I ritardi dei pagamenti dovuti
dalle pubbliche amministrazioni alle imprese non saranno mai eliminati, finchè
resti in piedi il sistema contabile pubblico previsto dalla normativa in
vigore.
Potranno essere introdotti tutti
gli indicatori, tutte le sanzioni, tutti i sistemi di rilevazione; potranno
essere enunciate a gran voce tutte le promesse di salire a piedi su tutti i
santuari di montagna d’Italia, ma il sistema è congegnato in modo da non
consentire puntualità nei pagamenti (ovviamente, facendo riferimento ai tempi
“medi”, perché vi saranno comunque amministrazioni puntuali ed altre
ritardatarie).
La notizia apparsa nei giorni
scorsi che la UE promuove una procedura di infrazione nei confronti
dell’Italia, oltre a confermare che le norme del governo dei 1000 giorni sono
andate incontro all’ennesimo fallimento, non dovrebbe apparire, agli occhi
degli addetti ai lavori, una notizia, perché i ritardi sono inevitabili. E la
contabilità “armonizzata” con il principio della “competenza potenziata” è un
ulteriore ostacolo alla riduzione dei tempi.
Chi, come la stampa generalista,
si limita al dato dei tempi medi di pagamento (96 giorni, comunque in
diminuzione rispetto ad un lustro fa, ma ben oltre i 30 o 60 giorni previsti
dalle direttive UE), affronta solo la parte del problema utile per far
“vendere” i giornali, vellicando l’indignazione dei cittadini.
Un minimo di approfondimento
delle regole, tuttavia, sarebbe opportuno per far capire a cittadini ed imprese
che, al di là di esempi virtuosi esistenti e di contrarie prassi deprecabili
anche loro ben presenti, il sistema normativo non è per nulla congegnato in
modo da garantire la tempestività dei pagamenti alle imprese.
Nella sostanza, l’intero sistema
contabile è divenuto una folla di grida manzoniane (basti pensare alla
dimensione dei “tomi” che contengono principi contabili sempre più
inestricabili e contorti, che si sono affiancati alle molteplici norme in un
dedalo senza uscita), attente soprattutto a regolare il processo interno per
giungere al pagamento.
Centinaia di articoli, pagine e
pagine di principi contabili sono destinati alla prima delle quattro fasi del
procedimento di spesa: l’impegno. Qualsiasi dirigente o funzionario
amministrativo e tecnico chiamato a fare spese, deve quotidianamente
confrontarsi con regole sempre più minuziose ed intricate, il cui solo scopo è
creare un vincolo contabile interno alla capacità di spesa prevista in uno
stanziamento di bilancio. Tre quarti delle risorse lavorative si dedicano non
alla gestione, ma alla corretta individuazione dell’aggregato contabile, del
capitolo, dell’articolo, per determinare l’entità dell’impegno, con l’ulteriore
problema della specificazione dell’imputazione temporale del pagamento, che si
affianca alla programmazione. Questa, a sua volta, deve tenere conto dei
processi di concreta acquisizione delle entrate, in modo che i pagamenti siano
sostenuti da risorse effettivamente in cassa.
Il tutto, complicato dalla
competenza potenziata, che impedisce la formazione di residui passivi ed
obbliga a far confluire le somme che si prevede di spendere nel caso di
procedure di spesa non giunte al termine con la formazione del titolo giuridico
(per solito, il contratto) o nel fondo pluriennale vincolato (e fin qui va
anche bene), oppure nel risultato di amministrazione, con l’effetto di mettere
per qualche mese le somme nell’oblio di un limbo virtuale, dal quale ripescarle
con complesse manovre di bilancio. Un bilancio continuamente soggetto ad
assestamenti e revisioni di residui, che in realtà nemmeno dovrebbero formarsi.
Pochissima attenzione, di
conseguenza, è assegnata alle procedure di liquidazione, consistenti nella
verifica della corretta effettuazione della prestazione dell’impresa
contraente, dell’ordinazione, consistente nell’ordine rivolto dagli uffici
ragioneria al tesoriere di pagare, susseguenti ai riscontri contabili della
possibilità effettiva di pagare discendente dalla liquidazione, e de pagamento
vero e proprio, cioè il bonifico all’impresa.
