Ricordate lo slogan dell’abolizione delle province? Per anni ha
tenuto banco e all’ombra di questo vessillo è stata approvata una
delle riforme più devastanti e inutili mai viste.
Le province non sono state abolite, ma sono stati sottratti loro, con
una mano, oltre 3 miliardi di risorse, che non sono stati tagliati
(infatti le tasse non sono mai diminuite), ma spesi dallo Stato per
le sue necessità; con l’altra, però, spacchettati in mille rivoli
e con mille sotterfugi, sono stati progressivamente restituiti, anche
se le province ormai hanno perduto moltissime competenze e sono
passate da 40.000 a 20.000 dipendenti circa.
Infine, pur trattandosi di organi territoriali che gestiscono
comunque funzioni essenziali per la vita di ogni giorno, si pensi ai
trasporti pubblici e alla manutenzione delle scuole superiori, si è
tolta la voce ai cittadini, che non possono eleggere gli organi
politici delle province, espressione di un’elezione astrusa e
complicatissima dei vari sindaci.
Un fallimento e una diminutio della democrazia. Sul quale,
adesso, parte rilevante delle forze attualmente in maggioranza vuole
tornare indietro. Anche se tornare indietro del tutto non è mai
possibile.
Simile disastro non è evidentemente servito a nulla, se un Governo
scaduto, a un mese dalle elezioni, avvia nel febbraio 2018 con tre
regioni le trattative per l’intesa finalizzata al regionalismo
differenziato. Un tema che a un anno di distanza (365 giorni durante
i quali la cosa è passata praticamente inosservata) viene affrontato
con qualche timore.
La riforma delle province, si diceva, avrebbe fatto risparmiare alle
casse pubbliche quei famosi 3 miliardi che invece non sono mai stati
risparmiati.
Esattamente col medesimo stile tra il trionfale ed il
pressappochista, l’introduzione del regionalismo differenziato
viene attivata sul presupposto indimostrabile del risparmio delle
risorse e del mantenimento, comunque, dell’equilibrio tra territori
dello Stato.
Come se l’attribuzione quasi esclusiva del governo di 23 materie
alle regioni, tra le quali due come scuola e sanità per loro natura
caratterizzanti il carattere unitario ed universale dei servizi
rivolti ai cittadini di una nazione, non sia per sua natura
finalizzata ad una profonda differenziazione tra territori. Che, al
di là dell’efficienza gestionale delle tre regioni a un passo
dall’ottenimento del regime differenziato, non potrà non essere
garantita da una maggiore disponibilità di denari, a detrimento di
altri territori.
Il regionalismo differenziato, secondo le intese giunte alla stesura
finale, garantirà alle tre regioni la possibilità di trattenere
l’eventuale maggior gettito fiscale rispetto alla spesa sostenuta
per gestire le funzioni; con la garanzia, però, che lo Stato copra
le spese qualora, al contrario, la spesa per le funzioni risulti
superiore al gettito.
Un meccanismo come questo, poiché il gettito fiscale è trasferito
ai territori in modo da cercare un equilibrio (che in realtà da
sempre è carente) tra essi, difficilmente non creerà ulteriori
squilibri. Infatti, se alcune regioni trattengono l’extra gettito,
questo non potrà essere utilizzato dallo Stato per fini perequativi.
Allo stesso tempo, se invece lo Stato dovrà equilibrare le spese del
regionalismo differenziato, non potrà che incrementare le tasse di
tutti, anche delle regioni non differenziate, o ridurre i
trasferimenti a queste.
L’esperienza, però, non insegna e si va avanti a testa bassa su
una riforma ordinamentale immensa, che ha altissime probabilità di
creare sconquassi come e peggio della riforma delle province.
I punti in comune con esperienze passate fallimentari sono molti.
L’avvio del regionalismo differenziato ricorda molto da vicino la
sua fonte. Come il regionalismo differenziato si è attivato a pochi
giorni dalla fine di una legislatura con maggioranza di sinistra, la
sua base normativa è la riforma della Costituzione, approvata da un
Parlamento a maggioranza di sinistra per pochissimi voti alla vigilia
delle elezioni del 2001.
Ed è il frutto di una stagione di riforme avviata nel 1990 con la
legge 142/1990, proseguita poi con la riforma delle elezioni dei
sindaci, la riforma della contabilità, del lavoro pubblico,
dell’autonomia scolastica, degli appalti, della valutazione, degli
enti locali, più e più volte corrette, replicate, modificate,
superfetate, limate, potenziate, dirottate, limitate, ampliate e
ridotte.
Il tutto, senza una strategia chiara e tra mille contraddizioni. Che
anche adesso sono immancabili.
Infatti, mentre il Governo porta a termine il regionalismo
differenziato attribuendo fino a 23 materie alla competenza di tre
territori, contestualmente approva un disegno di legge definito,
chissà perché, di “semplificazione”, che è una delega
vastissima per decine e decine di materie, in gran parte finalizzata
a riportare nella competenza dei ministeri (anche a detrimento delle
autorità indipendenti) la gestione diretta delle funzioni.
