sabato 5 ottobre 2019

Delega negli enti locali. Excursus (parte I)


 La gerarchia

Si evince chiaramente che mentre la suddivisione della competenza per territorio pone pochi problemi all’esatta individuazione dei confini che separano i poteri rispettivi degli organi, più difficile è individuare una reale distinzione di poteri nell’ambito della competenza per materia e, ancora, la distinzione concreta tra la competenza per materia e la competenza per grado.

In effetti, quest’ultima è abbastanza facile da percepire, in quanto è dato sostanzialmente assiomatico che l’organo posto più in alto in una scala di gerarchia disponga di poteri superiori all’organo inferiore. Il modello di ripartizione delle competenze nell’esercito è il paradigma di tale tipo di organizzazione.
Il modello, invece, dell’ordinamento giudiziario è il paradigma opposto: tra magistrati non opera un ordine gerarchico, ma solo un rapporto di competenza, che nei riguardi di alcune figure (ad esempio il procuratore capo della Repubblica) si arricchisce di funzioni di coordinamento ed indirizzo.
Per comprendere meglio la differenza dei due modelli una delle note caratteristiche del rapporto di gerarchia puro, sia pure non esclusiva[1], è la concorrenza tra i poteri dell’organo superiore e quelli dell’organo inferiore, nel senso che il superiore gerarchico dispone di una competenza comprensiva di quella dell’inferiore gerarchico. Si parla, in questo caso, di competenza di carattere “concorrente”.
La figura riportata sopra rappresenta il fenomeno della condivisione delle medesime competenze tra organo sovraordinato ed organo sottoordinato: il primo, condividendo col secondo i poteri esercitabili, è in grado di avvalersi dell’opera del secondo per svolgere le proprie funzioni. E’ una sua facoltà di esercitare i poteri lasciando che sia il sottoordinato a svolgere le relative competenze. Altrimenti, il superiore gerarchico può direttamente esplicare le sue competenze, limitando le funzioni del sottoordinato, la cui sfera di competenze, dunque, è sempre soggetta a limitazioni, che incidono direttamente su di essa, comprimendola.
Ciò avviene, perché nel modello gerarchico puro, tra gli organi non v’è una vera e propria separazione di competenza. In effetti, nel modello di gerarchia in senso stretto, la competenza si può confondere con l’attribuzione[2], nel senso, sopra individuato, di insieme dei poteri spettanti ad una figura soggettiva (ente), senza la specificazione dell’assegnazione di tali poteri ai singoli organi che compongono il soggetto stesso.
La precedente figura, dunque, potrebbe essere presentata come una piramide, alla base della quale stanno le competenze, mentre nei vari livelli gli organi che le esercitano: ogni livello superiore, travolge la competenza di quello inferiore:
Nell’ambito della competenza per materia, invece, questo non accade. La competenza per materia, infatti, presuppone proprio la specificazione del complesso delle attribuzioni di poteri assegnati ad una figura soggettiva, da cui deriva l’assegnazione a ciascuno degli organi che la compongono di specifiche sfere di competenza.
Ciò significa che gli organi sono posti sullo stesso piano o, meglio, che non sono organizzati in forma piramidale. Geometricamente, le relazioni tra gli organi posti tra loro in una relazione di competenza può essere resa come una serie di connessioni.
Nel rapporto di competenza, nessuno degli organi condivide proprie competenze con altri organi. Questo significa che nessuno degli organi può, reciprocamente, ingerirsi nella sfera di competenza di un altro organo, pena la violazione di legge, proprio per difetto di competenza.
Il sistema del rapporto di competenza dà luogo, quindi, ad una serie di organi ai quali la legge, o il regolamento nel rispetto degli spazi ad esso lasciato dalla prima, attribuisce assegna direttamente, effettuando una ripartizione chiara, il compito di esercitare alcuni dei poteri attribuiti alla figura soggettiva alla quale appartengono. In questo caso, si può parlare di competenza esclusiva, in quanto la norma specifica chiaramente l’organo al quale tale competenza è attribuita, senza che alcun altro organo, anche dotato di poteri eventualmente più ampi, possa interferire sull’azione di altro organo.
Quando tra organi della medesima figura giuridica intervenga una relazione di competenza e non di grado gerarchico, allora debbono subentrare strumenti organizzativi, finalizzati a garantire che l’azione di ciascun organo o ufficio non sia in contrasto con i fini generali e gli indirizzi della figura soggettiva, da un lato, e che non vada in direzione opposta a quella tracciata da altri organi.
In questo caso, l’organizzazione dell’ente prevede la costituzione di una funzione di direzione, che pone due o più organi equiordinati in una relazione tale che uno tra essi si assuma il compito di garantire la reciproca coerenza dell’attività svolta da ciascuno degli altri, nonché il rispetto degli indirizzi generali di governo dell’ente.
L’organo al quale sia assegnata la funzione di direzione, allora, non può esercitare propri della relazione di gerarchia pura, quali dare ordini vincolanti, controllare l’operato mediante ispezioni ed inchieste, annullamento degli atti, revoca, soluzione di ricorsi, sostituzione sia in caso di inerzia, sia come potere di ingerenza diretta nella sfera di attività del subordinato.
Al contrario, può esercitare poteri quali le direttive, ovvero atti di indirizzo che non impongono al destinatario un comportamento o una scelta, privandolo del potere di autodeterminarsi sul come seguire quel dato comportamento, o, addirittura, di non seguirlo, previa adeguata motivazione. Le direttive, infatti, a differenza degli ordini, non stabiliscono disposizioni concrete e puntuali, limitandosi a fare presente al destinatario, invece, quali sono gli obiettivi da perseguire, senza obbligarlo ad utilizzare determinati mezzi e risorse, né prevedendo termini diversi da quelli fissati con atti di governo, in modo da lasciare spazi per una flessibilità gestionale. Sicchè, il destinatario della direttiva è obbligato, nella sua azione, a tenere specificamente conto dell’indirizzo ricevuto, come criterio operativo, che, tuttavia, non vincola ad agire in una determinata modalità, ancorché la scelta di non seguire l’indirizzo ricevuto obblighi ad una specifica motivazione.
