Su I Blog del Fatto del 26 ottobre
2010 Francesco Pastore e Francesco Giubileo hanno pubblicato l’articolo
intitolato “Centri per l’impiego, sarà
rivoluzione. Se il sistema è tutto digitale, potenziarli non servirà”.
Si tratta di un’agiografia
ottimistica del piano di ristrutturazione dei servizi per il lavoro proposto al
Ministro del lavoro dal Prof. Mimmo Parisi e basato sull’esperienza del
Mississippi, secondo la quale visto che tutto l’iter di gestione del reddito di
cittadinanza sarà digitalizzato, a questo punto non servirà maggior personale
nei centri per l’impiego e sarà, anzi, possibile ridurli dagli attuali 532, ad
un centinaio di hub ove si erogheranno servizi “specialistici”.
La teoria, lo si afferma subito,
è suggestiva ed affascinante, ma non convince. Non è la prima volta che gli Autori
esprimono la ferma convinzione
che con l’informatica si risolva tutto. E non è, questa, la prima volta che
chi scrive sommessamente
evidenzia quali sono i problemi connessi ad una fede assoluta da
positivismo ottocentesco sulle risorse della tecnologia sulle magiche proprietà
dei siti e delle app. Per quanto sia brutto autocitarsi, non si può che
riprendere una considerazione dell’articolo di critica linkato poco prima: “Gli autori ricordano che in Italia operano
nei centri per l’impiego 8.000 dipendenti (in realtà, per effetto della riforma
Delrio non sono più di 6.000, tra pensionamenti anticipati e trasferimenti
vari), mentre in Germania 80.000. Di fronte a divari organizzativi e finanziari
di questa natura, non può in alcun modo convincere l’affermazione degli Autori,
secondo la quale “l’innovazione tecnologica permette oggi di sviluppare i
progetti anche con solo 8mila dipendenti e non 80mila come in Germania”.
Giustissimo puntare sulla tecnologia e sulle competenze dei dipendenti. Ma è
fin troppo semplice osservare che in Germania sicuramente non sono indietro
nell’innovazione tecnologica e sanno fare di conto benissimo: se hanno un
similare parco di dipendenti, 10 volte e più quello italiano, c’è una ragione”.
Lo confermiamo. Lo sviluppo di
piattaforme tecnologiche per la gestione dei flussi procedurali è fondamentale,
come anche l’aggancio delle banche dati di centri per l’impiego, Inps, anagrafi
comunali, anagrafi tributarie e banche dati (sempre promesse e mai realizzate)
dei benefici consessi a vario titolo alle persone (dai sostegni alla disoccupazione
alle misure di contrasto al disagio sociale). Si tratta di strumenti conoscitivi
per la programmazione e l’erogazione di servizi concreti, assolutamente
indispensabili.
Ma, pensare, come suggerisce il
titolo dell’articolo, ottima sua sintesi, che non occorra potenziare i servizi
per il lavoro “se tutto è digitale”, per un verso è scontato, per altro verso
irrealistico.
Perché sarebbe scontato? E’
ovvio: se davvero tutta la gestione dei servizi per il lavoro potesse essere
gestita da server, router, memorie, data base, applicativi web, software, app,
pc e telefonini, non servirebbe nessuna funzione di intermediazione, nemmeno
privata, per la gestione del mercato. Ci penserebbero gli algoritmi di calcolo
e le app a creare automaticamente le proposte di lavoro e l’incontro domanda/offerta.
Ma, la realtà ci propone, per
ora almeno (in futuro non lo si può escludere che tutto sia governato da software),
qualcosa di piuttosto diverso da una grande Matrix che governa il mercato del
lavoro. Di piattaforme e collegamenti e banche dati, come rilevato sopra, c’è
un gran bisogno.
Ritenere davvero possibile che “tutto”
sia “digitale” è, però, irrealistico. Meglio precisare: non è irrealistico
utilizzare al meglio le risorse digitali. E’
irrealistico pretendere che “tutto” lo sia.
E’ il caso di spiegare il perché.
