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martedì 14 agosto 2018

Per una riforma della Pubblica Amministrazione davvero concreta



Apprendiamo che in questi giorni il Ministro della funzione pubblica si sta apprestando a realizzare una (l’ennesima) riforma della Pubblica Amministrazione priva di velleità “epocali” (e sarebbe la prima volta), ma legata alla “concretezza”.

Un ottimo approccio, finalmente. Non la ricerca della riforma sensazionale della quale pavoneggiarsi sui social e nelle televisioni, bensì necessari correttivi operativi e mirati, per far funzionare in modo dovuto la PA.
Se l’intento è encomiabile, tuttavia, le premesse, almeno stando ad alcune notizie di stampa, non appaiono delle migliori.
Su Il Messaggero del 10 agosto 2018 l’articolo “Roma, dirigenti pagati per sbloccare gli appalti” di dà conto dell’idea che sarebbe emersa in un confronto tra il sindaco l’inquilina di Palazzo Vidono per risolvere il problema dei dirigenti della Capitale restii a presiedere le gare d’appalto: “L'idea di incentivare economicamente la partecipazione a queste commissioni è stata discussa nei giorni scorsi nell'incontro tra la sindaca Virginia Raggi e dal ministro per la Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno. Da settembre l'inquilina di Palazzo Vidoni metterà in pratica le sue idee per migliorare la macchina amministrativa: una di queste potrebbe essere proprio l'introduzione di premi per chi porta avanti le gare d'appalto pubbliche in maniera rapida ed efficace, e al contempo corretta e trasparente”.
E’ da auspicare che si tratti di boatos di stampa, non corrispondenti alle reali intenzioni della riforma “concretezza”.
Se così fosse, per l’ennesima volta avremmo la conferma che i vertici politici e di governo non hanno ancora chiaro in alcun modo in cosa consistano “produttività” e “risultati”.
Portare avanti le gare d’appalto in modo corretto e trasparente non può essere considerato un prodotto da premiare: è semplicemente un dovere d’ufficio, già compensato dallo stipendio. Parlare solo di premiare la correttezza e trasparenza nella gestione delle gare come “obiettivo” significa implicitamente ammettere che se tale obiettivo non è dato, allora le gare possano essere gestite in via ordinaria in modo scorretto ed opaco. Un’assurdità.
Né ha alcun senso commisurare il premio ai dirigenti in base alla conduzione delle gare d’appalto “rapida” ed “efficace”. Cosa vuol dire “rapida”? Ma, a Roma lo sanno che la scansione della tempistica delle gare di appalto è integralmente ed inderogabilmente definita dalla legge? E che questo implica che i tempi sono prescritti in modo ultimativo? E cosa vuol dire “efficace”? Come si misura l’efficacia di una gara? Dai tempi necessari? E se arrivano imprevisti, legittimamente attivati dalle imprese, come ricorsi?
La reale concretezza dovrebbe indurre chi ha la delicatissima responsabilità di adottare misure per il funzionamento di una colonna portante del convivere civile e dell’economia, qual è la PA, a non incorrere per l’ennesima volta negli stessi errori di valutazione e nelle stanche premesse errate.
Scrive Francesco Verbaro su Il Sole 24 del 13 agosto (“Per la Pa serve una riforma su due livelli”) che al posto di slogan ad effetto “servono invece interventi gestionali che partano dai processi” e così “migliorare molto con un investimento gestionale, puntando su informatizzazione e risorse umane qualificate” e chiudendo sottolineando che “per affrontare la sfida servirebbe un governo consapevole a tutti i livelli, e la fissazione di standard gestionali efficienti”.
Ecco, gli “standard gestionali”, i grandi assenti. Per provare a determinarli era stata costituita la Civit, uno dei più grandi flop delle riforme “epocali” della PA.
