L'ordinanza del Tribunale di Ancona, prima Sezione civile, 29 luglio 2019, che solleva la questione di legittimità costituzionale del d.l. 113/2018, convertito in legge 132/2018 (c.d. "decreto sicurezza") smonta in modo convincente la teoria secondo la quale la riforma introdotta dal governo non avrebbe in realtà impedito agli uffici demografici di registrare la residenza anagrafica dei richiedenti asilo.
Tale tesi è stata proposta dalla dottrina (ttps://www.segretaricomunalivighenzi.it/05-01-2019-una-lettura-tecnico-giuridica-della-polemica-che-infiamma-la-politica-sul-decreto-sicurezza) e poi ripresa da una serie di pronunce giurisprudenziali, richiamate dall'ordinanza del Tribunale di Ancona (Tribunale di Bologna, ordinanza del 2.5.2019; Tribunale di Firenze, ordinanza del 18.3.2019; Tribunale di Genova, ordinanza del 22.5.2019).
Si tratta del tentativo di attuare le disposizioni del "decreto sicurezza" in modo da fornire una lettura "costituzionalmente orientata". Che, ovviamente, il giudice di Ancona non condivide, allo scopo di individuare la rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata.
In sintesi, le tesi "costituzionalmente orientata" sostiene che l’articolo 13 del d.l. 113/2018, convertito in
legge 132/2018 ma non cancella il diritto dello straniero richiedente la protezione
internazionale di iscriversi “personalmente” all’anagrafe dei
residenti. Infatti, rimane in vigore - in quanto non espressamente abrogato - l’articolo 6, comma 7, del d.lgs
286/1998 ai sensi del quale “Le iscrizioni e variazioni
anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate
alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità
previste dal regolamento di attuazione”.
Sulla base di queste teorie, alcuni comuni continuano ad accertare la residenza dei richiedenti asilo.
Si tratta di una tesi, tuttavia, che non persuade. Su La Gazzetta degli enti locali, ed. Maggioli, nel numero del 9 gennaio 2019, in proposito scrivemmo: "C’è allora da comprendere se l’articolo 13 del decreto
sicurezza, a mente del quale il permesso di soggiorno rilasciato allo
straniero richiedente protezione “non costituisce titolo per
l’iscrizione anagrafica ai sensi dell’art. 6, comma 7 del decreto
legislativo 286 del 1998” produca realmente la conseguenza di
impedirgli l’acquisizione della residenza.
La tesi che stiamo qui sintetizzando (ma non condividendo) sottolinea
come il secondo periodo del comma 7 dell’articolo 6 del d.lgs
286/1998 disponga: “in ogni caso la dimora dello straniero si
considera abituale anche in caso di documentata ospitalità da più
di tre mesi presso un centro di accoglienza”. Da ciò si
potrebbe desumere, quindi, “che l’iscrizione anagrafica dello
straniero non ancora regolarmente soggiornante non possa più essere
ottenuta in base al mero possesso del permesso di soggiorno; ma,
sulla base dell’orientamento espresso dalla Cassazione nella
celeberrima sentenza 14.3.1986, n. 1738 non può negarsi che
trascorsi 3 mesi dall’inizio dell’ospitalità in uno dei centri
di accoglienza lo straniero in attesa di protezione possa richiedere
l’iscrizione anagrafica essendo per legge verificato il requisito
della dimora abituale”.
Di conseguenza, l’impossibilità di acquisire la residenza sarebbe
ricondotta solo al “periodo iniziale della permanenza del
richiedente protezione nei centri di accoglienza e, comunque, fino
alla conclusione del procedimento con cui lo Stato italiano si
pronuncia sulla domanda di protezione, accolta la quale lo straniero
è equiparato ai fini dell’iscrizione anagrafica ad un cittadino
italiano”.
Tale teoria molto suggestiva tuttavia non considera alcuni elementi.
In primo luogo il chiarissimo elemento testuale: il decreto sicurezza
modificando l’articolo 4 del d.lgs 142/2015 ha aggiunto il comma
1-bis, ai sensi del quale “Il permesso di soggiorno di cui al
comma 1 non costituisce titolo per l'iscrizione anagrafica ai sensi
del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e
dell'articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.
