Sul Corriere della sera del 13 giugno 2016 è
pubblicato un articolo di Roger Abravanel intitolato “La riforma a metà che frena i nostri musei”, che torna sulla
questione delle nomine considerate illegittime dal Tar.
L’intervento punta l’attenzione sulle
procedure selettive, fornendo indicazioni francamente ben al di dentro dei
confini dell’ovvio:
-
“le sentenze evidenziano il mancato rispetto
delle procedure, troppa arbitrarietà e poca trasparenza nelle selezioni
(colloqui via skype e non audizioni pubbliche, punteggi per le classifiche
ritenuti non idonei e selezione tra i tré finalisti da parte del ministro
considerata non oggettiva)”;
-
“Quando si seleziona un candidato di
responsabilità non è facile stabilire punteggi oggettivi che valutino
l'esperienza e bisogna garantire la privacy di una persona che non ha nessuna
voglia di fare sapere al pubblico che sta valutando una posizione prima di
essere accettata”;
-
“La selezione è per definizione arbitraria e
poco compatibile con i concorsi pubblici i cui criteri di definizione del
merito prevedono una valutazione il più oggettiva e trasparente delle
competenze tecniche di un candidato — la conoscenza della legge per un
magistrato, del fisco per un dirigente della agenzia delle entrate e della
storia dell'arte/architettura /archeologia per un sovrintendente del ministero
della cultura”;
-
“come valutare con punteggi la capacità di
leadership e lo spirito imprenditoriale”?
-
“Nella Pubblica amministrazione italiana
(Pa) si fa carriera dall'interno, secondo norme, procedure burocratiche e
punteggi tipici dei concorsi pubblici che da anni sono una risposta al cancro
delle raccomandazioni. All'estero,
invece, le nomine dei vertici della Pa possono avvenire dal l'esterno e così
avviene anche per molti musei pubblici. In Francia, il direttore del Louvre è
nominato dal presidente della Repubblica, mentre quello del museo Pompidou è
scelto da una fondazione, come
avviene in Inghilterra per il direttore del British Museum”.
Fermiamoci un attimo, per sottolineare due
aspetti:
1) speriamo che qualcuno informi Abravanel che
in Italia nella pubblica amministrazione non è per nulla possibile fare
carriera dall’interno, per la semplicissima ragione che il metodo per farlo
erano le “progressioni verticali” di carriera, concorsi molto all’acqua di rose
regolati dai contratti collettivi, che fortunatamente la riforma Brunetta ha
abolito, si spera per sempre, sostituendoli con concorsi pubblici con limitata
riserva di posti:
2) registriamo che all’estero (che a noi
provinciali piace sempre tantissimo, tanto che lo imitiamo sempre, però sempre “all’italiana”;
si vede che l’estero non è poi così bello o “estero” fino in fondo…), e in
particolare in Francia a nominare il direttore del Louvre è il Presidente della
Repubblica, mentre in Gran Bretagna la direzione del British Museum è disposta
da una fondazione.
Limitandoci al secondo aspetto, la domanda
sorge spontanea: e dunque? Sostiene ancora Abravanel: “inizia a essere chiaro che il direttore di un museo non deve solo
tutelare ü patrimonio artistico affidatogli, ma anche valorizzarlo. Deve quindi
conoscere il marketing dei beni culturali (per esempio segmentando i visitatori
— single appassionati, famiglie senza figli, famiglie con bambini — e adattando
la offerta culturale), essere capace di cercare fondi privati, gestire un
budget e le persone, organizzare un bookshop e un locale di ristoro. Non basta
uno storico dell'arte, ci vuole uno storico dell'arte che capisca di management”.
Giustissimo! Il direttore del museo deve
avere queste competenze. Bene. Ma, la vera domanda che si pone non è quali
competenze deve avere un direttore del museo, bensì come verificare se le
possieda davvero, in che misura, con quali potenzialità.
Ora, a questo scopo appare piuttosto evidente
che non assume alcuna rilevanza, nessuna, ma proprio nessuna, “chi” nomina e dà
l’incarico, almeno non in una democrazia occidentale moderna. Al tempo dei
faraoni o delle monarchie medievali o assolute, più che il “come” e “perché”
qualcuno era nominato, contava appunto la provenienza sacrale della nomina,
tanto che un divo imperatore romano poteva anche nominare un cavallo. Napoleone,
in età più moderna, tanto per non sbagliare, invece di affidare la sua
investitura imperiale al Papa, si auto proclamò e incoronò imperatore. E, poiché
contava il “chi” nomina, e non tanto il “come” e il “perché”, ebbe modo di
nominare molti fratelli, sorelle, cognati e altro parentado principi e regnanti
in mezza Europa.
Siamo sicuri che questo possa essere il
sistema per ricercare dirigenti da preporre a servizi pubblici fondamentali,
cioè pensare al soggetto che li incarica, invece di prendere atto che è
indispensabile un sistema di selezione serio, capace davvero di tendere ad
individuare i migliori, lasciando traccia e spiegazione del perché una nomina
ricada su qualcuno, invece che su un altro?
La domanda, ovviamente, è retorica. Come
cittadini di uno Stato di diritto e non sudditi di una satrapia, abbiamo
diritto di sapere perché chiunque acceda ad incarichi amministrativi o tecnici
sia migliore di altri concorrenti, per poter verificare che ci governa non
scelga per parentele, appartenenze politiche, convenienze, ricatti. Semplice,
no?
Evidentemente no. Infatti, Abravanel
conclude: “È però necessaria una seconda
fase della riforma che formalizzi che le
nomine esulano dai concorsi per carriere dall'interno, magari trasformando i grandi musei italiani in
fondazioni e ripensandone la governance. Non basta, bisogna anche dare ai
loro direttori i poteri che oggi non hanno, ridimensionando drasticamente
quelli del ministero dei Beni culturali. Nascerà
cosi una vera meritocrazia anche nella gestione del patrimonio artistico
italiano e si eviterà che, anche nella
cultura come nella economia, chi guida il Paese è la magistratura”.
Ci risulta, francamente, nuovo che la
magistratura, in Italia, guidi il Paese, ma evidentemente ci siamo distratti.
In ogni caso, ritenere che la meritocrazia
possa nascere perché gli incarichi dirigenziali non passano più da concorsi, ma
dal ripensamento della governante dei
musei, intanto trasformati in fondazioni, è ovviamente velleitario. La tesi di
Abravanel risponde solo alla domanda “chi seleziona?” e non fornisce alcuna
indicazione sul come, perché, sulla base di quali ragioni, si seleziona. Non
conta se a selezionare sia una fondazione, una srl, un organo. Non deve
interessare questo. Almeno, non dovrebbe.
La vicenda dei direttori dei musei conferma
ancora una volta di più che in ballo c’era altro: la riforma Madia della
dirigenza (della quale la legge Franceschini era una prova generale per questa
parte), totalmente impostata sul “chi” nomina e non sul come e perché.
Purtroppo di questa gente, utile al potere politico perché da supporto teorico al clientelismo importante, è sempre più numerosa, volendo prendere dalle risorse pubbliche quel che un privato non gli sarebbe mai.
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