Il tutto è regolato non
nell’ottica dell’adempimento secondo buona fede, correttezza ed efficienza di
un’obbligazione verso l’appaltatore, bensì in quella di un’amministrazione
pubblica che agisce in posizione di supremazia, non negozialmente, ma in
preminenza, considerando prevalenti i propri interessi alla gestione formale,
più che l’equilibrio tra questi e l’interesse economico di un imprenditore.
I pagamenti, infatti, sono in
vario modo condizionati alla regolarità del Durc e all’esito dei controlli
sulla regolarità fiscale degli appaltatori, nel caso di somme superiori ai 5.000 euro. Una ridda di adempimenti e controlli che possono anche richiedere
giorni (a seconda delle posizioni delle ditte) e non è nemmeno chiaro quanto
questi tempi imposti incidano sul computo dei giorni effettuato da chi
evidenzia le medie finali.
Di fatto, per l’imprenditore
l’insieme di tutta questa burocrazia produce solo la rassegnazione all’attesa
dell’evento del pagamento.
Nessuna logica di efficienza sta
dietro questi sistemi e regole. Le pubbliche amministrazioni non possono
concedere anticipazioni dei pagamenti, salvo specifici casi per i soli appalti
di lavori pubblici; né possono fino in fondo negoziare sui tempi: in questo modo,
viene a mancare totalmente la possibilità di chiedere e valutare ulteriori
sconti o miglioramenti delle condizioni di contratto, collegabili esattamente
alla variabile dei tempi di pagamento.
Eppure, il tutto è connesso a
rapporti negoziali, nei quali le pubbliche amministrazioni sono soggetti
debitori delle imprese.
In pochi hanno notato la
concomitanza tra l’azione della UE e la sentenza della Consulta 247/2017 che ha
sostanzialmente censurato il sistema del pareggio di bilancio e l’impossibilità
di utilizzare l’avanzo di amministrazione come entrata. Una critica indiretta
alla nuova assurda contabilità e alla paradossale difficoltà di tenere ferme le
risorse connesse a debiti contratti, derivante dal sistema cervellotico del
fondo pluriennale vincolato.
Per superare il problema dei
tempi di pagamento, occorre smantellare pietra su pietra i sistemi esistenti.
Il che non significa, evidentemente, eliminare controlli e procedure. Ma
integrare le informazioni ed agire con effcienza. Poiché le ditte sono obbligate
alla fatturazione elettronica, inutile attivare su piattaforme diverse
(AvcPass, Inps, Acquistiinrete) controlli sulle posizioni Inps, tributarie e
previdenziali. Che siano Anac, Inps ed Agenzia delle entrate o Equitalia ad
integrare i dati tra loro, e impedire direttamente la produzione della fattura
se la ditta risulti irregolare, oppure a realizzare piattaforme che superino la
logica borbonica della “richiesta” di dati, per passare a quella davvero utile
negli anni 2000: l’accesso a dati già disponibili per verifiche istantanee.
Inutile continuare a insistere
sulle funzioni “gestionali” dei dirigenti o dei responsabili di servizio, che
non sono nemmeno nelle condizioni di governare le tempistiche di pagamento. Non
si capisce come sia possibile che, nonostante le ormai collaudatissime risorse
informatiche capaci anche di tracciare ogni movimento e rendicontarlo senza
fallo, al momento dell’approvazione del Peg negli enti locali o di atti di
programmazione gestionale, non si assegnino ai funzionari carte di credito o
strumenti di pagamento elettronici, perfettamente tracciabili, grazie ai quali,
con una fattura pervenuta da un sistema integrato che controlli a monte e non a
valle le imprese, per pagare senza burocrazia e con immediatezza.
Finchè non giunga a soluzioni
come queste ipotizzate o ancor meglio delineate, il ritardo dei pagamenti non
sarà mai rimediabile.
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