I dati sull’esito della riforma
delle società partecipate attestano la cruda realtà: di “epocale” delle riforme
della PA attivate nell’ultimo quinquennio, ci sono solo i flop.
Il censimento effettuato dall’Anpal
sul personale delle società partecipate che, in virtù del processo di riduzione
impostato dalla riforma Madia, avrebbe dovuto essere posto in mobilità è un
indicatore del fallimento anche di questa riforma. Infatti, sarebbero
esuberanti 563 dipendenti su un totale di circa 270.000.
E’ il chiaro segnale che la
ricognizione effettuata dalle amministrazioni locali sulle società da liquidare
è estremamente sommaria: non si arriverà mai all’obiettivo da sempre enunciato
della riduzione del numero delle partecipate “da 8.000 a 1.000”, come, del
resto, facilmente vaticinato.
Si tratta dell’ennesimo
fallimento della serie incredibile prodotta nella scorsa legislatura. La
“madre” di tutte le riforme disasrtrose della PA o, comunque, dell’assetto
ordinamentale, come è noto è quella delle province. Sciaguratamente avviata
nell’aprile del 2014 ancora dopo 4 anni non si è nemmeno definitivamente
assestata, anche perché incautamente finalizzata, per espressa enunciazione
(incostituzionale) della legge Delrio ad anticipare gli effetti di una riforma
della Costituzione mai entrata in vigore. Risultato? Da 4 anni leggi speciali
consentono alle province di approvare bilanci solo annuali e non triennali, e
pongono toppe al vero e proprio scippo di 3 miliardi, che non sono consistiti
in tagli di spesa e di tasse, ma in un prelievo forzoso da parte dello Stato di
entrate che continuano ad essere acquisite dalle province, ma debbono da esse
essere devolute al bilancio statale, invece che utilizzate per i fini
gestionali di quegli enti.
Il disastro istituzionale,
organizzativo, finanziario e amministrativo delle province ha inciso non poco
su altri ambiti. Per esempio, la riforma del lavoro, il Jobs Act. Osservazione
unanime è che la riforma risulti carente dal lato delle “politiche attive”,
cioè dei sistemi di aiuto più o meno intensivo ai disoccupati nella transizione
tra un lavoro e l’altro. Il tutto, dovuto oltre che alla mancanza di risorse e
strumenti, anche all’avvio della riforma del lavoro mentre si smantellavano gli
uffici per il lavoro operanti proprio nelle province.
La cosiddetta “buona scuola” è
un’altra Waterloo organizzativa. La complessiva riforma del lavoro pubblico, composta
dai decreti legislativi 74/2015 e 75/2015 risulta poco più di una manutenzione
della riforma-Brunetta finalizzata ad eliminarne alcuni “spigoli” (in
particolare le fasce di valutazione), ma è una montagna che ha partorito il
topolino del rinnovo del contratto collettivo di lavoro delle funzioni centrali
(le amministrazioni statali), che la Corte dei conti ha definito deludente.
Un capitolo a parte meriterebbe
il codice dei contratti, forse, con la riforma delle province, la
rappresentazione maggiormente plastica degli esiti fallimentari delle riforme
di questi anni. La disciplina degli appalti è divenuta ancora più complessa e
farraginosa di prima, continuamente soggetta ad inciampi giurisprudenziali e
resa frammentaria dalla rinuncia ad un blocco unico di norme (legge e
regolamento di attuazione), sostituita da decine e decine (oltre 50) di norme
attuative tra decreti ministeriali e linee guida dell’Anac, molte delle quali
ancora non emanate dopo 2 anni, ma, in ogni caso, incomplete, oscure, soggette a
continui aggiustamenti, per nulla in grado di fornire interpretazioni e
modalità applicative univoche.
Tutte queste riforme scontano un
vizio di fondo: il tentativo di portare in un apparato centrale il governo ed
il presidio delle procedure.
E’ un tratto comune: la riforma
degli appalti punta a ridurre le stazioni appaltanti “da 30.000 a 30”
(ovviamente senza riuscirvi e creando enormi complicazioni); le società si
dovrebbero ridurre di 8 volte sotto una regìa centrale fallimentare; il
personale pubblico dovrebbe essere selezionato sulla base di concorsi unici a
livello statale e ricondotti un unico sistema di programmazione e censimento.
Idee in astratto valide ed utili,
per la loro idoneità a contrastare la corruzione e le inefficienze, mediante il
metodo delle economie di scala.
