Giungerà prima o poi un bel momento nel quale gli analisti e
commentatori dei media generalisti saranno in grado di intervenire
senza slogan e conoscendo bene ciò di cui discettano. In particolare
in materia di centri per l’impiego e servizi per il lavoro.
Su Italia Oggi del 25 ottobre 2018 è pubblicato l’archetipo del
commento molto salace sul tema dell’efficienza dei centri per
l’impiego, intriso, tuttavia, di dati erronei, slogan gratuiti ed
omissioni, tali da rendere al lettore un’idea totalmente falsata.
Eppure, scopo dell’informazione è, appunto, informare, dare
notizie ed elementi reali e concreti al lettore, perché conosca
elementi che altrimenti non sarebbe in grado di conoscere.
L’articolo è a firma di Sergio Luciano col titolo “Con gli
uffici di collocamento non si va lontano di sicuro”. Dato il
tema, subito lo svolgimento: “un flop totale di questo
sarchiapone burocratico che avrebbe dovuto sostituire i vecchi
uffici, e che risponde appunto al nome di «Centro per l'impiego».
In Italia sono ben 556, cinque per provincia, uno ogni centomila
abitanti. Occupano la bellezza di 8 mila dipendenti all'anno e
costano nell'insieme lo sproposito di 600 milioni di euro, ossia 75
mila ogni dipendete: il che vuol dire che sono uno
stipendificio, tutto il loro costo se ne va in stipendi e uffici”.
Cominciamo con pazienza a verificare i dati. I Centri per l’impiego
censiti
dall’Anpal sono 552 e non 556. Errore veniale, certo.
Costano, secondo l’autore, lo “sproposito” di 600 milioni di
euro. Nella realtà questo dato è la spesa aggregata per l’insieme
delle politiche attive per il lavoro, composto di costi della
gestione e costi per le politiche, cioè le azioni di aiuto alla
ricerca di lavoro, come ad esempio l’Assegno di ricollocazione.
Quello che per l’autore dell’articolo è uno “sproposito”, in
Germania ammonta ad oltre 9 miliardi, 15 volte di più della spesa
italiana. A meno di non considerare i tedeschi degli sperperatori di
denaro pubblico o dei fessi, se in una Nazione con la quale l’Italia
intende competere la spesa complessiva per le politiche del lavoro è
superiore di 15 volte, è un po’ arduo definire i 600 milioni spesi
in Italia uno “sproposito”. A meno che non si intenda uno
“sproposito” di spesa eccessivamente bassa. Che è esattamente
una delle cause dell’inefficienza dei centri per l’impiego, ai
quali si destinano risorse infime, per poi, però, bacchettarli.
Proseguiamo. I dipendenti sono “la bellezza” di circa 8.000. Se
l’autore dell’articolo si fosse disturbato a guardare quanti sono
sempre in Germania, avrebbe scoperto che lì, dove le politiche del
lavoro sono una cosa seria ed un investimento, i dipendenti sono
oltre 100 mila: 12 volte tanto. Dunque, “la bellezza” di che?
Glissiamo sulla media di spesa di 75.000 euro per dipendente, perché
probabilmente l’autore dell’articolo ha inteso proporre il costo
complessivo delle politiche del lavoro per singolo dipendente. E’
opportuno chiarire che la spesa per il personale è di circa 320
milioni di euro (come specifica l’Anpal), con un costo medio lordo,
comprensivo di oneri riflessi, di circa 40.000 euro annui per
dipendente, in linea con le medie del costo dei dipendenti pubblici.
Pertanto, lo “stipendificio” altro non è se non uno slogan,
certamente tanto ad effetto quanto anche poco rispettoso
dell’attività lavorativa di alcune migliaia di persone.
Perchè abbiamo confrontato i dati esposti dall’autore
dell’articolo con quelli della Germania? Perchè l’articolo li ha
sapientemente omessi, nel momento in cui parlava di costi e di numero
di dipendenti addetti. Però, la Germania spunta improvvisamente
fuori, quando l’articolo riporta i dati sull’efficienza:
“attraverso questa rete elefantiaca di costi pubblici, appena il
3% dei disoccupati riesce a trovare un impiego. Niente rispetto ai
numeri di Francia e Germania dove questa percentuale di risultato
supera il 20%”.
Abbiamo visto che la Germania spende per politiche del lavoro e
dipendenti utilizzati decine di volte di più dell’Italia. Non
dovrebbe sorprendere se il livello di efficacia sia quasi
simmetricamente inferiore, anche se, naturalmente, non debbono essere
risparmiate critiche, sperando che siano però finalizzate al
superamento del problema e non fine a se stesse.
L’articolo prosegue osservando che “I centri avrebbero dovuto
servire, nel mondo utópico disegnato dalla riforma Renzi, a
incrociare domanda e offerta, ma sono mancati i decreti attuativi. E
i centri sono e restano del tutto appesi, sottoutilizzati”. Più
che mancare i decreti attuativi, è mancata, si direbbe, la riforma
della Costituzione che avrebbe dovuto completare il disegno del Jobs
Act, incautamente realizzato dando per scontato che la riforma della
Carta sarebbe entrata in vigore. In ogni caso, non capiamo: ma i Cpi
servono? Se non servono, la critica è, quindi, per il loro
“sottoutilizzo”? Ma, sottoutilizzo rispetto a cosa, se 600.000 di
spesa viene considerata insostenibile, mentre in Germania la spesa
per politiche attive è 15 volte superiore? Che connessione c’è
tra le affermazioni dell’articolo?
Conclusione: “Insomma: «Un disastro in un settore
complicatissimo», sottolinea Del Conte, «tanto che l'omologa
struttura pubblica tedesca ha impiegato cinque anni per andare a
regime». Chiaro? Su una cosa che i todeschi fanno in cinque anni,
quanto tempo pretendiamo di stanziare noi italiani? Almeno il doppio.
Roba che perfino Di Maio sarà diventato vecchio”.
Ritorna la Germania nella
chiosa. Che è condivisibile, nella parte in cui realisticamente
sottolinea come non possano bastare pochi mesi per recuperare il gap
con la Germania. Ma, si pone una domanda: l’obiettivo qual è? Le
risposte sono due. Una è quella del titolo: “non si va lontano”,
perché l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare (cit.). Può
anche darsi che lasciare le cose che non funzionano come stanno sia
un risultato cui tendere. L’altra risposta è cercare di
avvicinarsi a modelli che funzionano. Se questo è l’intento,
occorre accettare che comunque prima o poi in qualche modo si deve
pur partire.
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