La manovra di bilancio del Governo prevede un deficit al 2,4%. Una
parte del partito che ha avuto la maggioranza nella scorsa
legislatura, prevede una “contromanovra”, col deficit al 2,1% e
qualche modifica alla redistribuzione delle risorse in deficit.
Sembra sia finita la stagione della propaganda del finanziamento
della spesa attraverso la “lotta agli spreki”.
Per anni, si può ormai dire tutte le forze (perché sostanzialmente
tutte sono state chiamate alla guida delle istituzioni) hanno
sottolineato con fermezza che sarebbe stato semplice risanare i conti
e rilanciare la crescita grazie alla lotta “lotta agli spreki”,
per mezzo della quale si sarebbero sempre e puntualmente reperite le
“coperture”. E gli “spreki” sono sempre stati quantificati
con cifre mirabolanti: decine e decine di miliardi.
Adesso, si scopre che evidentemente nei bilanci pubblici il capitolo
denominato “spreki” non esiste. E si certifica che un bilancio
caratterizzato da una spesa pubblica sostanzialmente bassa per il
livello dell’economia paragonato a quello dei Paesi competitori
molto difficilmente si presta ai “tagli agli spreki” come
strategia sia di risanamento, sia redistributiva.
La spesa pubblica non è alta in assoluto, ma incide moltissimo
perché rappresenta la metà ormai del Pil e quindi non riesce ad
essere fattore di crescita.
Correggere la spesa è certo necessario, ma soprattutto occorrerebbe
renderla più efficiente. Basti pensare al panico nel quale si
trovano in questi giorni le stazioni appaltanti: dal 18 ottobre sono
sostanzialmente obbligate a gestire gli appalti pubblici mediante
piattaforme telematiche per garantire in tal modo lo scambio di
documenti ed informazioni. Ovviamente, anche se vi sono stati oltre 2
anni di tempo per allestire i sistemi, non v’è traccia di
piattaforme pubbliche capaci di garantire l’obiettivo previsto dal
codice dei contratti. Nessuno ha investito nulla, a conferma del
drammatico ritardo che politiche economiche, di investimento e di
organizzazione della PA svolte da tutti i governi hanno nel creare
piattaforme pubbliche di conservazione, condivisione e scambio dati,
per modernizzare i rapporti tra pubblica amministrazione e aziende.
Mentre si urlava della necessità di lottare contro gli “spreki”,
ci si ostinava in politiche redistributive di risorse di nessuna
efficacia, contemporaneamente alla presentazione al popolo di qualche
“capro espiatorio” emblema di una finta lotta agli “spreki”,
spacciata per qualcosa di utile e concreto: come la sciagurata e mai
realizzata “abolizione” delle province (che non ha prodotto un
centesimo di risparmio, ma ha devastato una componente essenziale
delle istituzioni), lo smantellamento della Croce Rossa, le “auto
blu”, i piloni della luce.
Adesso, gli “spreki” da eliminare non sembrano essere più né un
problema, né una sicura fonte di reperimento di risorse per la
“crescita”. D’altra parte, pensare di crescere e risanare un
bilancio continuando a spendere più di quanto si introiti è in ogni
caso molto più semplice e veloce della lotta a qualsiasi “spreko”
o di un piano per l’efficienza delle risorse effettivamente
disponibili. Quindi, a ben pensarci, elaborare una difficile politica
economica tendente all’efficienza e alla prudenza sarebbe, questo
sì, uno “spreko”. L’unico che viene effettivamente tagliato.
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