L’attestazione di un tremendo flop di una “riforma” è data da
una sua revisione profonda, anche se parziale.
Dalla lettura dei quotidiani del 31 luglio 2017, pare che la
certificazione definitiva, il bollino blu al merito della riforma
disastrosa, non possa che andare alla legge Delrio e alla rovinosa
riforma delle province, disposta “in attesa della riforma della
Parte II del Titolo V della Costituzione”, che mai vi fu.
Andiamo ai fatti. L’On. Giancarlo Bressa è stato uno dei
principali protagonisti della devastante riforma delle province. Su
Il Messaggero si produce in una strepitosa intervista, titolata “È
la più grande semplificazione italiana, ora però i sindaci riducano
la burocrazia”.
Partendo dall’esempio del territorio di Belluno, da cui Bressa
proviene, in non meglio precisati “quadranti”, il Nostro così
sintetizza la nuova teoria sulle province: “Poiché la Provincia
è la Casa dei Comuni ed è governata dai sindaci, possono essere i
sindaci che governano la Provincia ad autodefìnire le linee di
sviluppo sia dei Comuni raggruppati, ad esempio, nell'area di pianura
che quelle dei comuni dell'area di montagna. E la Provincia
può fornire a piccoli Comuni, che non hanno la forza per gestirli,
servizi collettivi come le buste paga o sistemi di assistenza agli
alunni disabili o la gestione tecnica degli appalti che sono sempre
più complessi”.
La domanda, a questo punto, sorge spontanea: non potevano pensarci
prima, cioè esattamente 4 anni fa quando hanno avviato la riforma
delle province e puntare a semplificare appunto l’assetto dei
comuni, facendo delle province gli enti coordinatori dei servizi?
E’ quanto deve essersi chiesto anche l’intervistatore, Diodato
Pirone, che, infatti, ribatte al sottosegretario agli Affari
regionali: “Scusi, ma finora si è parlato di abolizione delle
Province per semplificare la burocrazia. Lei delinea un quadro
opposto”!
Qui è opportuno riportare un intero passaggio dell’ottima
intervista, che fa intravedere molto bene tutte le incoerenze del
Governo e del Parlamento sulla devastante operazione che ha coinvolto
le province. Bressa così risponde all’osservazione del
giornalista:“«Neanche per idea. Io sto parlando della più
grande semplificazione dal basso della burocrazia italiana». Si
spieghi meglio. «Ha idea di quanti Comuni sotto i 5.000 abitanti ci
siano in Italia?». No. «Sono 4.566. E 1.618 hanno meno di mille
abitanti. E' evidente che entità così piccole hanno
bisogno di coordinarsi perché altrimenti non riusciranno mai a
fornire buoni servizi ai cittadini». Non era
meglio incentivare le unificazioni dei Comuni riducendo le poltrone
dei sindaci, dei comandanti dei vigili, e così via? «Lo
abbiamo fatto: 29 fusioni nel 2016 e 14 nel 2017 che hanno coinvolto
un centinaio di Comuni, non solo nel Nord ma anche in Calabria».
Bilancio magro”.
Il quadro del fallimento della riforma sta (quasi) tutto qui. Per
anni, il Governo ed il Parlamento ha propagandato, sotto la spinta
populista di grandissima parte della stampa e di M5S (seguito a ruota
dal PD, che aveva intuito il consenso facile acquisibile dalla
campagna anti province) la riforma delle province come essenziale per
la riduzione dei centri decisionali, la semplificazione ed il
risparmio di risorse pubbliche.
Si scopre, ora, che in un ordinamento nel quale i comuni sono oltre
8.000, con una spesa di circa 68 miliardi, intervenire su meno di 100
enti come le province, che gestivano all’epoca una spesa di circa
11 miliardi, non era proprio il massimo. Era più opportuno, semmai,
agire perché entità di ridotte dimensioni e con evidenti difficoltà
gestionali, come i comuni fino a 5.000 abitanti (ma, probabilmente
anche quelli fini a 10.000) conferissero ad amministrazioni di
livello sovracomunale parte della gestione di servizi idonei ad una
concentrazione territoriale.
Il Bressa, dunque, autocertifica un doppio fallimento. Fallimentare è
stata la riforma delle province, perché esattamente all’opposto di
qualificarle come enti di servizio ai comuni, le ha falcidiate,
sottraendo loro la metà dei dipendenti in servizio, il 70% delle
funzioni, 3 miliardi a regime di spesa, che per altro non hanno
costituito riduzione di imposte: le province continuano a drenare
dalle tasche degli italiani le imposte di sempre, ma debbono “girare”
3 miliardi allo Stato, che li spende ai propri fini. Ed i risultati
si sono visti: niente riduzione della spesa pubblica, ma carenza di
risorse per scuole, strade e servizi gestiti dalle province.