Ancora, nell’ambito del potere di direzione è ammissibile l’esercizio della funzione di coordinamento, consistente nel fare in modo che i vari organi sui quali sia esercitabile il potere di direzione agiscano sulla base di una condivisa interpretazione delle norme, adottando comportamenti omogenei di fronte a situazioni di fatto definite, seguano una programmazione delle attività condivisa, rispettando reciprocamente ruoli, tempi e risorse di ciascuno. Si ritiene in dottrina[3] che al potere di direzione fa da contrappunto un interesse particolarmente protetto dell’organo soggetto al potere di direzione, interesse specificamente rivolto al rispetto della propria autonomia, meritevole di tutela in sede giurisdizionale.
Il potere di sostituzione, nell’ambito del rapporto di direzione, non è contemplato come forma generale di organizzazione e deve essere specificamente stabilito dalla legge. Tuttavia, nell’ambito della funzione di coordinamento[4] è possibile assicurare proprio mediante la sostituzione il corretto espletamento delle attività, così come è esercitabile la funzione di risoluzione dei conflitti di competenza o la creazione di “unità di progetto”, intese come figure organizzative straordinarie, non previste in modo fisso nella struttura organizzativa, create proprio allo scopo di realizzare momenti di coordinamento tra pool di risorse appartenenti ad organi diversi, per perseguire fini comuni, al conseguimento dei quali il pool si scioglie.

Il principio dell’inderogabilità della competenza

L’articolo 97 della Costituzione dispone, come visto in precedenza, che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge e che è sempre la legge a determinarne le attribuzioni e le sfere di competenza.
Poiché nel sistema democratico l’ordinamento rimette alla legge l’individuazione dell’interesse generale e degli strumenti per perseguirlo, la disposizione della Costituzione deve essere letta come norma di garanzia[5]. E’ il legislatore, quale rappresentante del corpo elettorale, che rilevato il fine pubblico da perseguire, stabilisce a quale soggetto pubblico attribuire i poteri connessi e indica come ripartire tra gli organi che compongono tale soggetto pubblico l’esercizio di tali poteri, fissando, quindi, le loro sfere di competenza.
Questa funzione di garanzia assolta dalla legge, è tipica degli ordinamenti giuridici denominati come “stato di diritto”, che si contrappongono in particolare alle monarchie assolute o alle monarchie illuminate (altrimenti conosciute come “stato di polizia”).
Nelle monarchie assolute si assiste ad una completa concentrazione dei poteri pubblici in capo al sovrano, il quale è “assoluto” perché dispone del potere di determinare il bene pubblico e, correlativamente, della capacità di fissare le regole per il suo perseguimento, ma la sua potestà non è assoggettata a tali regole (le leggi): il sovrano è assoluto non tanto nel senso che dispone di tutto il potere, quanto nel senso che la sua potestà è sciolta (in latino ab-solutum) dalle leggi. Il sovrano assoluto è, dunque, al di sopra delle leggi, non ne è vincolato. Simili regimi di fatto ammettono che l’amministrazione della cosa pubblica sia mutevole, non sorretta da regole predeterminate, ma influenzata da esigenze anche rilevate sul momento o relative a singole, concrete fattispecie (privilegi regali). Ciò significa che il potere amministrativo non è precostituito, le sfere di competenza non note o, comunque, soggette a continue mutazioni. Il cittadino, insomma, non può contare su un giusto procedimento, in quanto egli è soggetto a regole che talvolta non è in grado di conoscere, mentre il soggetto pubblico può mutarle nel corso delle cose.
Non molto diversa è la situazione dei cosiddetti stati di polizia, nei quali la più evidente volontà di curare gli interessi generali (polizia, dal greco “cura della comunità”), da un lato limita la potestà del sovrano, il quale non è più assoluto, ma sottoposto alla legge; dall’altro, però, il sovrano continua a determinare in via esclusiva gli interessi da perseguire e le modalità concretamente operative, senza una precisa determinazione di regole del “giusto procedimento” che consentano al cittadino di entrare in relazione con lo Stato in posizione di equilibrio.
Solo lo stato di diritto introduce, tra le altre importanti innovazioni come la divisione dei poteri legislativo, giudiziario ed amministrativo, il principio che anche lo Stato, ma tutti gli organi pubblici, sono soggetti alla legge, ed il principio del “procedimento legale”. In sostanza, la macchina pubblica deve funzionare in base a regole generali che vincolano non solo i cittadini, ma anche gli enti pubblici, e tali regole non sono fissate dalla medesima autorità amministrativa, bensì dalla legge. Ciò allo scopo di evitare la mutevolezza delle regole nel tempo, al mero scopo di adattarle all’interesse specifico dell’amministrazione stessa o di singoli “potentati”.
La predeterminazione, mediante legge, delle regole alle quali deve sottoporsi anche l’organizzazione amministrativa, implica:
1)       la predeterminazione dei fini pubblici;
2)       la predeterminazione degli enti e degli organi dotati del potere di perseguirli;
3)       un insieme di procedimenti fissati a loro volta da regole procedurali vincolanti.
Ciò consente al cittadino di porsi in una relazione “negoziale” con la pubblica amministrazione, abbandonandosi il concetto dell’amministrazione come soggetto posto in una posizione di supremazia speciale nei confronti dei terzi, sostituito dal già citato principio del giusto procedimento.
Stando così le cose, l’ordine delle competenze assume con ogni evidenza un’importanza determinante. La predeterminazione dei fini, dei poteri, della competenza assegnata a certi organi, consente al cittadino di sapere qual è, di volta in volta, l’autorità preposta alla cura di certi interessi, quali sono gli organi attivi di questa, sulla base di quali regole essi agiscono, come, in base a tali regole, è possibile sia “negoziare” con loro, sia tutelarsi amministrativamente o giudizialmente nei loro confronti.
