La coerenza negli atteggiamenti, nelle iniziative e nelle critiche sarebbe di grande aiuto per un’opinione pubblica comprensibilmente sconcertata e senza una guida precisa sugli eventi, dato il modo quanto meno lunatico, ma sicuramente opportunistico, di inquadrare temi e problemi.
Una realtà abbastanza oggettiva c’è, però. E sarebbe da ricordare: in effetti, dal 2011 fino al 2018, manovre e riforme di vario genere sono state impostate sicuramente all’insegna del “ce lo chiede l’Europa”. Il problema è, però, che nonostante Bruxelles (ma anche Francoforte, sede della Bce) abbiano esposto in modo chiaro e perentorio le proprie richieste, l’Italia le abbia soddisfatte “all’italiana”.
Tra tutte le “richieste dell’Eeuropa”, ricordiamo quella fondamentale, proveniente per la verità non da organi della Ue, ma dalla Banca Centrale Europea (Bce), nella famosa estate 2011. Rileggiamola:
«Caro Primo Ministro,
Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea il 4 Agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un'azione pressante da parte delle autorità italiane per ristabilire la fiducia degli investitori.Il vertice dei capi di Stato e di governo dell'area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che «tutti i Paesi dell'euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali». Il Consiglio direttivo ritiene che l'Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali.
Il Governo italiano ha deciso di mirare al pareggio di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente introdotto un pacchetto di misure. Sono passi importanti, ma non sufficienti.
Nell'attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure:
1.Vediamo l'esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione; altre misure sono in discussione con le parti sociali. Tuttavia, occorre fare di più ed é cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide principali sono l'aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività delle imprese e l'efficienza del mercato del lavoro.
a) E' necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.
b) C'é anche l'esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L'accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione.
c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi.
2.Il Governo ha l'esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche.
a) Ulteriori misure di correzione del bilancio sono necessarie. Riteniamo essenziale per le autorità italiane di anticipare di almeno un anno il calendario di entrata in vigore delle misure adottate nel pacchetto del luglio 2011. L'obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell'1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa. E' possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l'età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi.
b) Andrebbe introdotta una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento dagli obiettivi di deficit sarà compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali.
c) Andrebbero messi sotto stretto controllo l'assunzione di indebitamento, anche commerciale, e le spese delle autorità regionali e locali, in linea con i principi della riforma in corso delle relazioni fiscali fra i vari livelli di governo. Vista la gravità dell'attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di Settembre 2011. Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio.
3. Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l'efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l'uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). C'é l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province). Andrebbero rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali.
Confidiamo che il Governo assumerà le azioni appropriate.
Con la migliore considerazione,
Mario Draghi, Jean-Claude Trichet>>
Come si nota, non v’è stata manovra di bilancio o riforma, nei successivi 7 anni, che non abbia inteso attuare le indicazioni di questa lettera, assurta a programma politico trasversale di ben 5 governi: Berlusconi, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni.
Guardiamo alle enfatizzazioni in grassetto. La Bce ha chiesto la riforma dei servizi pubblici locali, parlando espressamente di privatizzazioni? Ecco la riforma Madia, il d.lgs 175/2016, che ha portato a conclusione un processo di riforme tormentato, ancora oggi in fieri, visto che anche la manovra 2019 torna sulla questione.
Si chiede, poi, la riforma del sistema della contrattazione salariale collettiva. Ciò ha portato all’attenzione generale il tema della prevalenza dei contratti aziendali su quelli nazionali. Nella realtà, però, il predicato della Bce si è fermato sostanzialmente a livello di dibattito, visto che una riforma sistematica della contrattazione non vi è stata. Anche se non sarebbe da dimenticare la vigenza dei “contratti in deroga”, previsti da una norma proprio dell’estate 2011, il d.l. 138/2011, convertito in legge 148/2011, articolo 8.
La Bce ha chiesto anche una revisione “accurata” delle norme su assunzioni e licenziamenti. A ciò hanno fatto seguito le riforme al meccanismo della tutela “reale” tramite reintegra del lavoratore (articolo 18 dello Statuto dei lavoratori) operate prima dalla riforma Fornero (legge 92/2918) e poi dal Jobs Act (d.lgs 23/2015), che ha portato all’eliminazione della reintegra per le assunzioni a tempo indeterminato successive al marzo 2015.
Da notare che la Bce ha chiesto interventi generali sul mercato del lavoro, volti prevalentemente alla riallocazione di risorse verso le aziende, nel perseguimento dell’idea non di redistribuire spesa corrente come sussidi, ma di consentire la crescita delle aziende.
E’ bene, qui, soffermarsi. In realtà la legislazione dei quasi 7 anni successivi alla lettera della Bce ha attuato le indicazioni ivi contenute prevalentemente in modo superficiale, contraddittorio o del tutto errato.
