mercoledì 14 novembre 2018

Flessibilità oraria, disciplina più rigorosa




Da sempre la gestione della flessibilità oraria costituisce un cruccio ed un problema gestionale per le amministrazioni, perché non viene colta debitamente l’effettiva portata dell’istituto.
Esso viene spesso frainteso come modo per modificare il debito orario, così da poter recuperare un mese successivo ammanchi orari del mese precedente, oppure accumulare progressivamente orario in più, per poi recuperarlo.
Le cose non stanno così ed il Ccnl 21.5.2018 contribuisce finalmente a fare chiarezza sull’applicazione corretta della flessibilità oraria.
L’articolo 27, comma 1, dà la definizione dell’istituto: “Nel quadro delle modalità dirette a conseguire una maggiore conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare, l’orario flessibile giornaliero consiste nell’individuazione di fasce temporali di flessibilità in entrata ed in uscita. Compatibilmente con le esigenze di servizio, il dipendente può avvalersi di entrambe le facoltà nell’ambito della medesima giornata”.
Comprendiamo che si tratta di una misura di welfare aziendale ante litteram: un modo ormai da tempo entrato nella prassi dei datori per non imporre un rigido orario di ingresso ed uscita, consentendone uno, invece, appunto flessibile, per permettere una migliore conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro.
Ponendo, dunque, che un orario di lavoro sia organizzato su cinque mattine settimanali da 6 ore e due rientri pomeridiani da 3, si ponga ancora che nella giornata l’ingresso di default sia alle 8 e l’uscita alle 14, con flessibilità di mezz’ora sia in entrata sia in uscita.
Il dipendente è tenuto a svolgere 6 ore di lavoro e potrebbe entrare alle 7,30 ed uscire alle 13,30, oppure entrare alle 8,30 ed uscire alle 14,30; ma potrebbe anche entrare alle 7,30 ed uscire alle 14 e in questo caso prestare lavoro per 6 ore e 30 minuti; oppure entrare alle 8,30 ed uscire alle 14 e quindi prestare lavoro per 5 ore e 30 minuti. E così via con le varie combinazioni possibili.
La cosa fondamentale è, però, che il dipendente assicuri, potendo variare entrate ed uscite nelle fasce consentite quotidianamente, il rispetto del debito orario, in ragione mensile.
La comprova del limite mensile entro il quale far quadrare i conti è data dal comma 3 dell’articolo 27: “L’eventuale debito orario derivante dall’applicazione del comma 1, deve essere recuperato nell’ambito del mese di maturazione dello stesso, secondo le modalità e i tempi concordati con il dirigente”.
Poiché il debito orario mensile è di 144 ore, questo significa che la flessibilità:
1)      non consente (salvo limitatissime circostanze) di effettuare meno di 144 ore;
2)      non consente di effettuare più di 144 ore;
3)      semplicemente consente di distribuire le 144 ore in modo non lineare, secondo una linea retta, ma ondulato o frastagliato:


Sia seguendo la linea retta, sia seguendo la linea più arzigogolata consentita dalla flessibilità, alla fine del mese il risultato deve portare alla somma di 144 ore.
L’articolo 7, comma 4, lettera p), del Ccnl 21.5.2018 rimette alla relazione della contrattazione “i criteri per l’individuazione di fasce temporali di flessibilità oraria in entrata e in uscita, al fine di conseguire una maggiore conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare”.
Il successivo articolo 8, comma 4, chiarisce che tale materia rientra tra quelle da trattare, fermi restando i principi dell’autonomia negoziale e quelli di comportamento indicati dall’articolo 10 del Ccnl 21.5.2018, entro il termine di trenta giorni dall’inizio delle trattative, eventualmente prorogabili fino ad un massimo di ulteriori trenta giorni; qualora entro tali scadenze non si sia raggiunto l’accordo, le parti riassumono le rispettive prerogative e libertà di iniziativa e decisione. Non vi è obbligo, quindi, a stipulare, ma a contrattare.
Chiarito il quadro di regolazione dell’istituto è allora possibile evidenziare soluzioni ad alcune delle principali domande operative, anche con l’aiuto di pareri espressi in proposito dall’Aran.