Se l’ordine delle competenze fosse rimesso alla volontà dell’autorità amministrativa, esso, in funzione dell’elevata propensione alla mutevolezza degli assetti organizzativi interni alle pubbliche amministrazioni, sarebbe difficilmente fissabile a priori: in tal modo, però, si vanificherebbe il principio del procedimento legale.
Ecco, pertanto, perché la Costituzione ha previsto la riserva di legge, quale fonte principalmente competente a dettare gli assetti delle attribuzioni e delle competenze delle autorità e degli organi pubblici.
Ciò significa, allora, che autorità ed organi pubblici non possono, mediante provvedimenti amministrativi, alterare tali assetti.
In altre parole, dalla Costituzione deriva il principio dell’inderogabilità della competenza, riconosciuto come pacifico dalla dottrina[6].
D’altra parte, dal principio dell’inderogabilità della competenza deriva direttamente uno dei principali vizi dei provvedimenti amministrativi, il vizio di incompetenza, riconosciuto una specie del genere della violazione di legge, proprio in quanto la determinazione delle sfere di competenza è rimessa, dalla Costituzione alla legge.
Se, come visto prima, la legge ha il compito di individuare i fini da perseguire ed i poteri connessi, così da affidarli ad un certo soggetto appartenente all’amministrazione pubblica identificato come competente ad esercitare quei poteri, è evidente che l’esercizio di tali poteri da parte di altro soggetto che non abbia ricevuto dalla legge la legittimazione a provvedere, implica una violazione della legge.
L’atto, pertanto, adottato da organo incompetente è per questo solo da considerare invalido. L’organo incompetente, infatti, si presume non solo non dotato dei poteri di decidere e, quindi, privo radicalmente della potestà amministrativa, ma si presume anche non idoneo a ponderare gli interessi in gioco e ad effettuare le valutazioni istruttorie, che solo l’organo competente è in grado di porre in essere in modo compiuto.
Ovviamente, perché vi sia effettivamente incompetenza, è necessario che la legge abbia con chiarezza stabilito che uno specifico potere sia di un certo ente, o di un certo organo.
Per questo, qualora l’organizzazione interna all’ente non comporti un’assegnazione di distinte competenze tra organi, ma, al contrario, un’attribuzione complessiva senza specificazione, dandosi così luogo alla relazione di gerarchia pura tra gli organi dell’ente, l’esercizio delle funzioni da parte di ciascuno degli organi preposti non comporta incompetenza, ma, semmai, responsabilità interna dell’organo inferiore nei confronti dell’organo superiore, qualora l’esito finale dell’azione amministrativa sia contrario alle disposizioni fissate dal superiore gerarchico.
Se l’ente è organizzato al suo interno in base al principio della competenza, al contrario, il rischio dell’impropria violazione delle competenze è direttamente proporzionale al grado della loro specificazione, da parte della legge o dei regolamenti.
La competenza attribuita dalla legge all’organo da essa individuata, può essere definita come competenza a titolo originario.
Occorre, comunque, specificare che la riserva di legge di cui all’articolo 97 della Costituzione è solo relativa. Sicchè, la legge può demandare ad altre fonti non tanto il compito di attribuire i poteri agli enti, quanto di specificare le competenze degli organi.
La legge può disporre di se stessa, limitandosi a fissare solo alcuni principi, nell’ambito dei quali, dunque, le autorità amministrative possono muoversi, per meglio delineare gli ambiti di competenza dei propri organi.
Tuttavia, tali autorità non possono provvedere con provvedimenti amministrativi (con l’eccezione proprio della delega), bensì mediante atti generali ed astratti. Dunque, sono i regolamenti di organizzazione degli enti le fonti che possono integrare o parzialmente diversificare l’assetto generale delle competenze, nel rispetto, comunque, dei limiti previsti dalla legge.

 Le fonti attributive della competenza negli enti locali: legge, statuto o regolamenti?

Ci si interroga se questo assunto debba essere revisionato, a seguito della legge costituzionale 3/2001, che ai sensi dell’articolo 117, comma 6, ha dato rilievo costituzionali allo statuto ed ai regolamenti locali, assegnando a questi la competenza normativa in merito disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.
E’ possibile, in effetti, fornire una lettura della disposizione costituzionale nel senso che la potestà della legge di disciplinare le competenze sia stata dismessa e vi sia, dunque, in conseguenza una delegificazione di tale potere, a vantaggio della potestà regolamentare locale. Il che, dunque, avrebbe abbassato al livello di fonte regolamentare, particolarmente tutelata dalla Costituzione, la disciplina complessiva della competenza negli enti locali, che sarebbe, dunque, integralmente rimessa a quanto disposto dallo statuto e dai regolamenti, anche, pertanto, disapplicando le leggi attualmente in vigore.
Tale approccio, per altro, sembrerebbe ulteriormente confermato dall’articolo 4, comma 6, della legge 131/12003, a mente del quale “fino all’adozione dei regolamenti degli enti locali, si applicano le vigenti norme statali e regionali, fermo restando quanto previsto dal presente articolo”.
Pare, tuttavia, preferibile una lettura diversa e meno radicale. Gli effetti che la riforma della Costituzione ha determinato sul regime delle fonti locali non pare possano giungere a ritenere che la carta costituzionale abbia determinato una equiordinazione delle fonti locali rispetto alla legge.
La recente sentenza de Tar Campania, Napoli, Sezione II, 18 dicembre 2003, n. 15430 fornisce precise argomentazioni per contestare la tesi della sussistenza di una riserva di competenza per statuti e regolamenti.