Basti pensare proprio al “pacchetto lavoro”. Se, da un lato il Jobs Act ha azzerato l’articolo 18 e la manovra economica 2015 aveva incentivato le nuove modalità di assunzione con potentissimi e costosissimi sgravi contributivi (costati quasi 20 miliardi), dall’altro lato non sono invece mancati sussidi, per altro a deficit: i famosi 80 euro, per un costo annuo di quasi 10 miliardi.
Ecco perché l’Italia ha sempre mancato l’appuntamento con la richiesta successiva della Bce: la riduzione costante del deficit ed il bilancio in pareggio. Un miraggio, sempre rinviato.
Tra le pochissime misure che negli anni passati l’Italia ha saputo adottare v’è stata quella della riduzione del costo del lavoro pubblico, tramite il rafforzamento delle regole del turnover, senza ridurre gli stipendi in via diretta, ma solo mediata; il congelamento degli stipendi, durato 9 anni, ha eroso, infatti il potere di acquisto, determinando una riduzione di fatto dei salari pubblici (che per la verità nel decennio precedente erano cresciuti più che nel settore privato).
L’attuazione concreta di questa indicazione, però, ha avuto i suoi costi: un’amministrazione pubblica ormai composta da moltissimi anziani, un triennio 2019-2021 nel quale andranno in pensione 450.000 dipendenti pubblici e ancora non si è capito come e se sostituirli davvero tutti, una rarefazione delle competenze, accompagnata anche da un forte tasso della loro obsolescenza.
Il percorso di riduzione della spesa di personale, però, si è interrotto proprio nel 2018, con i nuovi contratti collettivi e con lo sblocco delle assunzioni.
La Bce ha anche suggerito di adottare una “clausola di riduzione automatica del deficit”. Mai richiesta si rivelò così nettamente fonte di problemi. L’Italia l’ha costantemente intesa, a partire dal 2014 in particolare, come base per le famigerate “clausole di salvaguardia”: quelle che impongono aumenti ciclopici dell’Iva, sempre per l’annualità successiva a quella della legge di bilancio, sempre fin qui “disinnescate” ma solo tramite rinvii ad anni seguenti, con incrementi progressivi dell’impatto, laddove il deficit dovesse salire così tanto da rendere necessaria la loro applicazione. E la manovra 2019 non fa eccezione, ed anzi esaspera questo rischio.
La lettera, poi, si conclude con delle esiziali indicazioni relative agli enti locali. Si consiglia un controllo “stretto” sull’indebitamento e sulle spese locali. In questo caso, l’Italia ha fin troppo dato ascolto alla Bce, attivando norme come il d.lg 118/2011, che hanno stravolto la contabilità, ma soprattutto con le manovre finanziarie, tutte finalizzate a strozzare i bilanci locali, restringendone draconianamente la capacità di spesa e di utilizzare gli avanzi di amministrazione giganteschi creati proprio in conseguenza di ciò (sistema che poi la Consulta ha considerato – come inevitabile – incostituzionale). Ma, soprattutto, le norme sugli enti locali hanno contribuito alla caduta verticale degli investimenti pubblici, con conseguenze su scuole, strade, territorio, gestione dei rifiuti, sotto gli occhi di tutti.
Tra i suggerimenti della Bce ai quali si è – purtroppo – dato ascolto, poi, vi è quello finale: “abolire o fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)”. Ne è derivata la disastrosa riforma Delrio, che ha devastato l’organizzazione pubblica, creando scompensi organizzativi spaventosi (per esempio, un blocco delle assunzioni totale durato quasi 2 anni), senza ottenere nemmeno un centesimo di risparmio de 3 miliardi di cui la manovra economica 2015 favoleggiava, portando quegli enti allo sfinimento.
Affermare, quindi, che l’Italia negli ultimi 7 anni abbia determinato da sé le politiche e che solo per il 2019 si fa “scrivere da Bruxelles” la manovra appare quanto meno azzardato.
Il problema vero è che, al di là delle valutazioni sul merito delle indicazioni fornite a suo tempo dalla Bce, la gran parte di esse sono state attuate male, malissimo. Quindi, l’azione di pressione di Ue e Bce sui conti pubblici ha avuto effetti ben poco salutari: del resto, l’Italia ha sempre avuto la minore crescita economica in periodi di ripresa, e simmetricamente i peggioramenti economici più marcati nei tempi di crisi, in questi anni.
Forse, allora, il problema non sta tanto nel decidere chi “scriva” le norme, ma invece nel decidere quali politiche economiche e sociali abbracciare. Poiché non sembra possibile distaccarsi troppo da quelle fissate dall’Europa, sarebbe il caso almeno di attuarle in modo corretto.
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