Il Sole 24 Ore nell’edizione di
sabato 20 febbraio 2018 si è improvvisamente accorto della sempre più ampia
divaricazione che esiste tra la disciplina del lavoro pubblico e quella del
lavoro privato.
Strano che la testata di
Confindustria, pur sostenendo il teorema – per la verità indimostrabile –
secondo il quale l’estensione al pubblico delle regole private aumenta
l’efficienza della PA, non si sia accorta che tutte le riforme di questi 20
anni, fieramente sostenute dalla testata medesima, altro non hanno disposto se
non, appunto, il distanziamento enorme, nei fatti, dei due sistemi, anche se, a
parole, tutti i governi hanno sempre proclamato il contrario.
La “scoperta” che, invece, l’insieme
delle regole di disciplina del lavoro pubblico è fortemente divaricato rispetto
a quella del privato, potrebbe tuttavia ritornare utile. E’ fondamentale che
organismi della stampa specializzata abbandonino l’inseguimento degli slogan e
pongano in essere analisi approfondite e complete della normativa. Perché solo
così è possibile correggere le storture ed i suoi difetti, puntando davvero
alla maggiore efficienza del sistema.
Ora, nell’analisi prodotta dal
quotidiano confindustriale molti punti di discrasia tra lavoro pubblico e
privato sono stati correttamente evidenziati: dalla disciplina della tutela dai
licenziamenti (nel pubblico è stata introdotta una regola speciale che conserva
la reintegra), alle assunzioni, dai demansionamenti agli sgravi sui compensi
per la produttività.
Ne è mancato, però, uno davvero
essenziale: il sostanziale azzeramento dell’autonomia negoziale di diritto
privato.
Non si tratta di poco. La
premessa fondamentale per poter davvero provare ad introdurre nel lavoro
pubblico il buono che c’è nella disciplina lavoristica privata è
necessariamente la valorizzazione proprio dell’autonomia negoziale. Infatti, è
con i contratti che si regolamenta in via principale il lavoro: sia sul piano
della disciplina giuridica, sia, soprattutto, della disciplina economica.
I contratti, nel privato hanno
poteri derogatori molto ampi alla disciplina legislativa; basti pensare
all’accordo col quale l’Acea
ha deciso di disapplicare il Jobs Act a proposito di tutela dai licenziamenti.
Una decisione del genere nel lavoro pubblico sarebbe letteralmente impensabile,
proprio perché il datore pubblico è quasi del tutto privato dell’autonomia
contrattuale.
La normativa speciale relativa al
lavoro pubblico è integralmente finalizzata, infatti, a disporre vincoli e
veti. Il datore pubblico può assumere solo entro specifici tetti di spesa; non
può riconoscere mansioni superiori; non può assumere a tempo determinato a meno
che non dimostri la sussistenza di esigenze di carattere esclusivamente
temporaneo o eccezionale; non può introdurre, con i contratti decentrati,
alcuna deroga ai contratti nazionali collettivi o alla legge.
Sostanzialmente, i contratti
decentrati non servono quasi a nulla. Sono una defatigante e complicatissima procedura
avente praticamente un solo scopo utile: destinare le risorse del fondo ad
utilizzi che, però, nella loro definizione sono predeterminati da leggi e contratti
collettivi.
Da qui, lo scontro inconciliabile
tra sindacati che pensano di poter negoziare con una PA dotata di pieni poteri
datoriali ed una PA priva di autonomia negoziale, spesso, però, portata a fare
concessioni ai sindacali nel tentativo, vano, di creare relazioni “industriali”
distese, rischiando spessissimo di incorrere in responsabilità di vario
livello, soprattutto erariali.
Sì, perché simmetrica alla
sostanziale assenza di autonomia negoziale si accompagna alla disciplina del
rapporto di lavoro pubblico la normativa contabile, presidiata dalla Corte dei
conti. E il quadro da complicato, diviene inestricabile.
Si pensi alla paradossale
situazione dei diritti di rogito dei segretari comunali. La magistratura
contabile si è assestata su una posizione dalla quale non intende smobilitare:
tali diritti non spettano ai segretari di categoria A e B, anche se prestino
servizio in comuni privi di dirigenti. Tale posizione è stata apertamente e
seccamente considerata non corretta da decine e decine di sentenze dei giudici
del lavoro, che hanno puntualmente accolto i ricorsi dei segretari comunali.
Ma, niente. Né i comuni o le province possono, con atto negoziale pienamente
esplicativo di un’autonomia di diritto privato loro negata, riconoscere a cuor
leggero tali compensi; né la
Corte dei conti tiene in minima considerazione le sentenze
dei giudici del lavoro, sul presupposto della notevole differenza dell’oggetto
delle due giurisdizioni. Il giudice del lavoro guarda al diritto individuale
del lavoratore, in una piena esplicazione delle obbligazioni privatistiche tra
datore e lavoratore; la Corte
dei conti guarda al dato, che nella giurisdizione contabile è spesso, per
volontà espressa del legislatore, solo formale, della legalità della gestione
del denaro. Sicchè è possibile che una medesima fattispecie, nel caso
esemplificato, il pagamento dei diritti di rogito, sia considerato un diritto
e, quindi, una spesa doverosa e legittima dei comuni verso i segretari comunali,
mentre per la Corte
dei conti si tratta, al contrario, di una spesa costitutiva di danno.