I giudici campani hanno ritenuto che la competenza all’attribuzione degli incarichi professionali negli enti locali spetti esclusivamente alla dirigenza, senza che allo scopo occorra alcuna intermediazione statutaria, posto che l’articolo 107 del d.lgs 267/2000 esaurisce del tutto la fattispecie normativa, in merito al riparto delle funzioni tra organi di governo ed organi gestionali. La sentenza, pertanto, enuncia l’applicabilità immediata e diretta del principio di separazione, nonostante fosse già da qualche tempo in vigore la legge 131/2003, oltre che la riforma costituzionale. La decisione del Tar Napoli appare di estremo rilievo in particolare per questo motivo. E’ la constatazione che le fonti normative locali non hanno assunto una diversa forza, né una nuova collocazione, nella gerarchia delle fonti.
Nonostante la particolare attenzione riposta dall’articolo 117, comma 6, della Costituzione e dall’articolo 4, commi 3 e 6, della legge 131/2003 alla potestà normativa locale sulla specifica materia dell’organizzazione, la corretta individuazione del concetto di organizzazione è uno degli elementi fondamentali per comprendere quale sia la forza normativa di statuti e regolamenti locali in merito, tanto nell’attuale sistema, come nel precedente.
Si è osservato che la costituzionalizzazione della potestà statutaria e regolamentare locale avrebbe comportato una riserva di competenza a tali fonti normative, in merito, in particolare, all’organizzazione dell’ente.
La decisione del Tar Napoli è utile per ricondurre l’osservazione – corretta –secondo cui il rilievo dato dalla Costituzione a statuti e regolamenti non possa rimanere privo di conseguenze, da posizioni eccessivamente propense a considerare fonti in rapporto di competenza rispetto alla legge, verso posizioni più aderenti al dato storicamente oggi presente.
La Costituzione e la legge 131/2003 rappresentano disposizioni che tracciano nei confronti del futuro legislatore le linee di tendenza da seguire, che dovranno necessariamente puntare verso la valorizzazione delle fonti locali, principio, del resto, desumibile dall’articolo 114, comma 2, della carta costituzionale, ed espressamente formulato nelle deleghe legislative contenute nella legge 131/2003.
Se, comunque, si evidenzia qual è il significato della materia “organizzazione” si comprende che la potestà normativa di statuti e regolamenti, anche qualora si dovesse configurare come concorrente con la legge, incontrerebbe limiti molto precisi, tali da non consentire la modifica degli assetti delle competenze, previsti dalla legge medesima.
Enciclopedie e vocabolari concordano nel definire il verbo “organizzare” come attività volta a coordinare un complesso di organi in modo armonico tra loro, per integrarli e concorrere allo svolgimento di una funzione comune.
L’attività di organizzazione, allora, non consiste né nell’individuazione degli organi, né nell’assegnazione di poteri nei loro confronti. Questo genere di funzioni, infatti, attiene all’attività costituente. E’ mediante lo statuto e l’atto costitutivo di una società di diritto civile che si individuano gli organi e si definiscono i loro poteri. Con successivi atti organizzativi, poi, si stabilisce come ciascun organo si avvale di tali poteri, per il conseguimento di fini e strategie di azione. Nell’esercizio della fase “costituente”, comunque, tali soggetti debbono rispettare alcuni limiti e vincoli posti dalla legge (il codice civile), che impone la presenza di alcuni organi e ne fissa le competenze minime, oltre a prevedere precise modalità per rendere pubblici i dati delle persone fisiche che li compongono.
La fase costituente, dunque, si compone di due momenti normativi: uno lasciato alla legge, che fissa l’architettura essenziale delle società; l’altro completato dallo statuto e dall’atto costitutivo.
Questo accade anche nell’ambito pubblico. Con una differenza essenziale: l’estensione della funzione “costituente” della legge è stata, almeno fino ad oggi, notevolmente più ampia rispetto a quella prevista nel diritto civile, sì da determinare una forte compressione delle funzioni costituenti delle fonti normative locali.
Il motivo di tale fenomeno è legato, ancora una volta, all’articolo 97 della Costituzione, il quale stabilisce che sia la legge a determinare l’organizzazione degli uffici. Pertanto, si è assistito nel corso degli anni ad uno straripamento delle norme di rango legislativo dalla funzione costituente (individuazione di organi e di poteri), alla funzione organizzativa (indicazione di dettaglio delle attività degli organi stessi, delimitazione delle reciproche sfere di competenza, modalità di funzionamento).
Tale straripamento ha anche determinato la storica difficoltà a distinguere ciò che attiene alla materia costituente-ordinamentale, dalla vera e propria funzione di organizzazione.
Una vera e propria valorizzazione delle funzioni normative locali si avrà quando il legislatore, nel disciplinare la materia degli organi e dei loro poteri, seguirà la falsa riga del codice civile per le società private, senza fissare nel minimo dettaglio né gli organi, né le competenze.
In ogni caso, comunque, se statuti e regolamenti si caratterizzano per una specifica potestà normativa in materia di organizzazione, non si può che concordare col Tar Napoli quando sottolinea che l’articolo 107 del d.lgs 267/2000, nel menzionare lo statuto come fonte destinataria del potere di individuare le competenze dirigenziali in attuazione del principio di separazione:
1)            attribuisce allo statuto non la potestà “costituente” di stabilire a quale organo locale assegnare la titolarità di poteri pubblici, perché tale titolarità è predeterminata dalla legge;
2)            si limita ad assegnare allo statuto il compito di precisare le modalità di esercizio dei poteri degli organi dirigenziali.