Cosa dovrebbe suggerire la “concretezza”, allora, alla luce anche dei consigli di buon senso dispensati da un grandissimo esperto di pubblica amministrazione come il Verbaro? Ci permettiamo di fornire, non richiesti, a nostra volta alcuni suggerimenti.
Un primo passo decisivo consisterebbe nell’andare, finalmente, oltre l’approccio “alla Brunetta”.
Non sarebbe male se si tornasse a parlare di “risultato”, eliminando per sempre dall’ordinamento la cacofonica e orrenda parola straniera “performance”: i dipendenti pubblici non sono né attori che recitano su un palcoscenico, né sportivi chiamati a vincere medaglie o battere record. L’orribile parola “performance” è solo un cascame dell’epoca della “Milano da bere”: abbiamo già dato.
Altra buona cosa sarebbe abbandonare definitivamente l’idea della valutazione della prestazione individuale tramite “pagelle” dagli elementi valutativi bislacchi come la “disponibilità” o “l’orientamento al cliente”. Il risultato non può che essere complessivo; l’apporto dei singoli andrebbe commisurato in modo semplice al risultato complessivo, meglio se sulla base di elementi valutativi non suscettibili di interpretazioni (giorni di presenza, numero di prodotti elaborati, come istruttorie, atti, colloqui, risposte)
Anche la corsa affannosa alla riduzione dei tempi dei procedimenti disciplinari non porta da nessuna parte. La riduzione da 120 giorni (non si può oggettivamente nemmeno pensare che si tratti di una durata eccessiva) a 30 dei tempi per il licenziamento dei “furbetti del cartellino”, imposta dalla riforma Madia non ha per nulla aumentato il numero dei licenziamenti, ma ha reso molto più complicata la gestione di procedure di licenziamento plurisoggettive (la truffa sulle timbrature è sempre portata avanti da più persone in complicità tra loro), perché non vi sono letteralmente i tempi minimi necessari alle istruttorie.
Serve la tipizzazione certa delle cause di licenziamento, così come una procedura agile, ma non dai tempi insufficienti alle istruttorie.
Altra riforma molto concreta, consisterebbe nell’eliminazione della funzione di “controllo collaborativo” della Corte dei conti. Negli anni, il controllo è divenuto sempre meno collaborativo e sempre più censorio, ed ha causato troppe volte cortocircuiti operativi inestricabili e lunghi anni, come il conflitto tra magistratura contabile e giudici ordinari sul diritto dei segretari comunali a percepire la compartecipazione ai diritti di rogito negli enti privi di dirigenza, o sull’analoga questione degli incentivi per le funzioni tecniche, o le prese di posizione che ingiungono ai sindaci di utilizzare le convenzioni Consip per il rifornimento del carburante, anche quando, per la logistica dei distributori, ciò risulti antieconomico per i piccoli comuni.
I controlli servono e, per evitare vizi procedurali, debbono essere preventivi. L’esperienza di oltre 20 anni di eliminazione dei controlli ha fatto dilagare ulteriormente corruzione e mala gestione. Non che i Co.Re.Co. potessero impedirla, ma l’efficacia di controlli a danno compiuto è ovviamente di gran lunga inferiore a controlli posti in mezzo tra la produzione dell’atto e la sua efficacia.
Se la Corte dei conti, organo giurisdizionale, non può essere chiamata a svolgere funzioni amministrative di controllo puntuale, si riveda l’organizzazione per istituire organi di controllo preventivo, oppure creare uffici regionali o provinciali indipendenti che rispondano solo all’Anac.
La Corte dei conti potrebbe svolgere la propria funzione giurisdizionale, liberata dall’onere dei troppi pareri “collaborativi” per “certificare” i contratti decentrati collettivi di lavoro, e scongiurare così l’infinito contenzioso che ne deriva; è ormai comprovato che gli organi di revisione non hanno competenze e capacità per un efficace controllo interno sugli accordi decentrati.
