I giornali in questi giorni hanno
voluto sottolineare la linea di continuità tra le proposte di Confindustria nel
suo “Piano per l’Italia” e le “riforme” dei governi dell’ultimo quinquennio.
Leggendo con attenzione il
documento dell’Associazione, al contrario pare di scorgere, con riguardo alle
idee sulla riforma della PA, un’inevitabile linea di continuità con slogan
vecchi di quasi 30 anni, fonte di innumerevoli riforme sempre improduttive e
dannose, e al contempo una critica velata ma secca a molte delle riforme di
questi ultimi tempi.
Esaminiamo alcune delle
principali idee indicate nel Piano. Confindustria chiede di “favorire
l’innovazione e la digitalizzazione della PA attraverso” mediante in primo
luogo “un programma straordinario pluriennale di assunzioni di giovani con
competenze specialistiche (economisti, ingegneri, informatici, esperti di
organizzazione aziendale) e l’individuazione delle competenze necessarie sulla
base di analisi dei fabbisogni condotte sul modello dei Piani di Rafforzamento
Amministrativo; in particolare, garantire all’Amministrazione finanziaria il
supporto di risorse umane adeguate, per numero e competenze, a fronteggiare un
quadro-normativo fiscale in continua evoluzione, anche alla luce della maggiore
complessità delle operazioni poste in essere e della loro connotazione
transnazionale (es. Patent Box)”.
E’ da 30 anni che Confindustria
insiste sul tema, ormai ribollito, delle competenze specialistiche, più
ingegneri e meno laureati in giurisprudenza.
Poi, solo poi, ci si rende conto
che normative come il codice dell’amministrazione digitale, impongono non solo
competenze specialistiche, ma approfondiscono adempimenti burocratici. Non
parliamo, poi, dell’intero insieme della normativa anticorruzione.
E’ certo che economisti,
ingegneri, informatici, servano come il pane, se si vuole digitalizzare la PA:
occorrono professionalità capaci di analizzare le procedure, semplificarle,
renderle lineari, tali da poter camminare on line, nell’ottica della semplicità
del mezzo di comunicazione con l’utente. Come fanno le imprese digitali.
Ma, se non si eliminano tutte le
ridondanti normative su identità digitale, privacy ed adempimenti di vario
genere, che riportano la tecnica do nuovo verso il cavillo, nessuno dei
processi immaginati avrà mai sbocco.
Per altro, l’idea del
ringiovanimento della PA, giustissima, si scontra con un problema enorme: la
spesa per stipendi è una delle pochissime voci del bilancio dello Stato in
costante riduzione.
Un piano straordinario di
assunzioni modificherebbe la traiettoria con costi probabilmente non
sostenibili.
La chimera della sostituzione dei
500.000 dipendenti pubblici che andranno in pensione tra il 2019 e il 2021 può
essere credibile solo a condizione di pensare davvero che in 3 anni sia
realistico immaginare di reclutare una così immane quantità di persone e,
soprattutto, che lo Stato possa davvero disporre dei 17 miliardi che si
risparmieranno in stipendi. Tenendo presente per altro, che il 60% di quei 17
miliardi si trasformeranno comunque in nuova spesa pensionistica.
In secondo luogo il Piano di
Confindustria suggerisce “l’adeguamento di tutta l’attività amministrativa
alla sfida della digitalizzazione, agendo sulla quantità e qualità dei flussi
di dati e informazioni, favorendo l’incrocio delle banche dati e la diffusione
della modulistica on-line;
La digitalizzazione richiede l’Arba Fenice
dell’unificazione delle banche dati. Nel campo del lavoro, ove questa esigenza
è sentitissima e fondamentale, siamo ancora all’anno zero: l’Inps non ci pensa
nemmeno a condividere con le regioni le proprie banche dati e la condivisione
di questi tra Anpal e regioni è una sofferenza continua. Né si ha il coraggio
di imporre il domicilio digitale, che per i cittadini è ancora solo una
facoltà.