Lo statuto, allora, fermo restando che le funzioni di gestione sono ascritte in modo invariabile alla competenza dirigenziale, ha il compito di organizzare (o gettare le basi dell’organizzazione) il modo con cui il complesso della dirigenza esercita tali funzioni. Infatti, posto che alla dirigenza siano attribuiti poteri gestionali, poiché tali poteri sono esplicabili nell’estesissima gamma delle funzioni e dei servizi che gli enti locali debbono erogare, occorre stabilire come organizzare l’esercizio di tali funzioni e servizi, fissando le regole per la ripartizione dei vari compiti all’interno degli uffici e dei funzionari di diverso livello. In altre parole, le attribuzioni di poteri alla dirigenza ed agli organi di governo locali sono di pertinenza della legge. La specificazione di tali competenze è compito dello statuto e dei regolamenti locali, precisando che il dettaglio della norma in merito alle competenze degli organi di governo è tale che ben poco può lo statuto in merito.
Organizzare implica il compito di attribuire compiti operativi, nell’ambito di competenze fissate dalla legge.
Gli enti debbono, quindi stabilire:
1)            di quante strutture di massima dimensione dotarsi;
2)            i modi di attribuzione degli incarichi di direzione di tali strutture;
3)            quali funzioni gestionali assegnare a ciascuna struttura, individuando criteri di omogeneità, influenzati dalla quantità e qualità delle dotazioni di personale, strumentali e finanziarie;
4)            in quante e quali strutture intermedie quelle di massima direzione si scompongono;
5)            quali sono le funzioni di questi ulteriori elementi organizzativi;
6)            quali sono i poteri da assegnare a tali strutture;
7)            quali sono i sistemi di coordinamento delle funzioni e di controllo;
8)            quali sono gli organismi o i soggetti ai quali sono assegnate funzioni di coordinamento (per il coordinamento della dirigenza di vertice è già la legge a prevedere che provveda il segretario comunale o il direttore generale);
9)            quali sono le modalità di esercizio delle funzioni gestionali, indicando risorse, tempi, indicatori di qualità e quantità delle prestazioni;
10)          quali sono i processi di workflow, la modulistica da usare, i metodi gestionali concreti.
Si tratta di una serie di operazioni che va dalla macro organizzazione, alla definizione di dettaglio delle modalità operative, dalla strutturazione generale dell’ente, all’attuazione della legge 241/1990.
In questo ambito, lo statuto ha il compito di fissare una disciplina generale, sostanzialmente limitata ai precedenti punti 1, 2 e 3, limitandosi, per questo, a sole indicazioni di principio.
Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi interviene a dettagliare meglio i punti da 1 a 3 e a prescrivere la disciplina di cui ai punti 5, 6, 7, 8.
Il Peg precisa quanto al punto 9.
La concreta gestione, mediante atti di micro organizzazione, attiene al punto 10.
Una volta che si sia così delimitata la funzione organizzativa, non si potrebbe mai porre il problema della competenza degli statuti o dei regolamenti di organizzazione a determinare le titolarità dei poteri degli organi, che sono predeterminate dalla legge senza alcuna possibilità di intervento delle fonti locali, se non per la funzione di “specificare” le attribuzioni normative.
Questo quadro non è stato intaccato dalla legge 131/2003, che consente ai regolamenti di derogare alle disposizioni di legge in tema di organizzazione, ma nel rispetto dei principi generali in materia di organizzazione pubblica e delle disposizioni di legge sull’attribuzione delle competenze.
In sostanza, si consente di trasportare una disciplina organizzativa dalla fonte legislativa a quella regolamentare locale, ma pur sempre nei limiti in cui la legge consenta ai regolamenti di provvedere in tal senso e nella misura in cui la legge non si riappropri di tale funzione.
E’, comunque, da escludere che norme sull’organizzazione possano contenere disposizioni sulla “costituzione” dei poteri, almeno finchè il legislatore non lo disponga espressamente.
La valorizzazione della potestà normativa locale operata dalla legge 131/2003 va correttamente inquadrata nel quadro della gerarchia delle fonti, pur sempre fissato dalla Costituzione.
Sebbene in termini generali si possa affermare che l’assetto del rapporto tra le fonti vada sempre più verso l’abbandono del rigido criterio gerarchico, in favore del principio della competenza, a ben vedere la legge 131/2003 non modifica la posizione di statuti e regolamenti nella gerarchia delle fonti, in quanto è la stessa legge costituzionale 3/2001 a non aver prodotto, in realtà, una modifica di tale rapporto.
E’ certamente corretto rilevare che per effetto dell’articolo 114 novellato della Costituzione la potestà normativa locale assume un ruolo ed una veste mai posseduta in precedenza. Infatti, sebbene il combinato disposto degli articoli 5 e 128 della Costituzione ante riforma consentiva di reperire nella carta costituzionale la radice di una potestà normativa locale, essa era posta espressamente solo dal legislatore ordinario. In particolare, è stata la legge 142/1990 ad introdurre la potestà statutaria e a ridefinire l’assetto della potestà regolamentare, già da molto conosciuta e regolata dalla legge.
Con la riforma del Titolo V della Costituzione, tuttavia, le tipiche fonti normative locali, statuti e regolamenti, trovano un espresso riconoscimento costituzionale. Per la prima volta la Costituzione pone e disciplina la potestà normativa locale. Si è compiuta, dunque, una scelta normativa molto forte, che preclude al legislatore ordinario ogni possibilità di tornare indietro sulla volontà di attribuire agli enti locali una forte potestà normativa. Solo il legislatore costituente, infatti, potrebbe rivedere l’assetto normativo ridisegnato dalla legge costituzionale 3/2001.
In presenza, in particolare, di una forte costituzionalizzazione della sussidiarietà (operata con la novellazione dell’articolo 118 della Costituzione), non può che sussistere in capo agli enti locali, per definizione quelli maggiormente prossimi alla popolazione amministrata, una correlata intensa potestà normativa.
La valorizzazione, però, di tale potestà non conduce ad una modifica dell’assetto delle fonti, così come conosciute dalla Costituzione.
