Nella sua audizione nell'ambito dell'attività conoscitiva sul codice dei contratti in corso al Senato, la Corte dei Conti, Sezioni Riunite, boccia totalmente l'ardita - e non condivisibile, sul piano strettamente tecnico giuridico - scelta del legislatore di avvalersi della cosiddetta soft regulation.
Riportiamo di seguito il punto 3 delle dichiarazioni della Corte dei conti, che contiene valutazioni il cui contenuto è così rigoroso, chiaro, condivisibile, da rimanere sorpresi della loro totale obliterazione al momento della redazione del codice.
Ne è venuto fuori un mostro giuridico, che ha complicato il sistema e bloccato gli appalti, come chiunque ormai si è accorto. Sorprende anche come solo la Corte dei conti si sia accorta dell'incongruenza di affidare la regolazione degli appalti ad un'autorità indipendente, come se si trattasse di un mercato aperto, nel quale lo Stato conserva, tramite proprie società operanti in concorrenza con altri, interessi talmente forti da richiedere discipline tecniche disposte non dal Governo, bensì da un'autorità indipendente, per evitare conflitti di interesse.
Ma, il settore degli appalti non vede il Governo direttamente operante in concorrenza con le imprese, se non per marginalissimi casi di in house providing, per altro soggetti a regole di concorrenza imposte già dalle regole europee.
La critica della Corte dei conti è radicale. Purtroppo, tardiva.
"3. Regolamento unico e linee guida ANAC
Com’è noto, la questione della natura giuridica dei provvedimenti (ministeriali e
dell’ANAC) volti a dare attuazione alle disposizioni del Codice, e della loro collocazione
nella gerarchia delle fonti del diritto ha formato oggetto di ampio dibattito. Nel rendere il
previsto parere, il Consiglio di Stato, oltre a stigmatizzare “l’aumento della
regolamentazione rispetto a quanto richiesto dalle Direttive europee, in contrasto con il
divieto di c.d. gold plating”, ha ritenuto che le linee guida e gli altri decreti “ministeriali”
(ad esempio, in tema di requisiti di progettisti delle amministrazioni aggiudicatrici: art.
24, comma 2; e direzione dei lavori: art. 111, commi 2 e 3) o “interministeriali” (art. 144,
comma 5, relativo ai servizi di ristorazione), indipendentemente dal nomen juris fornito
dalla delega e dallo stesso codice, devono essere considerati quali “regolamenti
ministeriali” ai sensi dell’art. 17, comma 3, legge n. 400/1988. Diversamente ha
argomentato con riguardo alle linee guida dell’ANAC. Mentre quelle a carattere “non
vincolante” sono state ritenute pacificamente inquadrabili come ordinari atti
amministrativi, più complessa si è rivelata la qualificazione giuridica delle linee guida a
carattere “vincolante” (ad esempio: art. 83, comma 2, in materia di sistemi di
qualificazione degli esecutori di lavori pubblici; art. 84, comma 2, recante la disciplina
degli organismi di attestazione SOA; art. 110, comma 5, lett. b, concernente i requisiti
partecipativi in caso di fallimento; art. 197, comma 4, relativo ai requisiti di qualificazione
del contraente generale), e degli altri atti innominati aventi il medesimo carattere (art. 31,
comma 5, relativo ai requisiti e ai compiti del r.u.p. per i lavori di maggiore complessità;
art. 197, comma 3, di definizione delle classifiche di qualificazione del contraente
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generale), comunque riconducibili all’espressione “altri atti di regolamentazione
flessibile”. Il citato parere del Consiglio di Stato segue l’opzione interpretativa che
combina la valenza certamente generale dei provvedimenti in questione con la natura del
soggetto emanante (ANAC), il quale si configura a tutti gli effetti come un’Autorità
amministrativa indipendente, con funzioni (anche) di regolazione.
Pertanto, le linee guida e gli atti ad esse assimilati dell’ANAC sono stati ricondotti alla
categoria degli atti di regolazione delle Autorità indipendenti, che non sono regolamenti
in senso proprio ma atti amministrativi generali con compiti, appunto, “di regolazione”.
La descritta soluzione ermeneutica non appare priva di criticità. Al di là dell’apparente
contraddizione di prevedere una vincolatività derivante da norme di soft regulation (che
per loro natura dovrebbero essere caratterizzate dalla moral suasion piuttosto che
dall’imperatività), non può non rilevarsi l’incongruenza di adottare, per il mercato dei
contratti pubblici, la categoria degli atti di regolazione tecnica emanati da Autorità
indipendenti. Questi ultimi, infatti, rispondono all’esigenza - non sussistente nel campo
dei pubblici contratti - di affidare ad un’autorità indipendente dal Governo l’introduzione
di regole per lo più tecniche (tariffe, prezzi di accesso alla rete dell’incumbent,
ripartizione di risorse scarse, determinazione tecnica dei contenuti delle transazioni
commerciali) in segmenti di mercato circoscritti, nei quali l’Esecutivo, per mezzo delle
società partecipate, conserva un interesse (diretto o indiretto) che ne sconsiglia
qualsivoglia intervento normativo.
Tralasciando altre considerazioni, non può non evidenziarsi la difficoltà per l’operatore
di confrontarsi con tale inedita forma di regolamentazione, inserita all’interno di un
settore affollato da norme molteplici e disomogenee, che vede coinvolte fonti di rango
costituzionale, comunitario, primario e secondario. Infatti, tra le maggiori criticità - da
tempo denunciate dagli addetti ai lavori e dai responsabili dei procedimenti delle diverse
amministrazioni soggette al controllo della Corte dei conti - del settore dei contratti
pubblici vi è la iperregolamentazione della materia. Del resto, il rischio di proliferazione
delle fonti e di conseguente perdita di sistematicità ed organicità dell’ordinamento di
settore era ben noto allo stesso Legislatore che, nell’indicare i principi della delega cui ha
dato attuazione il d.lgs. 50 del 2016, vi includeva la “drastica riduzione” dello stock
normativo (art. 1, comma 1, lett. d) della legge di delega). Infatti, la stratificazione e la
frammentazione normativa, in una con il difetto di un congruo periodo di riflessione e
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decantazione normativa, comporta, in definitiva, il sovrapporsi di regimi transitori, il
determinarsi di incertezza applicativa, l’aumento del contenzioso e dei costi
amministrativi per le imprese, soprattutto piccole e medie. In tal senso, può valutarsi
positivamente l’ipotesi del ritorno alla concentrazione in un unico testo regolamentare di
tutte le disposizioni attuative del Codice, al fine di restituire chiarezza ed omogeneità di
regole all’interprete ed all’operatore. Se, da un lato, i provvedimenti di soft law si
caratterizzano per un maggior grado di flessibilità e di capacità di adattamento
all’evoluzione delle fattispecie operative, dall’altro lato, rischiano di generare maggiore
incertezza sia in termini di dettaglio delle regole, sia in merito alla relativa portata
prescrittiva. È sempre più avvertita dalle amministrazioni controllate dalla Corte
l’esigenza di certezza e stabilità delle situazioni giuridiche in tale materia".
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