In questo modo la digitalizzazione resterà solo e
sempre solo uno slogan ed Agenzie come l’Agid soggetti dall’incerta
collocazione ed utilità.
Poi, Confindustria punta “sull’architettura
istituzionale per ampliare le materie attribuite alla competenza esclusiva
dello Stato, attuare il regionalismo “differenziato” e valorizzare le Città
metropolitane come punto di trazione dello sviluppo locale e nazionale”.
Cos’è, una sorta di riproposizione della riforma
costituzionale bocciata dal no al referendum, quello stesso “no” che scondo
Confindustria avrebbe devastato l’economia del Paese, mentre la stessa
Confindustria, ora, a poco più di un anno da quell’esito referendario, parla nel
suo Piano della crescita costante del Pil al 2%?
Cogliamo la marte mezza piena del bicchiere: il
rilancio della necessità di tornare sul Titolo V della Costituzione, vulnus
gravissimo all’organizzazione dello Stato, prodotto proprio da una maggioranza
di Governo in tutto omogenea a quella che ha governato negli ultimi 5 anni.
Ma, per cortesia, Confindustria non si produca in
valutazioni sulle città metropolitane di tipo fideistico. Un rilancio
dell’Italia richiede la piena consapevolezza di tutte le riforme sbagliate e
dannose. Come vedremo di seguito, l’associazione ne elenca di errori. Ma, la
riforma Delrio è una delle riforme più inutili, anzi dannose, mai viste
nell’ordinamento. Le città metropolitane sono ancora più inutili e vacue.
Pensare davvero che possano essere “trazione” dello sviluppo locale significa
non aver colto il totale flop di una delle riforme che meglio hanno
sintetizzato le occasioni perse degli ultimi 5 anni.
Poi, Confindustria chiede di “ legiferare meno e
meglio attraverso modifiche puntuali dei regolamenti parlamentari per rendere
più celeri e trasparenti le decisioni, il rafforzamento delle analisi di
impatto ex ante ed ex post, il rispetto dei principi dello Statuto del
Contribuente, un piano di legislatura per la codificazione (con l’obiettivo di
adottare almeno 3 Codici di settore all’anno nelle materie strategiche per le
imprese) e l’adozione di leggi ad hoc per disciplinare gli strumenti di
sostegno all’economia attualmente oggetto di interventi normativi disorganici
(es. introduzione di una legge quadro per gli interventi da mettere in campo in
occasione di calamità naturali)”.
L’idea di produrre codici o testi unici era
contenuta nelle riforme Bassanini, una delle poche davvero utili di quell’altra
stagione di riforme così negative per la PA. Ovviamente, venne presto
accantonata.
Qui incontriamo una delle prime e corrette critiche
indirette di Confindustria all’agire politico di questi anni: troppe leggi. Il
documento si dimentica di sottolineare che l’esiziale proliferazione delle
leggi (e dei loro contenuti: basti pensare alle migliaia di commi della legge
di bilancio 2018) è cagionata dalla prassi assolutamente censurabile e
censurata, ma mai eliminata, dei decreti legge, prodotti ad ogni piè sospinto
dal Governo, accompagnata da voti di fiducia per la loro conversione. Prassi
che ha finito per coinvolgere anche leggi che con l’iniziativa governativa non
dovrebbero avere nulla a che vedere, come la legge elettorale.
Il problema, allora, non risiede soltanto nei
regolamenti parlamentari, che pure con “canguri” vari hanno permesso
l’approvazione della riforma costituzionale, poi sonoramente bocciata dai
cittadini, come si trattasse di un decreto legge qualsiasi, ma nella correzione
di rotta dei rapporti tra Governo e Parlamento.