Né tale modifica potrebbe derivare dalle disposizioni contenute nella legge 131/2003, la quale, essendo una legge ordinaria, la cui dichiarata funzione è l’attuazione della riforma costituzionale, non potrebbe certamente dare corso a ciò che la Costituzione stessa non ha fatto, cioè elevare di rango le fonti locali, sì da porle allo stesso livello della legge o, comunque, in relazione di competenza con la legge.
L’articolo 4, comma 1, della legge 131/2003, infatti, nell’affermare che comuni, province e città metropolitane hanno potestà normativa secondo i princìpi fissati dalla Costituzione e specificando che tale potestà normativa consiste nella potestà statutaria e in quella regolamentare non fa altro che dettare una regola pienamente conforme a quanto prevede il già citato articolo 114, dando luogo ad una disposizione normativa priva di capacità innovativa del diritto[7].
Gli statuti restano fonti normative secondarie. In primo luogo essi sono certamente subordinati alla Costituzione, con la quale non possono contrastare, visto che la potestà statutaria si esplica secondo i principi fissati dalla Costituzione, cioè “nel modo richiesto da …”, “conformemente a …”, “in dipendenza di…”, utilizzando espressioni analoghe a “secondo a…”, reperibili nei vocabolari. Ma, se gli statuti “dipendono” dalla Costituzione, non possono contrastare con essa e quindi, le sono certamente subordinati.
Tale posizione di sottoposizione alla Costituzione è confermata dalla previsione contenuta nell’articolo 4, comma 2, della legge 131/2003, a mente del quale “lo statuto, in armonia con la Costituzione e con i princìpi generali in materia di organizzazione pubblica, nel rispetto di quanto stabilito dalla legge statale in attuazione dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, stabilisce i princìpi di organizzazione e funzionamento dell’ente, le forme di controllo, anche sostitutivo, nonché le garanzie delle minoranze e le forme di partecipazione popolare”.
Tale norma pone i seguenti criteri di regolazione dei rapporti tra statuto Costituzione e leggi:
1)       dipendenza dalla Costituzione;
2)       armonia con la Costituzione;
3)       armonia con i princìpi di organizzazione pubblica (anche di fonte non costituzionale);
4)       rispetto della legge di cui all’art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione.
In particolare il quarto criterio è fondamentale per rilevare che lo statuto non dispone di un’area normativa a sé riservata per la disciplina dell’ordinamento interno. Al contrario, la Costituzione ha riservato alla legge dello Stato la potestà di disporre legislativamente in merito a materie importantissime per la disciplina ordinamentale, come la legislazione elettorale, la disciplina degli organi di governo e la disciplina delle funzioni fondamentali degli enti.
E’ discusso in dottrina se sulle altre materie dell’ordinamento locale abbia potestà normativa la regione, in attuazione della potestà legislativa generale e residuale assegnatale dall’articolo 117, comma 4, della Costituzione, o se, invece, la Costituzione non abbia riservato agli statuti quanto meno una potestà residuale sull’ordinamento locale, con l’eccezione delle sole materie assegnate alla potestà normativa dello Stato.
Contro tale tesi, tuttavia, concorrono due osservazioni. In primo luogo, la potestà legislativa delle regioni è generale: riguarda, quindi, tutte, senza eccezione alcuna, le materie non riservate alla potestà legislativa dello Stato. Ciò significa che le leggi regionali incontrano una limitazione alla propria potestà legislativa solo in riferimento alla potestà legislativa assegnata dalla Costituzione allo Stato. Nella carta costituzionale non si riscontra alcun limite alla potestà legislativa regionale in rapporto alla potestà statutaria.
A differenza degli statuti regionali, ai quali la Costituzione riserva materie normative espressamente all’articolo 123, non si riscontra alcuna riserva espressa di materie a beneficio dello statuto degli enti locali.
Ma, in mancanza di una riserva di competenza, si deve concludere che non sussista un rapporto di competenza tra fonti.
La valorizzazione, allora, della potestà normativa locale non passa attraverso la modifica della posizione degli statuti locali nella gerarchia delle fonti, nonostante vi sia il chiaro intento del legislatore costituente di porre comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato in posizione di “pari dignità”, come enti territoriali tutti concorrenti alla costituzione della Repubblica.
La pari dignità, in effetti, comporta necessariamente il riconoscimento e la valorizzazione di ruoli, competenze e funzioni di tali enti. Ma non può portare alla medesima rilevanza di tali ruoli, competenze e funzioni.
Ciascun ente ha pari dignità, ma nel rispetto della propria dimensione territoriale, dell’estensione delle proprie competenze, dei confini della propria potestà normativa.
La pari dignità presuppone che la Costituzione riconosca espressamente una potestà statutaria per gli enti locali e che parifichi la potestà legislativa regionale a quella statale. Ma ruolo, competenze e funzioni dello Stato sono diversi, peculiari rispetto a quelli degli altri enti. Lo stesso avviene nei rapporti reciproci.
Dunque, l’articolo 114 della Costituzione pone la “pari dignità”, non “equiparazione” tra enti. Del resto, se così non fosse, la legge costituzionale 3/2001 avrebbe dato vita non ad un sistema di autonomia policentrica, ma avrebbe fatto sorgere tantissimi enti dotati di sovranità, tutti provvisti di poteri normativi legislativi equiparati tra loro.
La sentenza 24 luglio 2003, n. 274 della Corte Costituzionale conferma che agli enti locali la legge 3/2001 non abbia attribuito una riserva di competenza a livello statutario. La Consulta ha, infatti, chiarito in modo estremamente tranciante che “lo stesso art. 114 della Costituzione non comporta affatto una totale equiparazione fra gli enti in esso indicati, che dispongono di poteri profondamente diversi tra loro: basti considerare che solo allo Stato spetta il potere di revisione costituzionale e che i Comuni, le Città metropolitane e le Province (diverse da quelle autonome) non hanno potestà legislativa”.
