiziona la percezione della Naspi (il reticolo di possibili decurtazioni in caso di inadempimento agli obblighi dei patti di servizio o del programma di assistenza intensiva) non si modifica; per altro, entrare nel sistema dell’assegno di ricollocazione implica dover sottoscrivere patti e condizioni ulteriori e diverse, anche se analoghe, a quelle del patto di servizio, il che oggettivamente costituisce motivo per non utilizzare l’istituto.

Insomma, il percettore Naspi non vede di sicuro nell’assegno di ricollocazione uno strumento che faciliti lo sbocco verso un nuovo lavoro migliore delle classiche modalità di ricerca che, per altro, in Italia come è noto saltano quasi a piè pari i canali ufficiali pubblici e privati (secondo l’Isfol solo il 3,4% dei contratti è mediato dai centri per l’impiego e solo il 5,6% è mediato dalle agenzie di somministrazione) per utilizzare il “fai da te” e in particolare la rete delle conoscenze personali.

 Il fatto è che l’assegno di ricollocazione è affetto da un vizio di fondo: è sostanzialmente un apparato che consente di superare il divieto desunto dalla Costituzione e posto dall’articolo 11, comma 1, del d.lgs 276/2003 di esigere o percepire compensi dal lavoratore, connessi alle attività di intermediazione. Come? Il d.lgs 150/2015 costruisce in capo al percettore di Naspi da oltre tre mesi il diritto a “spendere” una certa somma, legata al suo profilo di occupabilità, per ottenere servizi appunto di assistenza intensiva alla ricollocazione, somma che non proviene dal patrimonio finanziario del lavoratore, ma è finanziata da risorse pubbliche (è un sistema analogo a quello previsto dalla Dote Unica Lavoro in Lombardia). Quindi, di fatto, i soggetti che svolgono l’assistenza intensiva ricevono un pagamento (anche se solo a condizione che favoriscano l’assunzione del lavoratore a tempo determinato per almeno sei mesi o a tempo indeterminato), ma non dal lavoratore, bensì dal sistema pubblico.
Dunque, in parole più semplici e molto prosaiche, la dote del lavoratore è sostanzialmente un metodo per consentire in particolare agli enti privati (ma anche le regioni potrebbero ricevere l’assegno, per l’attività di assistenza intensiva svolta dai centri per l’impiego) di ottenere un compenso per attività di ricerca di lavoro.

La leva del compenso dovrebbe indurre i soggetti scelti dai lavoratori a darsi parecchio da fare per trovare lavoro. Ma, come visto, dal lato del lavoratore questa spinta non appare particolarmente attrattiva, né interessante.
In parte, si tratta di un errore di prospettiva. Il percettore di Naspi ha, in effetti, un interesse ad avvalersi del sistema dell’assegno, anche a parità di obblighi ed impegni ai fini della condizionalità e, perfino, anche a parità degli strumenti di ricerca utilizzati. In particolare, se il lavoratore percettore sceglie, infatti, come ente erogatore del servizio di ricerca del lavoro un’agenzia per il lavoro autorizzata alla somministrazione o, comunque, alla ricerca e selezione del personale, può contare su una leva molto importante: tale tipo di ente erogatore può proporre alle aziende proprie clienti uno sconto molto forte sui compensi per l’attività di ricerca e selezione o sulla somministrazione, a patto che le aziende assumano il titolare dell’assegno di ricollocazione per almeno 6 mesi, perché può giovarsi appunto dell’importo erogato dallo Stato a titolo di assegno.

Di simile leva non possono avvalersi i centri per l’impiego che, oggettivamente, nella competizione (fin qui assai poco agonistica) con i soggetti privati partono largamente svantaggiati.
Tuttavia, le considerazioni sulla convenienza che il lavoratore percettore di Naspi potrebbe avere ad utilizzare l’assegno perché riceva dalle Apl il servizio appaiono fin troppo raffinate sul piano tecnico per essere interamente comprensibili. E, dunque, l’assegno di ricollocazione così come impostato rischia di restare a lungo solo esperimento e teoria.
Probabilmente, varrebbe la pena di un ripensamento radicale e totale. Non ci si deve nascondere che un fine non meno rilevante dell’assegno di ricollocazione consiste nell’accelerare quanto più possibile l’uscita del disoccupato dallo status di percettore della Naspi in quanto nuovamente occupato, così da puntare a legittimi obiettivi di risparmio della spesa pubblica connessa all’ammortizzatore sociale.

