Lo scopo della contrattazione collettiva dovrebbe essere ovvio:
connettere eventuali incrementi contrattuali ad elementi di maggiore
produttività del lavoro, oltre che a fini di adeguamento del costo
della vita.
La domanda posta nel titolo del presente lavoro, dunque, contiene in
sé per implicito la risposta. O, meglio, si tratta solo di una
domanda retorica: certo che il rinnovo dei contratti collettivi è
finalizzato alla maggiore produttività, non può esservi dubbio. In
astratto, però.
Il fatto è che, nel concreto, la stagione contrattuale riapertasi in
questi mesi, dopo circa 9 anni di stasi, a tutto è finalizzata,
tranne che alla commisurazione di incrementi economici a maggiore
produttività. E la sensazione è che si tratti di una stagione
contrattuale molto chiaramente finalizzata alla campagna elettorale.
Il Sole 24 ore del 16 dicembre 2017, sul punto, non potrebbe essere
più chiaro con l’articolo a firma di Gianni Trovati “Nel
contratto statali aumenti <> ”. Leggiamo le
considerazioni del giornalista: “Il governo in passato aveva
lanciato in più di un'occasione l'idea di concentrare i ritocchi
sulle buste paga più basse, secondo il meccanismo della «piramide
rovesciata»; ma i tempi stretti per la firma, e la pressione
sindacale per una distribuzione più lineare, potrebbero portare nei
fatti a una soluzione più classica, modificando in modo
sostanzialmente analogo i tabellari di tutti. La firma
pre-natalizia del resto è essenziale sia per il governo
sia per i sindacati, perché serve a portare gli aumenti
nelle buste paga di marzo: periodo di elezioni politiche e
di rinnovi delle Rsu del pubblico impiego”.
Più chiara la situazione non potrebbe essere. In sostanza, pur di
giungere alla sottoscrizione della preintesa contrattuale entro
natale, necessaria perché le Sezioni Riunite della Corte dei conti
diano il benestare alla sottoscrizione definitiva (ci vogliono circa
due mesi in tutto), è evidente che Palazzo Vidoni ha dato queste
indicazioni:
1) fare presto, anche senza andare troppo per il sottile nella
ricerca di regolare gli istituti nuovi, anche quelli introdotti dalla
riforma Madia; infatti, non si ha traccia alcuna che la
contrattazione in atto stia trattando del tema dei criteri per
determinare la differenziazione delle valutazioni, al posto delle
abolite “fasce” di Brunetta, argomento che sarebbe una fonte
certa di contrasti tra Aran e sindacati;
2) rinunciare ad immaginare un sistema di distribuzione degli 85 euro
lordi medi di aumento, in modo che gli incrementi risultino maggiori
per i trattamenti economici più bassi e minori per quelli più
elevati: non si riesce a trovare, nella fretta, l’algoritmo di
calcolo che possa soddisfare.
E’ certamente possibile osservare che il Governo, proprio perché
la contrattazione è ferma da quasi un decennio e una sentenza della
Corte costituzionale, la 178/2015, ha imposto di sbloccare il suo
congelamento, ha non pochi motivi a rivendicare lo sblocco, per
provare a godere del “dividendo elettorale” che da questo
potrebbe derivare.
C’è, tuttavia, qualcosa che non quadra, sul piano strettamente
amministrativo e gestionale. Se è ovvio che l’azione di governo
oltre a perseguire gli interessi generali punti anche alla formazione
o quanto meno conservazione del consenso, tuttavia la stipulazione
dei contratti collettivi nazionali di lavoro non dovrebbe
considerarsi finalizzata esclusivamente alla campagna elettorale. Non
perché ciò sia da considerare in alcun modo disdicevole sul piano
etico o morale. Ma, per la semplicissima ragione che mediante la
contrattazione si fa politica economica.
Il riconoscimento di incrementi contrattuali per i circa 3 milioni di
dipendenti pubblici determina una spesa complessiva di circa 5
miliardi, cioè quasi l’azzeramento dei tagli alla spesa corrente
del personale pubblico, ottenuti in particolare dal 2011 in avanti,
grazie proprio al congelamento della contrattazione ed alla
multiforme normativa sul tetto alle assunzioni.
Tenendo presente questo punto di vista, considerare una spesa
complessiva di 5 miliardi di euro solo come spinta per la campagna
elettorale della maggioranza appare quanto meno riduttivo e fuori
mira.
