sabato 9 dicembre 2017

Ritardi dei pagamenti eliminabili solo con la radicale riforma della contabilità pubblica


I ritardi dei pagamenti dovuti dalle pubbliche amministrazioni alle imprese non saranno mai eliminati, finchè resti in piedi il sistema contabile pubblico previsto dalla normativa in vigore.

Potranno essere introdotti tutti gli indicatori, tutte le sanzioni, tutti i sistemi di rilevazione; potranno essere enunciate a gran voce tutte le promesse di salire a piedi su tutti i santuari di montagna d’Italia, ma il sistema è congegnato in modo da non consentire puntualità nei pagamenti (ovviamente, facendo riferimento ai tempi “medi”, perché vi saranno comunque amministrazioni puntuali ed altre ritardatarie).
La notizia apparsa nei giorni scorsi che la UE promuove una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, oltre a confermare che le norme del governo dei 1000 giorni sono andate incontro all’ennesimo fallimento, non dovrebbe apparire, agli occhi degli addetti ai lavori, una notizia, perché i ritardi sono inevitabili. E la contabilità “armonizzata” con il principio della “competenza potenziata” è un ulteriore ostacolo alla riduzione dei tempi.
Chi, come la stampa generalista, si limita al dato dei tempi medi di pagamento (96 giorni, comunque in diminuzione rispetto ad un lustro fa, ma ben oltre i 30 o 60 giorni previsti dalle direttive UE), affronta solo la parte del problema utile per far “vendere” i giornali, vellicando l’indignazione dei cittadini.
Un minimo di approfondimento delle regole, tuttavia, sarebbe opportuno per far capire a cittadini ed imprese che, al di là di esempi virtuosi esistenti e di contrarie prassi deprecabili anche loro ben presenti, il sistema normativo non è per nulla congegnato in modo da garantire la tempestività dei pagamenti alle imprese.
Nella sostanza, l’intero sistema contabile è divenuto una folla di grida manzoniane (basti pensare alla dimensione dei “tomi” che contengono principi contabili sempre più inestricabili e contorti, che si sono affiancati alle molteplici norme in un dedalo senza uscita), attente soprattutto a regolare il processo interno per giungere al pagamento.
Centinaia di articoli, pagine e pagine di principi contabili sono destinati alla prima delle quattro fasi del procedimento di spesa: l’impegno. Qualsiasi dirigente o funzionario amministrativo e tecnico chiamato a fare spese, deve quotidianamente confrontarsi con regole sempre più minuziose ed intricate, il cui solo scopo è creare un vincolo contabile interno alla capacità di spesa prevista in uno stanziamento di bilancio. Tre quarti delle risorse lavorative si dedicano non alla gestione, ma alla corretta individuazione dell’aggregato contabile, del capitolo, dell’articolo, per determinare l’entità dell’impegno, con l’ulteriore problema della specificazione dell’imputazione temporale del pagamento, che si affianca alla programmazione. Questa, a sua volta, deve tenere conto dei processi di concreta acquisizione delle entrate, in modo che i pagamenti siano sostenuti da risorse effettivamente in cassa.
Il tutto, complicato dalla competenza potenziata, che impedisce la formazione di residui passivi ed obbliga a far confluire le somme che si prevede di spendere nel caso di procedure di spesa non giunte al termine con la formazione del titolo giuridico (per solito, il contratto) o nel fondo pluriennale vincolato (e fin qui va anche bene), oppure nel risultato di amministrazione, con l’effetto di mettere per qualche mese le somme nell’oblio di un limbo virtuale, dal quale ripescarle con complesse manovre di bilancio. Un bilancio continuamente soggetto ad assestamenti e revisioni di residui, che in realtà nemmeno dovrebbero formarsi.