Dunque, la potestà normativa statutaria non corrisponde a quella legislativa. E, mancando una riserva di competenza espressa, allora non può che rimanere subordinata alla legge, sebbene la Costituzione indubbiamente ponga, in via indiretta, un principio di preferenza dello statuto rispetto alla legge nella disciplina dell’ordinamento interno di ciascun ente (vedremo meglio di seguito come dovrebbe esplicarsi tale “preferenza”).
Un punto focale della legge 131/2003 è rappresentato dall’articolo 4, comma 3, a mente del quale “l’organizzazione degli enti locali è disciplinata dai regolamenti nel rispetto delle norme statutarie”.
L’Anci[8] attribuisce particolare enfasi a questa disposizione, mettendola in stretta relazione con il comma 6 del medesimo articolo 4, ai sensi del quale “fino all’adozione dei regolamenti degli enti locali, si applicano le vigenti norme statali e regionali, fermo restando quanto previsto dal presente articolo”.
Limitandosi alla lettura di questi due commi, si potrebbe concludere che effettivamente l’organizzazione è riservata ai regolamenti locali, i quali risultano soggetti solo allo statuto.
Tuttavia, richiamando quanto rilevato sopra in merito all’inesistenza di una riserva di materie alla potestà normativa locale, il combinato disposto dei commi 3 e 6 dell’articolo 4 della legge 131/2003 non può né interpretarsi come riserva ai regolamenti locali della materia dell’organizzazione, né considerarsi come dettato che fissa un assoggettamento della legge ai regolamenti.
Infatti, se la Costituzione non ha previsto tale riserva di competenza, certo non può provvedere il legislatore ordinario, per il noto principio che la legislazione ordinaria non può prevedere riserve normative, che possono essere fissate solo dal legislatore costituente. Il legislatore ordinario può solo decidere come attuare la propria potestà normativa, stabilendo di non intervenire in maniera pervasiva su tutta la regolamentazione della materia di propria competenza, demandando alla normazione secondaria, di altri organi o enti (Governo o enti locali) una parte della disciplina normativa.
In secondo luogo, se così non fosse, significherebbe che il legislatore ordinario, esercitando poteri costituenti, avrebbe assegnato ai regolamenti un ruolo quasi sovraordinato alle leggi.
In realtà, l’articolo 4, comma 3, della legge 131/2003 risulta una norma priva di contenuto particolarmente innovativo.
Essa, infatti, non fa che riprodurre, quanto già previsto dall’articolo 89 del D.lgs 267/2000, che al comma 1 dispone che “gli enti locali disciplinano, con propri regolamenti, in conformità allo statuto, l’ordinamento generale degli uffici e dei servizi, in base a criteri di autonomia, funzionalità ed economicità della gestione e secondo principi di professionalità e responsabilità”. Anche in questo caso la legge 131/2003 ha posto in essere, dunque, una norma dal contenuto innovativo inesistente.
L’identità tra l’articolo 4, comma 3, della legge 131/2003 e l’articolo 89, comma 1, del D.lgs 267/2000 appare assoluta. Quest’ultima norma si diffonde, poi (anche nei successivi commi), nell’esplicitazione di una serie di principi regolatori delle modalità di organizzazione.
I regolamenti di organizzazione restano quelli che sono: regolamenti indipendenti, ma pur sempre fonte secondaria, subordinata alla legge, che può espandere i propri contenuti normativi, in conseguenza di una ritrazione da tale compito da parte della legge.
Non si può parlare di una riserva di competenza regolamentare sull’organizzazione, perché l’articolo 117, comma 6, della Costituzione non pone affatto tale riserva in modo espresso. Sicchè, tale operazione non potrebbe essere condotta dalla legge ordinaria.
D’altra parte, se, come correttamente affermato dalla Corte costituzionale, gli enti locali non hanno potestà legislativa; se l’articolo 97 della Costituzione pone la riserva di legge sulla materia dell’organizzazione; allora, i regolamenti locali (così come gli statuti) non dispongono né di forza pari ordinata alla legge, né sono con questa in relazione di competenza: la legge mantiene il potere di disciplinare l’organizzazione.
Alcuni interpreti, in base all’articolo 4, comma 6, della legge 131/2003, traggono la conclusione che essa avrebbe attribuito ai regolamenti locali il potere di caducare le norme di legge.
A mente dell’articolo 4, comma 6, della legge 131/2003, infatti, “fino all’adozione dei regolamenti degli enti locali, si applicano le vigenti norme statali e regionali, fermo restando quanto previsto dal presente articolo”. Letta così, isolata dal contesto, in effetti la norma in apparenza può sembrare idonea a fondare nei regolamenti locali una generale forza disapplicativa delle leggi.
Ma a ben vedere, le cose non stanno e non potrebbero stare così. Perché se così fosse, una legge ordinaria avrebbe posto in essere una fonte a sé sostanzialmente pari ordinata. Esercitando così un potere che le è precluso, come sostiene la pacifica ed unanime dottrina, la quale riconnette, in un sistema normativo gerarchico e rigido quale quello italiano, solo alla Costituzione, quale fonte di disciplina di tutte le altre fonti, il potere di stabilire quali fonti siano collocate al livello primario, cioè quello legislativo.
Tuttavia, come visto sopra, la Costituzione non ha fatto del regolamento locale una fonte normativa equiordinata alla legge o, quanto meno, posta in relazione di competenza.
Al contrario, i commi 2, 3, 4 e 6 dell'articolo 117 della Costituzione costruiscono un sistema delle fonti nel quale la preminenza normativa continua ad essere attribuita alla legge, vista ancora come fonte primaria e privilegiata, in quanto espressione della sovranità popolare al massimo livello territoriale, quello statale.
La legge, infatti, in primo luogo è la fonte dotata del potere di disciplinare tutte le possibili materie e, dunque, a determinare l'ordinamento normativo. La Costituzione non ha escluso nessuna materia dalla potestà legislativa attribuita complessivamente a Stato e regioni, limitandosi solo a definire le regole per ripartire la legislazione tra i vari enti in relazione a specifiche materie. Non si riscontra, come già detto, nessuna assegnazione di una particolare materia ad altre fonti.