Riportiamo, quindi, alcuni passaggi dell’articolo degli autori: “cambia totalmente la logica del sistema,
poiché permette al livello nazionale di veicolare completamente online i
servizi pubblici per l’impiego. Tutto passerà attraverso la piattaforma
disponibile anche per smartphone”; “Attraverso
un protocollo con il Miur, si possono anche caricare i curricula di tutti gli
studenti che completano scuola/università. Questo significa che
l’intermediazione virtuale riguarderà la maggioranza dei destinatari del
Reddito di cittadinanza e anche dei destinatari degli altri ammortizzatori
sociali, che tramite il portale potranno cercare lavoro”.
Va benissimo la logica del
sistema, che è quella di puntare su strumenti on line di caricamento delle informazioni
e di gestione dei dati.
Non si tiene, conto, però,
purtroppo, di qualche “dettaglio” che, invece, non può e non deve essere
trascurato.
Il progetto di Parisi non sembra
focalizzare nel modo dovuto il target dei destinatari del reddito di
cittadinanza, che si fa coincidere grosso modo con le persone in stato di
povertà. Ebbene, con la sperimentazione del Rei i comuni, l’Inps ed i centri
per l’impiego (che per la verità da sempre avevano avuto contatto con questo
tipo di utenza) hanno potuto toccare con mano una realtà evidente a tutti: i
potenziali destinatari soffrono di condizioni di povertà spesso derivanti da
condizioni di esclusione sociale rilevanti e di scarsa qualificazione
culturale, oltre che lavorativa. Si tratta di utenti con rilevanti problemi di
lingua e, anche se di lingua madre, di comprensione del testo. Soprattutto, per
quanto molti di essi dispongano di smartphone, non hanno conoscenze operative
di base sufficienti per saper gestire autonomamente processi di contatto
tramite app, meno che mai se interamente digitali. Gli operatori sanno bene che
agli sportelli giungono utenti privi anche della mail personale: il sistema
delle prenotazioni degli appuntamenti per i servizi, già presente nelle realtà
più avanzate, molte volte fa cilecca perché la veicolazione delle prenotazioni
viaggia verso caselle di posta elettronica dei patronati e non personali. In
quanto alle comunicazioni tramite Sms, parte non trascurabile di questa utenza
continua a cambiare Sim e numeri ed il contatto continuativo non è per nulla
garantito.
Insomma, tra le funzioni da
erogare, un’attenta analisi dell’utenza, richiederebbe orientamento e
formazione proprio all’utilizzo dei sistemi di comunicazione on line, sui quali
il target del reddito di cittadinanza appare piuttosto in ritardo. E non
consideriamo in generale i rilevanti problemi di digital divide che attanagliano il Paese.
Lo stesso sistema lineare
immaginato dal Parisi richiede imprescindibili fasi con intervento “umano”, delle
quali non sembra che nessuno stia tenendo conto.
Leggiamo, sempre dal Fatto on
line, la
sintesi procedurale del piano Parisi: “Già
ad aprile, il cittadino interessato potrà compilare la domanda on line sul
portale del Reddito di cittadinanza presso un Centro per l’impiego, un internet
point o direttamente sul suo smartphone. Si potranno caricare i documenti per
la verifica dell’idoneità e si riceverà un sms che conferma che la domanda è
andata a buon fine. Due settimane dopo, un altro sms informerà il cittadino che
ha appuntamento presso un centro impiego per verificare i requisiti di
idoneità. L’istruttore della pratica, che si occupa della verifica dei
requisiti di idoneità, esaminerà la domanda, chiarirà ogni aspetto”.
Dunque:
1)
vi sarà una domanda di reddito di cittadinanza;
2)
vi sarà un appuntamento tra richiedente e un “addetto”;
3)
vi sarà un’ “istruttoria” sulla domanda, condotta
da un “istruttore”, per la “verifica dei requisiti”.
Aggiungiamo quel che manca in
questa sintesi: occorrerà un provvedimento di ammissione o di rigetto della
domanda. Ma, in questo secondo caso, potrà seguire un necessario sistema per
garantire un ricorso, con altra istruttoria ed altri provvedimenti.
Insomma, il piano fa apparire che
tutto sia digitalizzabile, ma nella realtà come si nota emergono aspetti di gestione
“burocratica”: la domanda, l’istruttoria, la valutazione.
Adempimenti in realtà non eliminabili
e che richiedono (almeno, ancora ad oggi) un intervento umano.