Dimostrando, di seguito, incerta coerenza sulle
proprie idee, Confindustria richiede di “rafforzare lo strumento
dell’interpello, applicandolo anche in ambiti diversi da quello fiscale (es.
ambiente), per agevolare il confronto preventivo tra PA e operatori e ridurre
così il rischio di sanzioni gravi (es. sequestri e blocchi alle attività di
impresa); nei rapporti con l’Amministrazione finanziaria, proseguire il
percorso di transizione verso modelli di assolvimento degli adempimenti che
prediligano la compliance spontanea e il dialogo preventivo con
l’Amministrazione”.
L’interpello, accanto alle Faq, alle linee guida,
alle linee di indirizzo, ai pareri, alle circolari, alle risoluzioni, hanno
surrogato le norme e reso l’ordinamento giuridico caotico ed ingovernabile.
Proprio il sistema finanziario è caratterizzato
dalla più totale opacità perché soffocato da una serie di regole con fonti di
provenienza delle più varie ed incontrollabili.
Ben vengano strumenti di dialogo e “negoziazione”
tra PA e privati. Ma la cancellazione di tutta questa ridda di fonti con le
quali il Parlamento ha “subappaltato” la produzione delle regole sarebbe
urgente. In particolare, poi, è fondamentale ricondurre l’attività della
magistratura contabile alla sola giurisdizione, eliminando i pareri che hanno
finito per costituire una nuova fonte di produzione normativa, spesso in aperto
conflitto col Parlamento, come nel caso della disciplina degli incentivi per le
funzioni tecniche negli appalti.
Che tutta questa quantità di norme produca
complicazioni, incertezze, difficoltà operative, Confindustria nel prende atto
nell’invitare a “rivedere le troppe forme di responsabilità dei dirigenti
pubblici (penale, erariale, disciplinare, dirigenziale) per superare la “fuga
dalla decisione”, valorizzare le competenze tecniche (non solo quelle
giuridico-contabili) e dare piena attuazione ai poteri sostitutivi in caso di
inerzia o ritardo”.
Per una volta, la dirigenza non è presa di mira come
territorio per lo spoil system e la creazione di un apparato partitico e
non imparziale e terzo, né viene accusata di immobilismo bizantin-burocratico
come vezzo.
L’iper normazione ha portato alla creazione di
eccessive forme di responsabilità nei confronti dei dirigenti. Basti pensare
alla normativa anticorruzione: centinaia di adempimenti formali, specialmente
riferiti a pubblicazioni, del tutto inefficaci contro i corrotti, producono
responsabilità estesissime e diffusissime nei confronti dei dirigenti, senza
che ciò, per altro riveli utilità anche minime all’efficienza amministrativa.
Sul piano della critica consapevole a scelte di
riforma del tutto discutibili e di efficacia oggettivamente deludente, il Piano
per l’Italia indica di “ rivedere il Codice dei Contratti pubblici,
semplificando l’attuale impostazione, restituendo trasparenza al mercato,
limitando le deroghe, puntando sulla “qualificazione” delle imprese, rivedendo
i presupposti alla base del ricorso all’offerta economicamente più vantaggiosa,
combattendo l’illegalità e la corruzione senza danneggiare le imprese corrette”.;
Con la riforma della Costituzione, della dirigenza
pubblica e della PA, nonché delle province, il codice dei contratti è stato una
delle norme-bandiera della passata legislatura. E come quelle riforme si è
rivelato un fallimento profondissimo.
Gli appalti sono bloccati, compressi da un insieme
di regole, cavilli e procedure ridondanti, eccessive, ingestibili. Quando andrà
a regime il sistema delle nomine delle commissioni di gara ove si utilizzi il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, le procedure subiranno
allungamenti dei tempi di quasi un mese. Le linee guida, lungi dal semplificare
la disciplina normativa (già l’insieme di d.lgs 50/2016, linee guida e i pochi
decreti attuativi adottati supera, in dimensioni e quantità di regole, il
deprecato insieme del d.lgs 163/2006 e dpr 207/2010) l’hanno resa ipertrofica,
indicando nel minimo dettaglio dal singolo adempimento della commissione, al
peculiare titolo di studio di quel particolare responsabile unico del procedimento
per quella particolare gara, finendo per surrogarsi alle regole gestionali
operative di ciascuna PA e ciascun dirigente.