Soprattutto, se si considerano, poi, gli strumenti di verifica e
controllo. Mai la Corte dei conti, nell’espletare le attività di
controllo sui contenuti delle intese per i contratti collettivi
nazionali potrebbe, né intenderebbe spingersi a ciò, entrare nel
merito delle scelte operative. Potrebbe limitarsi a ritenere
sostenibile o meno la spesa: ma, poiché vi sono fonti legislative
alla base dei finanziamenti (almeno per i comparti statali), oltre a
considerazioni generali la magistratura contabile non andrebbe e,
quindi, il visto per la sottoscrizione dovrebbe essere fornito sulla
base di valutazioni connesse ad aspetti esclusivamente
tecnico-contabili.
Allo stesso modo, il Ministero dell’economia e delle finanze, nel
momento in cui le leggi di bilancio che hanno stanziato i fondi per
la contrattazione sono state “bollinate”, cioè considerate
compatibili con le capacità finanziarie del bilancio dello Stato,
non avrebbe modo di evidenziare rilievi di merito e tecnici sulla
contrattazione.
Se, tuttavia, fosse un ente locale a solo pensare di provare di
stipulare un contratto decentrato con fini prevalentemente
elettorali, le cose non andrebbero sicuramente in questo modo. I
servizi ispettivi del Mef entrerebbero eccome nel merito delle
scelte, evidenziando in vario modo profili di illegittimità per
l’evidente carenza di connessione tra risorse contrattuali e fini
di produttività. E difficilmente la Corte dei conti, laddove le
procure fossero investite delle questioni sollevate in sede di
verifiche ispettive, lascerebbero cadere la cosa, senza iniziative
per il recupero delle somme.
Ciò che stride, allora, non è tanto la constatazione che la
politica persegua il consenso in ogni sua manifestazione, ivi
compresa anche la contrattazione.
Non funzionano, semmai, le logiche ed i proclami. E’ difficile far
accettare agli organi di governo locali l’impossibilità di
utilizzare la leva della contrattazione come politica economica
locale finalizzata al consenso di dipendenti e sindacati, se il
modello delle relazioni e dei fini della contrattazione proposto a
Roma va in senso totalmente contrario. Ed è anche piuttosto
incongruo, agli occhi di amministratori ed operatori locali, la
disparità sui controlli. Quelli sui contratti decentrati, per altro
inopportunamente successivi, si dipanano con una profondità anche
nelle valutazioni di merito (si pensi ai ripetuti riferimenti delle
ispezioni e dei pareri Aran agli obiettivi da qualificare come
“sfidanti”, pena la loro deplorazione) che al livello nazionale,
dove le somme in gioco influiscono sull’intera politica economica
nazionale, non si conosce. Quelli sui contratti collettivi nazionali
finiscono per essere una sorta di atto dovuto, anche laddove le
finalità siano manifestamente elettorali.
Il rischio concreto è che l’assenza, a questo punto probabile, nei
contratti collettivi di riferimenti chiari a strumenti per la
differenziazione delle valutazioni e di metodi per la rilevazione dei
risultati, si riverberi poi al livello decentrato, confermando
l’estrema difficoltà di disegnare sistemi di valutazione
efficienti e semplici, cui collegare in modo chiaro le risorse
contrattuali collegate alla produttività.
La contrattazione collettiva nazionale, stando alla riforma Madia,
avrebbe l’importantissimo compito di realizzare due
razionalizzazioni:
1) quella delle discipline in materia di dotazione ed utilizzo dei
fondi destinati alla contrattazione integrativa;
2) quella finalizzata alla graduale convergenza dei trattamenti
economici tra i vari comparti anche mediante la differenziata
distribuzione, distintamente per il personale dirigenziale e non
dirigenziale, delle risorse finanziarie destinate all'incremento dei
fondi per la contrattazione integrativa di ciascuna amministrazione.
Nel primo caso, la finalizzazione dei contratti alla sola erogazione
in fretta e furia degli 85 euro lascerebbe ancora il caotico sistema
di regole, che di per sé genera, poi, gli esiti spessissimo negativi
delle ispezioni.
Nel secondo caso, l’assenza della convergenza dei trattamenti
economici produce un paradosso: infatti, il comma 3, dell’articolo
23 del d.lgs 75/2017 prevede la fissazione del tetto del costo
complessivo della contrattazione decentrata al 2016, finché appunto
non si armonizzino i trattamenti contrattuali dei vari comparti.
Dunque, una contrattazione collettiva solo “elettorale” che
manchi gli obiettivi fondamentali posti proprio dalla norma che la
sblocca, la riforma Madia, finisce per riprodurre sine die il sistema
di congelamento della contrattazione decentrata, attivato per la
prima volta nel 2010, all’indomani dell’epifania della conclamata
crisi economica.
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