Pochissima attenzione, di conseguenza, è assegnata alle procedure di liquidazione, consistenti nella verifica della corretta effettuazione della prestazione dell’impresa contraente, dell’ordinazione, consistente nell’ordine rivolto dagli uffici ragioneria al tesoriere di pagare, susseguenti ai riscontri contabili della possibilità effettiva di pagare discendente dalla liquidazione, e de pagamento vero e proprio, cioè il bonifico all’impresa.
Il tutto è regolato non nell’ottica dell’adempimento secondo buona fede, correttezza ed efficienza di un’obbligazione verso l’appaltatore, bensì in quella di un’amministrazione pubblica che agisce in posizione di supremazia, non negozialmente, ma in preminenza, considerando prevalenti i propri interessi alla gestione formale, più che l’equilibrio tra questi e l’interesse economico di un imprenditore.
I pagamenti, infatti, sono in vario modo condizionati alla regolarità del Durc e all’esito dei controlli sulla regolarità fiscale degli appaltatori, nel caso di somme superiori ai 5.000 euro. Una ridda di adempimenti e controlli che possono anche richiedere giorni (a seconda delle posizioni delle ditte) e non è nemmeno chiaro quanto questi tempi imposti incidano sul computo dei giorni effettuato da chi evidenzia le medie finali.
Di fatto, per l’imprenditore l’insieme di tutta questa burocrazia produce solo la rassegnazione all’attesa dell’evento del pagamento.
Nessuna logica di efficienza sta dietro questi sistemi e regole. Le pubbliche amministrazioni non possono concedere anticipazioni dei pagamenti, salvo specifici casi per i soli appalti di lavori pubblici; né possono fino in fondo negoziare sui tempi: in questo modo, viene a mancare totalmente la possibilità di chiedere e valutare ulteriori sconti o miglioramenti delle condizioni di contratto, collegabili esattamente alla variabile dei tempi di pagamento.
Eppure, il tutto è connesso a rapporti negoziali, nei quali le pubbliche amministrazioni sono soggetti debitori delle imprese.
In pochi hanno notato la concomitanza tra l’azione della UE e la sentenza della Consulta 247/2017 che ha sostanzialmente censurato il sistema del pareggio di bilancio e l’impossibilità di utilizzare l’avanzo di amministrazione come entrata. Una critica indiretta alla nuova assurda contabilità e alla paradossale difficoltà di tenere ferme le risorse connesse a debiti contratti, derivante dal sistema cervellotico del fondo pluriennale vincolato.
Per superare il problema dei tempi di pagamento, occorre smantellare pietra su pietra i sistemi esistenti. Il che non significa, evidentemente, eliminare controlli e procedure. Ma integrare le informazioni ed agire con effcienza. Poiché le ditte sono obbligate alla fatturazione elettronica, inutile attivare su piattaforme diverse (AvcPass, Inps, Acquistiinrete) controlli sulle posizioni Inps, tributarie e previdenziali. Che siano Anac, Inps ed Agenzia delle entrate o Equitalia ad integrare i dati tra loro, e impedire direttamente la produzione della fattura se la ditta risulti irregolare, oppure a realizzare piattaforme che superino la logica borbonica della “richiesta” di dati, per passare a quella davvero utile negli anni 2000: l’accesso a dati già disponibili per verifiche istantanee.
Inutile continuare a insistere sulle funzioni “gestionali” dei dirigenti o dei responsabili di servizio, che non sono nemmeno nelle condizioni di governare le tempistiche di pagamento. Non si capisce come sia possibile che, nonostante le ormai collaudatissime risorse informatiche capaci anche di tracciare ogni movimento e rendicontarlo senza fallo, al momento dell’approvazione del Peg negli enti locali o di atti di programmazione gestionale, non si assegnino ai funzionari carte di credito o strumenti di pagamento elettronici, perfettamente tracciabili, grazie ai quali, con una fattura pervenuta da un sistema integrato che controlli a monte e non a valle le imprese, per pagare senza burocrazia e con immediatezza.
Finchè non giunga a soluzioni come queste ipotizzate o ancor meglio delineate, il ritardo dei pagamenti non sarà mai rimediabile.


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