286”. Dunque, l’intero articolo 6, comma 7, nonostante non
sia abrogato, perde efficacia nei confronti degli stranieri
richiedenti asilo. La norma non è stata abrogata perché vale sempre
per gli stranieri: ma, in particolare per i richiedenti protezione
internazionale non produce più alcun effetto.
Quindi, gli uffici demografici semplicemente laddove ricevano una
dichiarazione di domicilio ai fini dell’acquisizione della
residenza da parte di un richiedente protezione internazionale
debbono chiudere immediatamente la procedura con una reiezione, ai
sensi dell’articolo 2, comma 1, della legge 241/1990.
In ogni caso, anche il riferimento alla datata pronuncia della
Cassazione non modifica l’innovazione introdotta dal decreto
sicurezza. Che consiste esattamente nella radicale ristrutturazione
del sistema di accoglienza, operato dall’articolo 12 del d.l.
113/2018, convertito in legge 132/2018. Tale sistema adesso a regime
consente di accogliere non più i richiedenti protezione
internazionale, bensì solo ed esclusivamente i titolari della
protezione internazionale. I Cas e gli Sprar sono di fatto “chiusi”
e sostituiti dal “Sistema di protezione per i titolari di
protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati”
(SIPROIMI). Quindi, non c’è materialmente più la distinzione del
richiedente protezione internazionale che soggiorni presso un Cas o
uno Sprar per meno di tre mesi, da quello che vi soggiorni da più di
tre mesi. I richiedenti asilo non possono soggiornare più nel
sistema di accoglienza".
L'ordinanza del Tribunale di Ancona conferma ed approfondisce le perplessità sulla sostenibilità della tesi secondo la quale i richiedenti asilo possono ancora ottenere la registrazione demografica, fornendo motivazioni in parte coincidenti, in parte ulteriori, rispetto a quelle proposte da chi scrive a suo tempo.
L'ordinanza 29.7.2019,. condivisibilmente, evidenzia che l'interpretazione posta a salvaguardare la sussitenza in capo al richiedente asilo della possibilità di ottenere la residenza "priva di significato la portata innovativa della norma e conduce ad una interpretazione abrogante, per le ragioni di seguito indicate:
- la procedura di iscrizione semplificata è stata abrogata con una norma apposita, pertanto, non vi era la necessità di ribadire il difetto di automatismo tra rilascio del permesso di soggiorno ed iscrizione all’anagrafe con una ulteriore disposizione. Tra tutti i possibili significati riconducibili ad una norma, infatti, si deve optare per quello che riconnette alla medesima un qualche effetto, se esistente;
- in ogni caso, pur assumendo quello indicato dai giudici di merito richiamati come il significato della norma, non si comprende quale sia il senso del richiamo all’art. 6 T.U. immigrazione, laddove si afferma che il permesso di soggiorno non è titolo ai sensi di quella norma (la disposizione non si occupa affatto dell’automatismo tra rilascio del permesso di soggiorno ed iscrizione all’anagrafe, ma pone semplicemente la regolarità del soggiorno dello straniero quale condizione per la parificazione al cittadino ai fini dell’applicazione della disciplina);
- la mancata modifica dell’art. 6 T.U. immigrazione, che viene evocata a riprova dell’applicazione della disciplina ordinaria in materia di iscrizione all’anagrafe anche al richiedente asilo titolare del permesso di soggiorno, non rileva in alcun modo. Anzi, è proprio l’art. 4 comma 1 bis d.lgs. 142/2015 che, quale norma di pari rango e posteriore, introducendo una deroga, sottrae uno spazio applicativo all’art. 6 T.U. immigrazione, escludendo che il permesso per richiesta asilo sia prova della regolarità del soggiorno ai fini della sua applicazione".
Nè all'interprete, nè al giudice, nè all'operatore, è consentito di interpretare norme di legge in modo da ottenere il risultato abnorme della loro impossibile attuazione. Il sostanziale divieto imposto dal decreto sicurezza di acquisizione della residenza posto ai richiedenti asilo può risultare non condivisibile sul piano della filosofia del diritto e sociale; ma, questo non può condurre ad interpretazioni abroganti, perchè questo compito è riservato alla Corte costituzionale. E bene ha fatto il giudice di Ancona a sollevare la questione di legittimità costituzionale, per dirimere la questione, ricordando a tutti quali sono i canoni interpretativi e operativi da rispettare sempre.
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