Il bilancio di una legislatura e
di attività delle maggioranze e dei governi che si sono succeduti dovrebbe
trarsi dai risultati concreti della loro attività e delle loro “riforme”.
Se si fosse davvero in grado di
valutare l’operato dei governi sulla base dell’efficacia della loro attività,
quanto accaduto alle province dovrebbe essere il segnale, deprimente, di un
fallimento totale ed incontrovertibile, per altro su una delle “riforme” considerate
esplicitamente come qualificanti l’azione dell’esecutivo.
Ben due governi vi si sono
impegnati: quello diretto da Enrico Letta, che ha avviato la riforma, e quello
di Matteo Renzi, che l’ha portata a termine, nell’aprile del 2014.
A poco più di tre anni di
distanza, cosa ne resta? La sostanza della riforma consisteva:
1)
nell’intento di anticipare gli effetti della
riforma della Costituzione, tra i cui obiettivi vi era anche quello di abolire
le province; la Costituzione , però, non è stata riformata, perché quasi
20 milioni di cittadini hanno risposto no al quesito referendario del 4
dicembre 2016;
2)
nel produrre “risparmi” alla spesa pubblica, per 3
miliardi a regime, come previsto dal micidiale articolo 1, comma 421, della
legge 190/2014; in realtà, non si è
verificato nessun risparmio, perché:
a.
anche se
ancora molti giornali si ostinano a considerare quei 3 miliardi come “tagli”,
in realtà si tratta esclusivamente di un prelievo forzoso;
b.
la norma
citata prima, a parità di gettito delle imposte provinciali (che non si sono
per nulla ridotte e, quindi i cittadini hanno continuato a pagarle per intero),
ha causato la paradossale circostanza che le province invece di spendere quelle
risorse per finanziare la spesa connessa alle proprie funzioni, le debbono
destinare al bilancio dello Stato, che non le ha affatto utilizzato come
economie, ma per finanziare la propria spesa;
c.
in sostanza,
le province hanno fatto da gabellieri, prelevando imposte per conto dello
Stato, senza poter più assicurare il finanziamento dei servizi per i cittadini
dei propri territori;
d.
circa una
metà della spesa complessiva è stata presa in carico dalle regioni, che si sono
accollate gran parte delle funzioni “non fondamentali” delle province, dovendo
provvedere a finanziarle, ovviamente;
3)
doveva essere l’occasione per la “più grande operazione
di mobilità del personale pubblico”, finalizzata a razionalizzare l’impiego di
circa 20.000 dipendenti delle province andati in sovrannumero, così da
rafforzare le dotazioni organiche di enti sottodimensionati, in modo mirato ed
efficiente (per esempio, Tribunali). Non
è andata per nulla così: la gran parte dei dipendenti ex provinciali è andata
in modo casuale a lavorare presso i comuni, pochissimi sono andati a lavorare
nei tribunali, una certa quantità si ritrova nelle regioni, mentre ancora 6.000
dipendenti dei centri per l’impiego non hanno una precisa collocazione;
4)
chi ha fatto i conti per quantificare il prelievo
forzoso di 3 miliardi, li ha clamorosamente sbagliati: infatti, sin dal 2015 diverse leggi hanno tentato di mettere una
“toppa” al buco finanziario creato dalla riforma. Non è da meno il progetto di
legge di bilancio per il 2018. Su Il Sole 24 ore del 19 ottobre 2017, Gianni
Trovati nell’articolo “Si scaricano sui conti le «incompiute» fra centro e
periferie” osserva: “sono le Province il
simbolo per eccellenza dell'incompiuta federalista e dei dibattiti eterni che
l'hanno accompagnata. "Abolende" per due anni e mezzo in base alla
riforma costituzionale cancellata dal referendum, le Province continuano
aesistcre, a differenza dei tagli multimiliardari che in base alla legge Delrio
avrebbero dovuto accompagnarle all'uscita. Di sostegno in sostegno, dei tré
miliardi di tagli (sic) ipotizzati
nel 2014 sono rimasti circa 800 milioni, ma lastoria non è finita.Se
esistono, come ha osservato la settimana scorsa anche il Capo dello Stato
Sergio Mattarella, le Province devono avere i soldi almeno per mantenere strade
e scuole che sono al centro dei loro compiti, e lo stesso invito è arrivato
ieri dal congresso dei poteri locali del Consiglio d'Europa: la manovra,
allora, porta in dote 250 milioni per il prossimo anno, no milioni all'anno nel
2019-2020 e 180 dal 2021 (arricchire i fondi per gli anni successivi al
prossimo sarà compito delle manovre future)”.