Un’incredibile incoerenza, quella di uno Stato che mentre, senza
alcun dibattito in Parlamento consente l’autonomia differenziata di
tre regioni su 23 funzioni delicatissime per la vita pubblica,
contestualmente intende riportare ai ministeri il governo diretto
dell’economia e persino del convivere civile, visto che la delega
intende assegnare al governo anche la riforma di ampie parti del
codice civile.
L’esperienza passata non insegna. Dal 1990 ad oggi, ripetute
riforme di varia ampiezza e complessità hanno introdotto dosi sempre
più forti di spol system, consentendo quindi margini sempre più
ampi ed incontrollabili agli organi politici di scartare dirigenti
non graditi e non apertamente “in sintonia” col partito politico
di volta in volta in maggioranza, per sostituirli con persone “di
fiducia”, sulla base di criteri spesso lontanissimi dalla
valutazione del merito e fondati esattamente sulla fiducia politica,
invece che tecnica.
Si è creata, quindi, una schiera foltissima di “tecnici” senza
la connotazione della terzietà legata appunto ad una visione
oggettiva e non di parte; così si spiega, in parte, la pessima
qualità di continue riforme, avallate e progettate da “tecnici”
troppo attenti ad accontentare hic et nunc chi li ha
gratificati di un incarico, e troppo distratti dal compito di
contribuire a disegnare norme capaci di guardare all’interesse
generale ed al domani, invece che al sondaggio quotidiano.
In questi anni di ripetute riforme fallimentari, facilmente
individuabili come tali sin dall’origine ma perseguite
ostinatamente fino alla loro approvazione e fino allo schianto del
flop, lo spoil system è sempre piaciuto a tutti. Ogni forza politica
ha l’ambizione di costruirsi un proprio apparato di persone “di
fiducia”.
Stona, quindi, tantissimo la circostanza che fino a pochi mesi fa la
gran parte dei commentatori inneggiava alla riforma Madia della
dirigenza, che avrebbe inferto il colpo finale e micidiale alla
funzione della dirigenza come strumento per attuare, sì, l’indirizzo
politico ma in modo imparziale e nell’interesse esclusivo della
Nazione. Quella riforma, se non fosse intervenuta provvidenzialmente
la Consulta a bocciarla (per un cavillo procedurale: la mancata
intesa con le regioni), avrebbe trasformato la qualifica dirigenziale
in una sorta di abilitazione all’inserimento in un ruolo unico, al
quale il politico di turno avrebbe potuto attingere a proprio
piacimento, senza motivare in alcun modo né la scelta di incaricare
un dirigente, né, soprattutto, quella di lasciare un dirigente non
“schierato” a casa, allo scadere dell’incarico, esposto al
licenziamento se entro un triennio non fosse stato chiamato da altri
organi di governo.
Adesso, questi stessi organi che esaltavano una riforma esiziale,
levano – giustamente – alti lai per l’applicazione dura dello
spoil system al Ministero dello sviluppo economico (che ha spostato
2/3 dei dirigenti di ruolo da un incarico all’altro senza
considerare in alcun modo la valutazione dei risultati), alla Banca
d’Italia in riferimento alla conferma del direttore generale e,
ora, al ragioniere generale dello Stato, il cui incarico è in
scadenza, con pochissima voglia delle forze di maggioranza di
riconfermarlo, nonostante in questi anni difficilissimi per la
finanza pubblica la Ragioneria dello Stato abbia avuto la capacità
di tenere comunque la barra ed il timone.
Riforme che vengono da lontano, figlie di una visione dello Stato
confusa, elaborata in provetta in aule universitarie, lontane dalla
realtà e regolarmente fallite nell’applicazione pratica, non
possono che produrre contraddizioni, revisioni continue, pericoli di
disgregazione.
Anche perché in tutti questi anni, mai si è stati in grado di
produrre uno degli elementi considerati cardine di queste
fallimentari stagioni: costi standard e livelli essenziali delle
prestazioni.
Per le province i 3 miliardi di presunti risparmi sono stati
immaginati a tavolino; la Sose fu incaricata di stimare i risparmi, e
si scoprì che ne descrisse solo 1, sulla base di un confusissimo
sistema di rilevazione dei costi standard degli enti locali, in
realtà mai andato a regime; ma, lo stesso si decise di andare
avanti.
I livelli essenziali delle prestazioni, cioè la definizione di
obblighi minimi di qualità e quantità dei servizi da rendere,
sarebbero il collante che, in uno Stato nel quale si rafforzano le
autonomie fino al parossismo innescato dalla sciagurata riforma del
2001 della Costituzione, dovrebbe garantire a tutti i cittadini i
diritti fondamentali, come salute, istruzione, rapporti economici,
servizi sociali, infrastrutture.
Invece, non si è fatto altro che continuare a sfornare riforme su
riforme degli assetti ordinamentali, disperdendo risorse, forze,
competenze e funzioni, ripetendo ostinatamente gli stessi errori
nella convinzione che ogni riforma sia solo e soltanto utile e
positiva, infallibile, e conveniente per la forza politica in sella,
anche se in scadenza. Perchè l’oggi e le esaltazioni caduche di
una stampa, tuttavia, non troppo coerente, sembrano essere ancora,
dopo decenni, la vera guida. Verso il pericolo di ennesimi flop e
problemi.
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