Ma, fallimentare è stata anche l’idea, contenuta sempre nella
legge Delrio, che al posto delle province potessero essere i comuni
ad organizzarsi in enti “infracomunali”, cioè le “unioni di
comuni”, per svolgere al loro posto le funzioni che, ora, il Bressa
considera come necessariamente di pertinenza delle province. I numeri
indicati dal sottosegretario rivelano l’assoluto disinteresse dei
comuni ad unirsi tra loro, anche a causa della consapevolezza che le
unioni di comuni sono sollo unioni di debolezze, del tutto incapaci
di fare fronte ad esigenze di accorpamento di servizi efficienti, ma
solo utili letteralmente per tamponare le falle di dotazioni
organiche e risorse finanziarie totalmente deficitarie.
Quindi, ora, il ripiego: “rilanciare” le province, come spiega
Pirone nell’articolo al quale l’intervista al sottosegretario
Bressa è d’appoggio, titolato “Così le Province forniranno
servizi ai Comuni”.
L’articolo dà conto dell’intenzione del Governo di reintervenire
sulle province, per potenziarne il ruolo di enti ai quali potranno
appoggiarsi i piccoli comuni, per ottenere servizi comuni. E fa due
esempi. La provincia di Brescia, che “ha inserito la
progettazione condivisa tra le priorità della sua Agenda Digitale e
attraverso il Centro Innovazione e Tecnologie, cui aderiscono 200
enti, supporta e coordina i suoi Comuni nell'elaborazione,
progettazione e creazione di infrastnitture digitale”; e la
Provincia di Vicenza, “l'unica accreditata come Soggetto
Aggregatore: nel 2016 ha appaltato gare per quasi 300 milioni, di cui
100 milioni per le pulizie di tutti gli enti della Regione Veneto,
escluse solo le strutture ospedaliere mentre la sua Stazione Unica
segue gare per 53 Comuni, tra cui il Comune capoluogo”.
Due esempi virtuosi di province che già agiscono a servizio dei
comuni. Peccato che, però, si tratti di due tra 107 province; che da
tre anni le province non possono approvare bilanci pluriennali,
altrimenti dovrebbero dichiarare tutte il pre-dissesto, per
impossibilità di assicurare gli equilibri finanziari; che nessuna
provincia è più in grado di assicurare le attività ordinarie, a
causa della transumanza del personale, disordinatamente appioppato ad
altri enti per attuare la sciagurata riforma Delrio; che due province
siano già al dissesto; che la provincia di Vicenza ha attivato il
servizio di centrale appalti ben prima della riforma Delrio e che,
ora, si ritrova con l’acqua alla gola e non è affatto certo che
possa continuare nella sua virtuosa attività.
Già, perché i tre miliardi di prelievo forzoso imposto alle
province dalla legge finanziaria del 2015 continuano a pesare,
eccome. Pirone osserva che, però, “da quest'anno la rotta è
cambiata. Le Cenerentole della burocrazia sono tornate a vedere la
luce poiché il governo ha rifinanziato le Province per 350 milioni
con la manovrina di giugno aggiungendo altri 100 milioni nel decreto
per il Sud che dovrebbe essere approvato a giorni. Il resto lo farà
la Finanziaria 2018”.
Vero. Ma, si impongono due osservazioni. Se il Governo ha
rifinanziato le province, è perché il prelievo forzoso imposto nel
2014 è risultato eccessivo ed ha messo al cappio le province; in
secondo luogo, la Sose, che ha fatto da consulente al Governo per
quantificare i tagli possibili, ha certificato quest’anno che
all’appello mancavano 651 milioni, scesi a poco meno di 500 dopo i
“rifinanziamenti” ricordati dall’articolo di Pirone.
I conti, dunque, continuano a non tornare. Così come non torna per
nulla l’idea di riorganizzare le province adesso che sono state
semidistrutte e si rivelano per la maggior parte dei casi nemmeno
capaci di attendere alle proprie competenze, figurarsi se possano
davvero riuscire a fare da service
ai comuni.
L’idea delle province come “casa
dei sindaci” è solo tale; le assemblee dei sindaci sono solo
pletorici organismi, che si riuniscono di rado e di malavoglia (nella
gran parte dei casi i sindaci delegano altri a partecipare), per
approvare distrattamente bilanci e conti consuntivi; per il resto, i
sindaci continuano ad agire pensando al campanile e poco altro.
L’idea del Governo appare un, fin
qui, maldestro espediente per provare riallineare la disciplina delle
province alla Costituzione, in seguito alla sonora bocciatura
referendaria della riforma proposta alla Carta, che avrebbe dovuto
fare da ombrello ad una riforma, quella del 2014, sicuramente
incostituzionale, perché disposta allo scopo di anticipare gli
effetti della mancata riforma Costituzionale, quando, invece, avrebbe
dovuto esserne solo una conseguenza, mentre era logica di prudenza
minima attendere l’esito della riforma della Costituzione, prima di
mettere mano all’ordinamento istituzionale della Repubblica in modo
così inefficiente e devastante, tanto da richiedere, ora, una toppa
rivelatrice dell’inaccettabile buco scavato nel 2014.
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