Sempre restando ai contratti, la “concretezza” imporrebbe di adottare sistemi davvero semplici per quantificare i fondi. Le formule adottate dall’ultima ondata pre elettorale di Ccnl sono ancora quelle vecchie, criptiche e causa di contenziosi. Molto più concreto sarebbe (come avvenuto in Friuli Venezia Giulia) individuare cifre certe di valore del trattamento accessorio a seconda della categoria dei dipendenti; oppure, fissare parametri finanziari: percentuali ponderate sulla spesa corrente o sulla spesa di personale, che si riducano magari in presenza di indicatori via via crescenti di poca solidità dei bilanci.
Determinati in modo chiaro i fondi della contrattazione ed avviate le certificazioni della Corte dei conti, si potrebbero a questo punto incrementare di molto i poteri datoriali dei dirigenti ed accrescere finalmente l’autonomia di diritto privato delle amministrazioni, consentendo reali relazioni sindacali e possibilità effettive di misure organizzative mirate e specifiche, abbandonando definitivamente l’idea che le misure organizzative possano essere le stesse per il comune di Roma e per il comunello con 5 dipendenti.
Altro tema relativo alla concretezza: inutile ululare alla luna per i dirigenti che non si rendono disponibili a presiedere le commissioni di gara. Basterebbe coniugare ad efficaci controlli preventivi la realizzazione (per nulla impossibile) di una piattaforma telematica governativa da utilizzare obbligatoriamente per la gestione delle procedure. Il Me.Pa. sottosoglia già, di fatto, è un genere di questa piattaforma; non si capisce cosa osti alla creazione di un’analogo sistema gestionale anche per il sopra soglia.
Ancora, è concretezza abbandonare per sempre il sistema complicatissimo di definizione delle capacità assunzionali. Che si stabilisca quale può essere la percentuale di spesa, su un aggregato definito (la spesa corrente? Una certa categoria di entrate?) attivabile e si lascino le amministrazioni determinare da sé i posti da ricoprire. Altrimenti, a cosa serve il tendenziale abbandono della dotazione organica?
Sempre la concretezza dovrebbe indurre a fissare, una volta e per sempre, un elenco tassativo ed inviolabile di incarichi dirigenziali a contratto in staff agli organi politici: al livello ministeriale il consigliere economico, quello giuridico, quello per i rapporti internazionali, il capo di gabinetto, il portavoce ed il capo della segreteria, nonché i segretario generale (se i regolamenti lo coinvolgano anche nella determinazione delle politiche); al livello locale, il capo della segreteria, il portavoce, il capo di gabinetto ma solo per le regioni (nei comuni non serve, come non serve il direttore generale: il segretario comunale basta e avanza).
Si elimini, quindi, definitivamente ogni spazio allo spoil system, cancellando l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 e l’articolo 110 del d.lgs 267/2000, fonti di continue illegittimità (chiamate dirette senza selezioni o con selezioni fasulle di short list nelle quali sono presenti quelli che già si sa saranno incaricati, mancanza di titoli di studio, durate oltre i limiti, quantità di contratti superiori ai vincoli percentuali) e via così.
La riforma della dirigenza elimini il trattamento economico da risultato, accorpandolo a quello di posizione e, semmai, si introducano indicatori “spie” che riducano il trattamento nel caso di obiettivi complessivi non raggiunti: tempi di liquidazione troppo lunghi, impegni di spesa senza fondi, esecuzione dei contratti non vigilata, durata media dei procedimenti oltre i limiti. Contestualmente, si eliminino per sempre le mere responsabilità formali per mancata pubblicazione di dati insignificanti di nessun interesse, o per forzature alla “diversificazione” dei premi.
Ancora: si rinunci all’ideologia che nella PA l’unica forma di contratto di lavoro ammissibile sia quello a tempo indeterminato: esigenze di flessibilità sono proprie anche del lavoro pubblico e l’eliminazione delle causali per il primo contratto consentirebbe di scongiurare tanti contenziosi.