Non è certamente in questo modo
che si possa garantire l’effettività degli slogan che da anni si leggono in
articoli e trattati sulla PA: modernizzazione, flessibilità, attenzione ai
risultati invece che alle procedure e alle forme, efficienza, efficacia,
gestione con “poteri datoriali”.
Il fenomeno è molto più vasto di
quanto non si creda. Si pensi agli incentivi per le funzioni tecniche negli
appalti. La Corte
dei conti, attraverso la
Sezione delle Autonomie, ha elaborato una lettura invero
piuttosto criticabile, secondo la quale la spesa per questi incentivi, per
quanto sia finanziata da fonti di entrata diverse dal fondo per la
contrattazione decentrata, dovesse, tuttavia, rientrare nel tetto (ecco un vincolo
alla contrattazione…) del 2016, imposto dall’articolo 23, comma 2, del d.lgs
75/2017. Il tutto, sul presupposto, debolissimo sul piano giuridico, che la
potenziale estensione dell’incentivo alla totalità del personale (smentita,
invece, dalla previsione normativa orientata a riconoscere l’incentivo a
dipendenti ben determinati o determinabili) avesse cambiato radicalmente il
sistema incentivante previsto dalla normativa antecedente il nuovo codice dei
contrati.
Questioni di lana caprina, che
però hanno privato il datore pubblico della possibilità di incrementare il
fondo della contrattazione delle risorse provenienti dai quadri economici degli
appalti, così riducendo le disponibilità per tutti i dipendenti. Il tutto,
anche in enti perfettamente rispettosi delle regole di finanza pubblica, del
tetto generale di spesa del personale (media triennio 2011-2013), dei vincoli
alle assunzioni e delle regole di costituzione del fondo del salario
accessorio.
E c’è voluto un intervento
legislativo, che ha introdotto il comma 5-bis nell’articolo 113 del d.lgs
50/2016, per indurre la Corte
dei conti (sezioni Umbria e Friuli) a rivedere la posizione della Sezione
Autonomie. Ma non è detto che quest’ultima accetti la smentita normativa. Un
“ping pong” tra legislatore e magistratura contabile oggettivamente non proprio
in linea con le già citate efficienza, efficacia, modernizzazione, etc, tale da
dimostrare ulteriormente l’assenza assoluta del protagonista: l’autonomia
contrattuale.
Su un altro tema, i compensi per
i legali delle avvocature, la
Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per il
Piemonte, col parere 2 febbraio 2018, n. SRCPIE/20/2018/PAR conferma un
orientamento opposto a quello rigoristico su diritti di rogito e incentivi per
funzioni tecniche. Il parere ritiene che i compensi professionali spettanti ai
legali delle avvocature degli enti locali ritenendo che spettino loro anche
nell’ipotesi di sentenza favorevole all’ente con compensazione delle spese di
lite e che non possano rientrare nei limiti previsti dalla normativa di
contabilità pubblica per la retribuzione accessoria del personale dipendente. Ciò,
perché la natura dei detti compensi, oggettivamente connessi allo svolgimento
di attività professionale non in via occasionale ma quale espressione specifica
della prestazione lavorativa dovuta dagli avvocati pubblici, consente di
considerarli “non quali incentivi,
costituenti voce del trattamento accessorio, come tale finalizzato ad
incrementare la produttività del personale dell’amministrazione bensì come
quota parte, a titolo di onorari, della retribuzione ordinariamente spettante
al legale interno, conseguita in funzione dell’attività professionale svolta
nell’interesse dell’ente sulla base del contratto di lavoro”.
Anche in questo caso, si assiste
ad una privazione dell’autonomia negoziale dell’ente pubblico datore di lavoro
e ad una definizione dirigistica, basata su una valutazione esclusivamente
formale e giuridica della vicenda.
Un passo in avanti vero verso un
modo diverso di gestire il personale pubblico, provando a collegare realmente
salari a risultato e istituti contrattuali, come indennità varie, a finalità
pubbliche, con flessibilità ed attenzione all’efficacia, potrà aversi solo
attenuando l’iper regolamentazione e puntando davvero sull’autonomia negoziale.
E’ sicuramente irrinunciabile
fissare dei tetti generali alla spesa del personale, visto quanto pesa (circa
il 20%) sul totale della spesa pubblica. Ma, fissato un tetto generale,
occorrerebbe consentire agli enti margini di manovra contrattuale ampi, per
decidere l’entità dei fondi e gli istituti di regolazione del rapporto.
Imporli solo dall’alto, con
misure, per altro, generalmente utilizzabili appieno solo in enti di vastissime
dimensioni ma improponibili per quelli più piccoli, crea solo problemi. Così
come il potere attribuito alla magistratura contabile ed ai servizi ispettivi
di sindacare (per altro ex post) sulle scelte di destinazione delle risorse o
di merito delle politiche industriali. Il controllo della Corte dei conti è essenziale,
ma le responsabilità erariali e gli interventi dovrebbero scattare solo quando
sia dimostrato che l’ente abbia speso un centesimo in più del tetto generale
della spesa del personale e questo sia causa dimostrata di violazione dei
vincoli di finanza pubblica.