La prima domanda è se per il dipendente sia possibile espletare meno del debito orario mensile di 144 ore e spostare il debito orario il mese successivo. Ad esempio, quindi, svolgere 142 nel mese di febbraio e di conseguenza 146 nel mese di marzo.
L’Aran nel recentissimo parere CFL 35 ritiene quanto segue: “Innanzitutto, giova precisare che il mese considerato dalla clausola contrattuale è il mese di calendario.
In ordine, poi, al vincolo per cui l’eventuale debito orario derivante dalla fruizione da parte del lavoratore di spazi di flessibilità oraria, in entrata o in uscita, deve essere recuperato nel mese di maturazione, l’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che esso non abbia una portata assoluta, ma, possa, entro certi limiti, essere derogato.
A tal fine, viene, innanzitutto, in considerazione la fattispecie dell’eventuale sopraggiungere di un impedimento, oggettivo ed imprevisto, che non consenta al lavoratore il recupero orario entro il mese di maturazione del debito orario.
Ad esempio, una malattia insorta che si protragga per una durata tale nel mese da non consentire la prestazione dovuta entro il termine prestabilito.
Oppure, anche l’ipotesi, ugualmente avente carattere di eccezionalità, della fruizione della flessibilità oraria proprio nell’ultimo giorno del mese.
In questi casi, si ritiene possibile lo slittamento del termine al mese successivo a quello di maturazione”.
Non si fa che applicare il semplicissimo principio della diligenza nell’esecuzione della prestazione contrattuale. Il lavoratore è obbligato ad effettuare 144 ore e, però, può svolgerle in modo flessibile. E’ suo obbligo controllare il cumulo progressivo delle ore lavorate nel mese, così da adempiere all’obbligazione delle 144 ore. Si applicano i principi dell’articolo 1218 del codice civile, ai sensi del quale “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. In questo caso, la prestazione obbligatoria è l’attività lavorativa di 144 ore, ma se si determina l’impossibilità per causa non imputabile ed imprevista, appunto la malattia oppure esigenze proprie che impongano di effettuare l’ultimo giorno del mese una flessibilità “negativa”, il datore di lavoro ha modo di non addebitare al lavoratore l’inadempimento e, quindi di non far scattare il rimedio avverso tale inadempimento. Che, occorre ricordarlo, non è un risarcimento del danno, ma l’applicazione di una sanzione disciplinare. Il Ccnl 21.5.2018 ha confermato che è fattispecie sanzionabile disciplinarmente la mancata osservanza appunto dell’orario di lavoro, fattispecie che potenzialmente si determina appunto se il lavoratore non rispetta il vincolo del debito orario.
Condivisibilmente, l’Aran ritiene che le ipotesi di deroga all’obbligo di rispettare il debito orario non possano che essere molto ristrette. Il parere Cfl 35, infatti, aggiunge: “la scelta contrattuale, per cui il recupero del debito orario deve avvenire entro il mese di maturazione del debito stesso, è finalizzata a salvaguardare le esigenze organizzative e gestionali degli enti a fronte della fruizione da parte del lavoratore di forme di flessibilità oraria, che si sono comunque tradotte in una ridotta prestazione lavorativa nel corso del mese.
Proprio per tale specifica finalizzazione, si ritiene che l’ente possa decidere di concordare con il dipendente modalità di recupero del debito orario anche nel mese successivo a quello di maturazione, ove una tale opzione corrisponda ad una effettiva necessità di soddisfare future, specifiche e precise esigenze organizzative ed operative dell’ente.
Occorre, tuttavia, sempre una certa prudenza nei comportamenti derogatori del datore di lavoro pubblico”.
Quindi, non può essere né una regola, né un comportamento costante svolgere meno ore del debito mensile un mese, per poi compensarle il mese successivo, anche perché si corre il rischio di innescare un meccanismo perverso per effetto del quale le ore in meno non si compensano più, determinandosi così una modifica di fatto dell’orario di lavoro.
La seconda domanda è se un dipendente che avvalendosi della flessibilità accumuli minuti ed ore in più maturi per ciò stesso il diritto al recupero.