Si potrebbero evidenziare
ulteriori dei tantissimi effetti devastanti della riforma. Ma quanto
evidenziato pare che sia sufficiente per attestarne il completo fallimento:
persino il Governo Gentiloni è chiamato a rattoppare i danni in qualche modo.
Tuttavia, a rincarare la dose e
sottolineare ancor di più la debacle, è, appunto, il Consiglio d’Europa. Il
consesso ha approvato il rapporto di monitoraggio sulla situazione italiana,
nel quale l’Italia è espressamente invitata a “rivedere la politica di progressiva riduzione e di abolizione delle
province, ristabilendone le competenze, e dotandole delle risorse finanziarie
necessarie per l'esercizio delle loro responsabilità”, oltre che a "ristabilire l'elezione diretta per gli
organi di governo delle province e delle città metropolitane" e "fissare un sistema di retribuzione
ragionevole e adeguata dei loro amministratori" e, ancora introdurre
"la possibilità di votare una
mozione di revoca o di censura all'interno dei consigli provinciali e
metropolitani nei confronti dei loro presidenti o sindaci, per rafforzarne la
responsabilità politica".
Insomma, i Governi e le
maggioranze che si proclamano come argine ai “populismi” delle minoranze,
quando hanno deciso di agire sul medesimo terreno dei “populisti” hanno fatto
esattamente i medesimi danni. E’ noto che l’abolizione delle province era un
cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle. Invece di affrontare la questione
con razionalità, si è pensato di cavalcare quella tigre, anche come strumento
di propaganda per il sì al referendum, con gli esiti sotto gli occhi di tutti.
Anche alla luce della reprimenda
del Consiglio d’Europa, l’iniziativa assunta dal Governo di impugnare davanti
alla Corte costituzionale la legge regionale siciliana che ripristina le
cariche elettive nelle province isolane appare al di là del paradossale. Come
paradossali appaiono anche le sentenze 202/2016 e 205/2016, con cui la Consulta ha respinto
questioni di legittimità costituzionale poste dalle regioni contro la riforma
Delrio; sentenze, queste, per altro, in aperta contraddizione con la sentenza
10/2016, che ha smontato pezzo per pezzo la riforma.
Il Consiglio d’Europa, infine,
invita l’Italia anche a tornare indietro sui suoi passi e rivedere la riforma,
anche come conseguenza dell’esito referendario.
Non è da dimenticare che le
province hanno subito l’attacco populistico e
sono state costituite le città metropolitane (anch’esse nate morte,
piene di debiti e senza risorse per finanziare i servizi) sulla base di un’esplicita
clausola contenuta nella legge 56/2014: “In
attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e
delle relative norme di attuazione”.
Il vulnus all’ordinamento
giuridico determinato da simile disposizione dovrebbe essere visibile a tutti
nella sua estrema gravità: una legge ordinaria ha inteso anticipare gli effetti
di una riforma della Costituzione ancora all’epoca non vigente e, per altro,
poi mai entrata in vigore.
Una clausola normativa
inaccettabile: essa, infatti, se non estirpata dall’ordinamento, come merita,
potrebbe indurre qualcuno ad utilizzi davvero impropri. Una riforma, per
esempio, della magistratura volta a subordinarla al Governo potrebbe essere
realizzata con legge ordinaria “in attesa
della riforma del Titolo IV della parte seconda della Costituzione e delle
relative norme di attuazione”.
L’incostituzionalità di simile
norma, l’incostituzionalità della legge Delrio per aperta violazione
all’articolo 5[1] della Costituzione sono
sotto gli occhi di chiunque non abbia da difendere vessilli o agitare
populismi, come un soggetto terzo qual è il Consiglio d’Europa.
Allo stesso modo, il fallimento
dell’intero impianto della riforma delle province, per quanto fosse evidente
sin da subito agli occhi di chi era disincantato, è ormai oltre il clamoroso.
Le responsabilità di simile disastro sono chiare.
[1] “La
Repubblica , una e
indivisibile, riconosce e promuove le
autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il piu` ampio
decentramento amministrativo; adegua i princìpi ed i metodi della sua
legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. La Repubblica “riconosce”
le autonomie locali (e tra esse le province), perché esse sono preesistenti
alla Repubblica stessa. Abolirle, senza modificare l’articolo 5 della Costituzione,
come la riforma della Costituzione bocciata dal referendum, è una
contraddizione palese e gravissima.
molto utile
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