C’è, poi, il problema della
condizionalità. Sicuramente i sistemi possono veicolare le proposte di lavoro,
formazione e lavori socialmente utili (sempre a patto che il destinatario del
reddito di cittadinanza disponga dello smartphone e delle capacità di usare le
risorse telematiche). Ma, occorre una formalizzazione dell’accettazione o, in
particolare, del rifiuto. Perché da questo, in particolare, se ingiustificato,
scatta la procedura per la decadenza, che ovviamente richiede un avviso, la
possibilità di controdedurre presentando giustificazioni, l’adozione del
provvedimento finale, la possibilità di ulteriori ricorsi. Deve essere evidenziata
e giustificata l’accettazione od il rifiuto delle offerte, altrimenti il
sistema salta, perché il condizionamento della percezione del reddito all’accettazione
delle offerte di lavoro, formazione e lavori socialmente utili è requisito
indispensabile.
Ma, questi adempimenti non
possono farli solo le macchine, né sono sufficienti cartonati riproducenti
dipendenti fotografati. Occorrono persone.
Quante? Uno dei difetti dell’attuale
livello di programmazione della riforma dei Cpi è che nessuno ha ancora dato un’idea
chiara. E’ sicuramente da escludere che bastino i nemmeno 8.000 dipendenti
attuali, largamente insufficienti già oggi per le funzioni dei quali i Cpi si
occupano (e che restano: accoglienza, informazione, acquisizione delle dichiarazioni
di immediata disponibilità, stipulazione del patto di servizio, presidio del
patto di servizio, orientamento di base, orientamento specialistico, proposte
di politiche attive come formazione, tirocini, misure finanziate; e ancora le molteplici
funzioni per il collocamento dei disabili, il contrasto all’evasione
scolastica, le migliaia e migliaia di certificazioni dei rapporti, le risposte
alle migliaia e migliaia richieste di accesso, solo per citare le principali).
L’idea degli hub? Può anch’essa
essere ottima. Ma, molti dei milioni di utenti potenziali destinatari del reddito
di cittadinanza non dispongono di mezzi di trasporto privato e spesso nemmeno
delle risorse per il mezzo di trasporto pubblico. Chi lavora nei centri per l’impiego
e segue progetti di aiuto alle categorie particolarmente svantaggiate lo sa bene.
Gli Autori Giubileo e Pastore
chiosano il loro articolo così: “ai
critici della riforma suggeriamo un approccio ottimistico verso il modello
proposto. Molti dei problemi avanzati sono emersi anche negli Stati Uniti e
sono stati facilmente risolti. D’altronde se una pubblica amministrazione rema
contro, ti dirà sempre due cose: il progetto c’è già o/e stiamo cercando di
farlo; oppure il tuo progetto non si può fare perché ci sono dei problemi. Ecco
questo è il principale problema di attuazione di questo rivoluzionario progetto
di riforma dei centri per l’impiego: l’opposizione dei burocrati che sono
conservatori per natura”.
Chi scrive non ha dubbi che sarà
tacciato di rientrare nell’alveo di quegli appartenenti alla “pubblica amministrazione
che rema contro”.
Non importa. Sono state proposte
osservazioni non finalizzate a critiche preconcette alla riforma, ma allo
scopo, invece, di tenere conto di elementi progettuali che appaiono trascurati,
perché la riforma possa davvero funzionare. E il potenziamento dei centri per l’impiego
sembra proprio non possa mancare, sebbene non sia chiara la misura e anche il
costo (non si sa nemmeno se il miliardo di euro previsto dal Governo – che prima
erano due, poi 1,5 – sia una tantum o continuativo).
Infatti, si è dell’idea di chi,
sempre sul tema dell’efficienza dei Centri per l’impiego, ha scritto in un
recente passato: “Il software non può
certo sostituire il ruolo significativo di esperti del settore e la loro
conoscenza o esperienza delle politiche attive del lavoro, piuttosto è uno
strumento da mettere a loro disposizione, in modo da renderne più efficiente
l’operato, con molteplici vantaggi per l’attore pubblico”. Per completezza
di informazione, gli Autori di quanto citato poco prima sono Francesco Pastore
e Francesco Giubileo, in Lavoce.info: “Un
call center per trovare lavoro”.
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