Su questo aspetto l’Aran si è pronunciata con l’orientamento 1870, che risulta in tutto convincente e condivisibile e che si riporta nelle parti essenziali: “Il D.Lgs.n.66/2003, ai fini della verifica e del rispetto delle prescrizioni legali e contrattuali in materia, ha introdotto la suddistinzione dell’orario di lavoro nelle due sole categorie dell’orario di lavoro ordinario e straordinario.
In proposito, poi, si deve anche ricordare che, sulla base della disciplina contrattuale (art.38, comma 2, del CCNL del 14.9.2000) le prestazioni di lavoro straordinario devono essere sempre preventivamente autorizzate dal dirigente, ovviamente anche nella misura, al fine di consentire un effettivo rispetto dei vincoli quantitativi e di spesa in materia.
Senza tale autorizzazione nessuna prestazione ulteriore, rispetto all’orario di lavoro ordinario, può essere considerata come prestazione di lavoro straordinario, in quanto manca la finalizzazione al soddisfacimento di esigenze organizzative dell’ente che deriva appunto dall’autorizzazione.
Pertanto, se il dipendente è stato autorizzato, ad esempio, per due ore di lavoro straordinario, ulteriori prestazioni (anche di pochi minuti) risultanti dal sistema di rilevazione dell’orario di lavoro, non possono essere in alcun modo conteggiate e compensate a tale titolo.
Se non possono essere considerate prestazioni di lavoro straordinario, tali periodi non solo non possono essere remunerate, ma, evidentemente, non possono neppure dare luogo a riposi compensativi (si tratta di una modalità di remunerazione alternativa al pagamento monetario)”.
La risposta è chiara: la flessibilità oraria non consente di accumulare periodi di lavoro ulteriori rispetto al debito orario mensile (e anche giornaliero) dovuto. L’attività lavorativa in più oltre all’orario ordinario svolta per flessibilità “positiva” un certo giorno del mese, deve essere compensata da una minore attività lavorativa in un altro giorno del mese. Non può essere “conservata” ed accumulata progressivamente per dare corpo ad un “monte ore” da recuperare con riposi compensativi, per la semplice ragione che la flessibilità oraria è orario “ordinario” e non “straordinario”; risulta, quindi, priva della necessaria autorizzazione e, quindi, del titolo per il pagamento o del riposo compensativo che come mette in rilievo l’Aran altro non è se non una remunerazione alternativa al pagamento in termini monetari.
Il parere CFL 35 ritorna sul punto confermando gli assunti già evidenziati: “si esprimono perplessità sulla stessa ammissibilità di spazi di flessibilità positiva non collegati al recupero di quelli negativi.
Infatti, al di fuori di tale fattispecie, la flessibilità positiva finisce con l’identificarsi con eventuale tempo di lavoro prestato, comunque, dal lavoratore, oltre i limiti di durata ordinaria della giornata lavorativa.
Tale aspetto assume un particolare rilievo, in quanto trattandosi di prestazioni ulteriori, rispetto all’orario ordinario, potrebbe configurarsi come orario di lavoro straordinario.
Pertanto, lo stesso non solo dovrebbe corrispondere a precise esigenze organizzative dell’ufficio ma dovrebbe essere, sempre, preventivamente autorizzato dal dirigente, secondo le regole generali.
Prestazioni lavorative che il personale potrebbe rendere in più, rispetto all’orario ordinario dovuto nell’arco temporale di riferimento, nell’ambito della cosiddetta flessibilità positiva ipotizzata, sostanzialmente secondo esigenze personali, potrebbero determinare una forma patologica di applicazione dell’istituto, con il rischio anche di ricadute negative ed impreviste sull’entità delle risorse destinate al pagamento del lavoro straordinario.
Infatti, proprio per questo aspetto, il lavoro straordinario deve essere sempre preventivamente autorizzato, come detto, dal dirigente o comunque dal responsabile del servizio”.
Dunque, la flessibilità “positiva” va sempre correlata e compensata con flessibilità “negativa”, sempre per ottenere il risultato finale di una prestazione in ragione di mese di 144 ore. Ogni ora in più rispetto al debito ordinario va considerata come straordinario e non può derivare da un progressivo accumulo di flessibilità e va preventivamente autorizzata.


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