Qualsiasi decisione di politica
del personale che stia entro le soglie di spesa, dovrebbe essere rimessa a più
ampi poteri contrattuali.
Continuando sulla strada attuale,
i contratti serviranno solo come adempimento burocratico, faticoso, complicato,
oneroso, sostanzialmente improduttivo in termini di organizzazione, risultati
ed efficienza.
Come per ogni sistema, per verificare la razionalità occorre testarne gli assunti fondamentali. Nel caso del lavoro pubblico le fondamenta rivelano immediatamente una evidente aporia. Il dirigente pubblico "privatizzato" (che dovrebbe essere la pietra angolare dell’intero sistema), come osserva insigne dottrina, rappresenta un classico "Giano bifronte", in quanto egli è "nel contempo dipendente e datore di lavoro, con tutte le tensioni che inevitabilmente derivano da detta duplice configurazione". A partire da questa elementare constatazione bisognerebbe partire per fare pulizia di tanti slogan e tanta retorica sulla autonomia privata della PA. Occorre semplicemente prendere atto che la differenza tra lavoro pubblico e lavoro privato esiste ed è ineliminabile e che il primo necessita di una sua disciplina autonoma e specifica che non scimmiotti il secondo, creando una forma, bastarda totalmente inefficiente e paralizzante.
RispondiEliminaL’articolo citato del Sole 24 Ore riflette perfettamente (e anche un po’ noiosamente) la tradizionale filosofia del giornale confindustriale, tesa a riproporre lo stanco sterotipo del dipendente pubblico depositario di consolidati ed ingiustificati privilegi rispetto ai lavoratori del settore privato. Il pezzo firmato da Claudio Tucci si caratterizza infatti non tanto per l’accuratezza della disamina degli istituti divaricanti fra lavoro pubblico e privato, quanto per la sua chirurgica omissività. Quello che non fa comodo alla tesi precocostituita (perché la smentirebbe in modo clamoroso) viene ignorato. Eppure gli esempi di divaricazione “a perdere” per il settore pubblico nei confronti del privato non mancherebbero, se solo si avesse voglia di cercarli. Ma sulla correttezza e sullo scrupolo professionale dei collaboratori del Sole 24 Ore non è lecito nutrire dubbi, per cui mi attendo a breve la pubblicazione di ulteriori approfondimenti che possano adeguatamente ragguagliare i lettori del giornale di Confindustria sulle crescenti differenze pubblico-privato in relazione a tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, tra cui mi permetto di segnalare – ma solo per avviare il discorso, perché la lista sarebbe molto più lunga - i seguenti:
RispondiElimina- trattamento fiscale della previdenza integrativa a seguito dell’adesione ai fondi negoziali di categoria;
- sistemi di partecipazione attiva alla gestione aziendale (anche con riferimento all’analisi dei bilanci e delle politiche di investimento e sviluppo, nonché delle scelte in materia di esternalizzazioni di servizi e di valutazione ex-post della loro efficienza ed efficacia);
- politiche delle risorse umane in termini di aggiornamento e formazione professionale continua;
- sistemi e strutture di copertura sanitaria e/o welfare integrativi;
- snellezza e funzionalità delle regole per distribuire in modo selettivo e differenziato le quote di salario accessorio legate alla produttività (al riguardo, sarei personalmente ansioso di conoscere il parere del sig. Tucci sui contenuti delle Linee Guida emanate dalla Funzione Pubblica in materia di Piano della performance e di Sistema di misurazione e valutazione della performance, nonché una serena valutazione sulle differenze in uso, per i medesimi fini, nelle aziende del settore privato);
- applicazione integrale delle previsioni contenute nella legge 92/2012 (presupposto per l’estensione dell’abbandono dell’art. 18), ivi inclusa la sezione dedicata agli accordi in materia di prepensionamenti;
- partecipazione della fiscalità generale alle politiche aziendali di ristrutturazione degli organici;
- ecc.
Quanto agli effetti della detassazione dei premi di risultato e del welfare aziendale sulla produttività, colpisce l’affermazione lapidaria secondo cui nel privato “sta dando primi risultati positivi”. Cioè, sembra di capire dalle parole del sig. Tucci che egli disponga di dati certi ed inoppugnabili che permettano di mettere in diretta relazione la detassazione dei premi e del welfare, finanziata dai contribuenti (compresi i dipendenti pubblici, che tuttavia non possono beneficiarne), con un reale e misurabile incremento di produttività, redditività e competitività delle aziende in cui essa viene applicata e a cui essa dovrebbe essere correlata. Bene, come dipendente pubblico ne prendo atto con sollievo. Almeno posso dire che i soldi delle mie tasse sono serviti a qualcosa. Se poi gli esperti del giornale confindustriale volessero anche rendere pubblicamente noti i dati (e i metodi di rilevazione scientifica adottati) di tale indagine, la mia soddisfazione sarebbe completa.