L’estensione dell’offerta economicamente più
vantaggiosa come regola generale (non previsto dalle direttive europee) ha
ulteriormente complicato gli appalti. Osannata come scelta che avrebbe favorito
la qualità a discapito dei ribassi eccessivi, anche Confindustria, ora, si
rende conto che si è trattato di una scelta tutt’altro che efficiente.
Non mancano critiche indirette al sistema delle authority.
Confindustria suggerisce di “rendere più efficace l’azione delle Autorità
Amministrative Indipendenti attraverso la riforma del sistema di finanziamento
e della governance, nonché la revisione dei perimetri di competenza”. Un
modo elegante per rilevare lo strapotere che alcune autorità hanno acquisito,
finendo però per ingessare le discipline di pertinenza.
Altro flop di questi anni: i tempi di pagamento.
Confindustria indica di “accelerare i pagamenti della PA con l’attribuzione
a un unico soggetto, da individuare nell’ambito del team costituito all’interno
di ciascuna amministrazione, della responsabilità di tutto il ciclo degli
acquisti (dalla stipula dei contratti di fornitura, alle autorizzazioni di
spesa, fino al pagamento) in modo da metterlo in condizioni di adempiere ai
propri obblighi tempestivamente e, nel caso contrario, risponderne agli organi
preposti al controllo; adeguare di conseguenza, rendendole pienamente
effettive, le sanzioni per i funzionari pubblici e prevedere, in ultima istanza
e per i casi più gravi e reiterati di inerzia, un intervento sostitutivo dello
Stato”.
La diagnosi è corretta, la terapia molto meno. Come
sempre, ci si dimentica che la gran parte delle PA è di piccole dimensioni e
con compagini amministrative ristrette. Il team per i pagamenti ed il
responsabile unico (che verrebbe assoggettato a quelle responsabilità anche
formali che la stessa Confindustria, prima, suggerisce di ridurre) è
immaginabile solo in organizzazioni di grandissime dimensioni.
Il vero tema che sta dietro la necessità di
accelerare i pagamenti è nascosto e risiede nel fallimento clamoroso delle
riforme dell’ordinamento contabile di questi anni. Il processo di pagamento è
complicatissimo, tra norme che vorrebbero il pagamento eseguito in 30 giorni,
ed altre che richiedono la previa verifica della regolarità contributiva e del
pagamento delle imposte, senza che ancora vi siano banche dati di semplice ed
immediata consultazione, ove provvedere.
Non solo: la scimmiottatura malriuscita della
contabilità privata, che negli enti locali ha prodotto il mostro della
“competenza potenziata” è un caos che ha rallentato non solo i pagamenti, ma
anche le procedure per l’attivazione stessa dei procedimenti di spesa.
La necessità di banche date di pronta consultazione
è evidenziata da Confindustria quando propone “in materia di documentazione
antimafia garantirne il rilascio in tempi certi e più brevi, attraverso la
piena operatività della Banca Dati Nazionale Antimafia e, medio tempore,
avviando un’azione sinergica di collaborazione tra Ministero dell’Interno,
amministrazioni interessate e associazioni di categoria, concentrando mezzi e
risorse sugli ambiti prioritari”.
Il Piano per l’Italia appare sicuramente velleitario
ed è un’ondata di ottimismo forzato, finalizzata sicuramente ad orientare il
voto, anche se Confindustria ha formalmente inteso restare neutrale.
Tuttavia, se letto non col trionfalismo della stampa, ma con l’occhio
della critica, svela le troppe falle di tanti anni di riforme fuori mira. Le
soluzioni proposte non sempre appaiono utili per risolvere i problemi. Ma è già
fondamentale che Confindustria finalmente questi problemi li evidenzi.
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