Ma, a questo scopo pare di poter affermare che non sia ben impostato il sistema della cosiddetta “condizionalità”, cioè il condizionamento della continuità della percezione della Naspi alla concreta realizzazione di azioni di ricerca attiva di lavoro, tra le quali proprio (anche, ma non solo) l’utilizzo dell’assegno di ricollocazione.
Perché la condizionalità funziona solo poco e male? La ragione è semplice: il disoccupato percepisce la Naspi semplicemente in virtù della perdita del lavoro (e degli altri requisiti oggettivi previsti dalla norma, in particolare gli anni di lavoro svolti). La condizionalità è impostata come progressive ed incrementali decurtazioni alla Naspi, già percepita, qualora il percettore non svolga puntualmente l’attività di ricerca attiva, o rifiuti senza adeguata motivazione offerte di lavoro “congrue”.

Pertanto, se non arriva il “pungolo” dei servizi per il lavoro (una convocazione per un colloquio, per una proposta formativa, per il presidio del patto di servizio, per un tirocinio, per una proposta di lavoro), il percettore continua a percepire la Naspi senza particolari vincoli e potrebbe essere portato a preoccuparsi della necessità di ricollocarsi solo verso la fine del periodo di copertura dell’ammortizzatore sociale (e potrebbe essere tardi).

Ma, mentre i percettori di Naspi oscillano annualmente tra i 600.000 e il milione, i centri per l’impiego, competenti a vigilare sulla “condizionalità” dispongono di circa 5.500 dipendenti: inimmaginabile che la condizionalità possa essere presidiata in modo ampio e continuativo. Molti percettori, quindi, possono essere portati ad atteggiamenti o speculativi o, quanto meno, non invogliati davvero ad una ricerca del lavoro costante e profonda.

Un’idea radicalmente diversa, allora, potrebbe consistere nello spostare la condizionalità dalla valle al monte. Invece, cioè, di agire mediante progressive decurtazioni alla Naspi (fino alla sua decadenza), condizionare la stessa erogazione dell’assegno mensile da parte dell’Inps all’attestazione (da realizzare nei modi più semplici possibili) resa dai centri per l’impiego, che il lavoratore abbia concretamente svolto azioni di ricerca attiva, previste dal patto di servizio, sia che risultino organizzate in “pacchetti” di assistenza intensiva, sia che risultino standardizzate in azioni “minime” mensili (un minimo di adesioni a domande di lavoro on line; un minimo di colloqui svolti presso i centri per l’impiego; un certo quantitativo di ore dedicate a tecniche di ricerca attiva di lavoro; attività di formazione; colloqui presso agenzie). L’Inps dovrebbe poter pagare la Naspi, dunque, solo sul presupposto dell’esistenza di questa attestazione, da rendere on line su una piattaforma comune in modo immediato e semplice. In assenza dell’attestazione, la mensilità non dovrebbe essere pagata e ripetuto l’evento per un certo numero di volte, si potrebbe determinare la decadenza automatica dalla prestazione.

In questo modo, i percettori di Naspi avrebbero tutto l’interesse ad aderire ad iniziative come l’assegno di ricollocazione e non abbandonarsi ad atteggiamenti opportunistici o semplicemente speculativi.
Certo, l’impatto organizzativo, vista la sproporzione immensa tra beneficiari e addetti ai servizi, sarebbe forte. Ma qui si tornano a porre gli annosissimi problemi di mancanza di investimenti e risorse per le politiche attive che affliggono l’Italia, che, come noto, dispone di un numero di addetti ai servizi quasi di 20 volte inferiore alla rete pubblica tedesca e spende 10 volte meno della Germania, come mostra la seguente, tabella (fonte Eurostat), che evidenzia come anche Francia e Spagna spendano molto di più nei servizi per il mercato del lavoro:




Solo investendo nei servizi per le politiche attive i disoccupati avrebbero la chiara percezione che detti servizi oltre ad essere necessari per la percezione della Naspi si rivelerebbero anche utili ai fini di una più veloce ricollocazione.

A questo punto, l’assegno di ricollocazione potrebbe essere rivisto e costruito come un sistema incentivante per il lavoratore: una dote finanziaria che egli debba investire, quale azione di politica attiva comprovabile ai fini della percezione della Naspi, verso gli enti accreditati, posta a compensare l’attività di intermediazione e anche, in parte, per l’avvenuto risultato della ricollocazione, senza puntare da subito, però, su contratti di durata di almeno 6 mesi, piuttosto incompatibili sia con la situazione economica delle imprese, sia con la nuova disciplina del lavoro subordinato a termine, volta a consentire ai datori di attivare rapporti all’inizio anche molto brevi, ma più volte prorogabili nell’arco di 36 mesi: il premio a risultato potrebbe graduarsi in proporzione diretta alla durata iniziale dei contratti e alle successive proroghe o rinnovi, fino all’auspicabile trasformazione a tempo indeterminato.

In assenza di un ripensamento profondo delle politiche, anche, ovviamente, molto diverso da quanto immaginato qui, sembra abbastanza chiaro che progetti molto interessanti come l’assegno di ricollocazione non possano modificare in modo incisivo né il mercato del lavoro, né le abitudini dei lavoratori.

Luigi Oliveri
ADAPT Professional Fellow

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