Un intervento sul tempo determinato imprescindibile e che dovrebbe avere valore di interpretazione autentica retroattiva è chiare che non si cumulano i periodi di lavoro a termine interrotti da procedure concorsuali inframezzate tra un’assunzione e l’altra frutto dell’utile piazzamento in un concorso: in questo caso, non vi può essere “rinnovo” e non ha nessun senso imporre limitazioni che poi impediscano al cittadino di aspirare ad un lavoro pubblico, in pieno contrasto con l’articolo 51 della Costituzione.
Sempre la concretezza dovrebbe indurre ad accelerare definitivamente il passo con la tecnologia on line. Mentre si aspetta il Godot del “pin unico” e dello “Spid”, basterebbero poche norme tecniche per riconoscere la legittimità delle comunicazioni e notifiche anche tramite mail ordinaria, caricando i cittadini dell’onere – non certamente insostenibile – di indicare un domicilio digitale obbligatorio per qualsiasi comunicazione con la PA; del resto, per i concorsi da tempo ormai immemorabile si ammette che le comunicazioni ufficiali avvengano tramite pubblicazione sui siti delle PA. Non mancano, dunque, i mezzi giuridici per indurre alla digitalizzazione. Mancano, forse, i mezzi tecnici: si potrebbero offrire, in modo concreto, allora, sportelli automatizzati diffusi nei comuni per l’accesso alle mail a chi non disponga di pc o smartphone, oltre a corsi formativi sull’utilizzo degli strumenti digitali di comunicazione; si pensi a quanto si potrebbe risparmiare in termini consumo di carta e di tempi procedurali.
Ancora, sarebbe molto concreto abolire definitivamente la “progressione orizzontale” fonte solo di contenzioso o di procedure solo formalmente selettive, che alla fine conducono solo alla valorizzazione dell’anzianità: costa molto meno reintrodurre lo scatto di anzianità, semplicemente vincolandolo alla condizione della capienza del fondo del salario accessorio.
Sempre la concretezza dovrebbe far comprendere la necessità di abolire il capestro rappresentato dall’articolo 23, comma 2, del d.lgs 75/2017, che assoggetta i fondi del salario accessorio al tetto del 2016, finchè non si completi il processo di armonizzazione dei trattamenti economici tra i vari comparti: lo stesso che dire, quindi, di condizionare lo sblocco dei fondi ad un problema, quello della giungla retributiva pubblica, nato nel 1861, insieme col Regno d’Italia e che non sarà mai risolto.
Altri capestri sono contenuti nelle assurde ed ipertrofiche normative finanziarie, spesso connesse alla gestione del personale, che hanno finito per convincere davvero che quando un ente acquisisca un dipendente tramite mobilità non lo assuma (solo perché la mobilità è finanziariamente neutra), oppure prevedano una quantità semplicemente pazzesca di verifiche formali ed adempimenti solo per effettuare un’assunzione; oppure nella normativa sui contratti pubblici o sulle società partecipate. Tutti temi affrontati, purtroppo senza nessuna concretezza e con risultati oggettivamente scarsi, dai governi degli ultimi 15 almeno.
Altre idee potrebbero essere proposte. Ma, un decreto “concretezza” che almeno si ponesse l’obiettivo di centrare questi semplici risultati si rivelerebbe davvero utile ed in controtendenza rispetto ad un quarto di secolo di mortificazione della PA. Sperare forse è troppo. Ma non costa nulla.







2 commenti:

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  2. D'accordo (quasi) su tutto, ma passare dal "controllo collaborativo" della Corte dei conti ad organi di controllo che rispondano solo all’Anac (magari simile ai protocolli di "vigilanza collaborativa" così di moda all'Anac quanto inutili e inefficienti) non mi pare il massimo. Anac ha bisogno della propria soppressione non di altri compiti che ha dimostrato di non essere in grado di svolgere.

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