Peccato che alle buone intenzioni
non abbia fatto seguito la necessaria organizzazione. La dispersione delle
regole in miriadi di fonti di per sé è esattamente inconciliabile con le
esigenze di accentramento. Inoltre – altra riforma fallita – manca un sistema
informativo unico, valido su tutto il territorio di gestione e scambio dati: il
Pin unico è una chimera, lo Spid è utile ancora per pochissimi servizi,
l’anagrafe unica informatizzata è rimasta un progetto, le banche dati Inps non
parlano praticamente con nessun’altra banca dati pubblica, non esiste uno
standard per la gestione telematica degli appalti, la banca dati dei requisiti
delle imprese è prigioniera dell’antiquato sistema AvCpass.
Né, comunque, di per sé la
centralizzazione porta necessariamente a benefici sulla lotta alla corruzione,
sulla spesa e sull’organizzazione.
La centralizzazione degli appalti
e l’esaltazione della Consip come punto unico per gli acquisti di beni e
servizi sono stati propagandati, sin dai tempi del Cottarelli commissario della
spending review come la panacea. Si è visto, però, che la Consip,
concentrando appalti di immenso valore, è tutt’altro che un fortino
inespugnabile da corruttori e corrotti.
Inoltre, sulla capacità della
centrale (ma di tutte le centrali) acquisti, v’è seriamente da dubitare. La
spesa complessiva per beni e servizi dello Stato è sempre in costante aumento.
Inoltre, la Consip non garantisce affatto prezzi davvero inferiori.
Ne è riprova la sentenza
del Consiglio di stato, Sezione V, 28 marzo 2018, n. 1937. I giudici di
Palazzo Spada hanno considerato legittima la scelta del Mibac di non avvalersi
di una convenzione Consip in corso per servizi relativi alla gestione integrata
della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, decidendo di attivare una
procedura in autonomia sulla base di una maggiore convenienza economica della
procedura.
La sentenza mette a nudo quanto
una visione acritica e radicale della funzione delle centrali di committenza
(visione trasfusa, purtroppo, nel codice dei contratti) nega: la funzione delle
centrali di committenza o dei soggetti aggregatori, come la Consip, non deve
essere quella di creare dei colli di bottiglia, nei quali convogliare
forzatamente l’attività delle pubbliche amministrazioni, bensì solo ed
esclusivamente un supporto. Di due tipi: o un supporto di tipo gestionale,
qualora un’amministrazione decida di affidare alla centrale tutto o parte del
processo di acquisto (dalla progettazione alla gestione, oppure solo la gara,
per esempio); oppure, un supporto economico: i prezzi dei contratti o delle
convenzioni aggiudicati dalle centrali di committenza dovrebbero essere lo
standard, il riferimento al quale appoggiarsi per attivare gare d’appalto
autonome che li utilizzino come base di gara, per evitare il fenomeno famoso
delle siringhe che in Calabria costerebbero tre volte quanto costino in
Lombardia.
La farraginosità ed il fallimento
delle riforme, per altro, si riscontra anche nelle conseguenze che esse
comportano a livello interpretativo. Il Consiglio di stato ha dato vita ad una
pronuncia di puro buon senso (oltre che di poco eccepibile rigore giuridico),
che appare, tuttavia, in antitesi con la visione, invece, rigoristica e
radicale della Corte dei conti. In più pareri, infatti, la magistratura
contabile ha ritenuto illegittimo (e quindi potenzialmente produttivo di danno
all’erario) per i comuni approvvigionarsi di carburante presso il vicino
distributore, invece di quello individuato dalle convenzioni Consip, magari a
chilometri e chilometri di distanza, comportante maggiori costi economici ed
evidenti inefficienze organizzative.
Dunque, la possibilità di
procedere in autonomia per gli appalti, riconosciuta legittima dalla
magistratura amministrativa, sarebbe un illecito per quella contabile.
Una Babele giuridica ed
organizzativa che le riforme fallimentari hanno creato e accresciuto ed alla
quale è imprescindibile ed urgente porre un rimedio definitivo.
Le centrali di committenza, in cui spesso si centralizza e si affina anche la corruzione in modo meticoloso e border line, fanno gola ai privati, e per questo giornali e professionisti dell' "anticorruzione" (o dovremmo dire della corruzione) spingono in tal senso. Ma la ragionevolezza ormai è rara a trovarsi e difficilmente si cambierà strada.
RispondiEliminaLa pessima scuola è stata un modo per dare soldi inutili alle università con ulteriori crediti da acquisire, favorire presidi (dirigenti scolastici) spesso piccoli dittatori, creare un girone infernale, per i meritevoli, per diventare di ruolo. Insomma pensando a tutti meno che a far crescere scuola e cultura. Una dimostrazione pratica di come degli incapaci possano fare anche i ministri. L'esito elettorale non è stato dovuto a populismi o meriti dei partiti vincitori, ma a valutazioni oggettive e non smentibili dell'incapacita degli uscenti (che tra l'altro avevano dalla loro parte gli stessi intellettuali e giornalisti sempre presenti da 20 anni che si sono smarcati solo negli ultimi mesi).
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