La legge dello Stato estende la sua disciplina nel rispetto dei limiti di competenza fissati dai commi 2 e 3 dell’articolo 117; la legge regionale completa il quadro, essendo competente in riferimento ad ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione statale, senza eccezione alcuna. Dunque, la legge, espressione della potestà normativa primaria statale e regionale, disciplina in via prioritaria ogni materia.
L’articolo 4, comma 6, della legge 131/2003, allora, deve essere interpretato in altro modo. I regolamenti, sia statali, sia regionali, sia locali, se la legge ha un'estensione normativa infinita, non dispongono di alcuna area o sfera o insieme di competenze proprie e riservate.
Per di più, la lettura della Costituzione conferma che non solo i regolamenti locali non sono posti in relazione di competenza con la legge, ma restano in posizione sotto ordinata. Lo conferma la stessa formulazione del comma 6 dell'articolo 117 della carta costituzionale.
Appare chiaro che il comma 6, citato, il quale disciplina i regolamenti dopo che i precedenti commi hanno trattato della potestà legislativa, consideri i regolamenti stessi come fonti che dipendono dalla legge, o che nella legge trovano pur sempre la loro base e radice.
L'oggetto, infatti, della fonte regolamentare è messo in stretta relazione con l'oggetto della fonte legislativa. Il comma 6 dispone che la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva. Spetta alle regioni, in ogni altra materia.
Ma poiché le materie sono disciplinate in via principale dalla legge, è evidente che i regolamenti costituiscono ancora, anche vigente la novella costituzionale, il completamento o il dettaglio della disciplina normativa primaria della legge.
La potestà regolamentare è ancora connessa funzionalmente, come attività di completamento o esecuzione, funzionale a quella legislativa, alla quale resta subordinata, in quanto la Costituzione non ha eliminato il primato della legge come fonte principale della disciplina dei rapporti sociali.
Se, allora, la Costituzione non ha attribuito ai regolamenti locali né una posizione equiordinata alla legge, né li ha posti con essa in relazione di competenza, non è possibile concludere che tale funzione l’abbia svolta una legge ordinaria, quale la 131/2003.
Occorre necessariamente interpretare l’articolo 4, comma 6, di tale legge, allora, sotto una luce del tutto diversa.
Una prima chiave di lettura di questa norma è di considerarla come regola volta ad assicurare la continuità del sistema normativo. L’articolo 4, comma 6, della legge 131/2003 è, in sostanza, l’omologo dell’articolo 1, comma 2, della medesima legge, il quale prevede il principio della continuità dell’efficacia delle leggi statali nelle materie riservate dalla Costituzione alla legge regionale e viceversa.
La regola dettata con l’articolo 4, comma 6, non è diversa. Si stabilisce che nonostante i regolamenti locali abbiano assunto una particolare preminenza per alcune specifiche modalità di svolgimento delle funzioni degli enti locali, finchè detti enti non abbiano adottato i regolamenti si applicano comunque le disposizioni vigenti in materia di fonte legislativa, sia statale, sia regionale.
In secondo luogo, basta osservare che il comma 6 dell’articolo 4 della legge 131/2003 nel disporre che "fino all'adozione dei regolamenti degli enti locali, si applicano le norme statali e regionali, fermo restando quanto previsto dal presente articolo" conferma espressamente che le leggi regionali hanno competenza nella materia dell'ordinamento locale e dell'organizzazione degli uffici degli enti locali. Pertanto, i regolamenti si inseriscono in un ambito normativo pur sempre dominato dalla fonte legislativa, risultando privi di una potestà esclusiva.
Ma, soprattutto, il comma 6 non introduce alcun criterio di cedevolezza delle leggi rispetto ai regolamenti. Infatti ribadisce che “rimane fermo quanto previsto dal presente articolo”. Ma tale articolo prevede che gli enti locali dispongono di una potestà normativa statutaria e regolamentare. La prima deve essere esercitata in armonia con la Costituzione, con i principi generali in materia di organizzazione pubblica e nel rispetto della legge statale di attuazione dell’articolo 117, comma 2, lettera p).
La potestà regolamentare, a mente del comma 3 dell’articolo 4, è prevalentemente volta all’organizzazione degli enti locali ed è esercitata “nel rispetto delle norme statutarie”.
I limiti normativi, allora, incontrati dai regolamenti non possono essere diversi o meno estesi rispetto a quelli previsti per gli statuti. La potestà normativa locale è soggetta agli stessi limiti.
Anzi, i regolamenti incontrano limiti maggiori, derivanti dalla necessità di rispettare anche le disposizioni statutarie.
I limiti degli Statuti, visti prima sono:
1)       dipendenza dalla Costituzione;
2)       armonia con la Costituzione;
3)       armonia con i princìpi di organizzazione pubblica (anche di fonte non costituzionale);
4)       rispetto della legge di cui all’art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione
I limiti dei regolamenti sono i seguenti:
1)       dipendenza dalla Costituzione;
2)       armonia con la Costituzione;
3)       armonia con i princìpi di organizzazione pubblica (anche di fonte non costituzionale);
4)       rispetto della legge di cui all’art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione;
5)       rispetto degli Statuti.
Vista la loro subordinazione agli statuti, i regolamenti devono rispettare i limiti al corretto esercizio della potestà statutaria, non essendo ammissibili deroghe legislative in favore di fonti subordinate agli statuti, ai quali tali deroghe, come visto sopra, risultano a loro volta precluse.
A ben vedere, allora, il contenuto normativo dell’articolo 4, commi 1 e 6 della legge 131/2003 risulta nullo, perché l’autonomia regolamentare organizzativa era già disciplinata con le medesime modalità dal testo unico sull’ordinamento delle autonomie locali.
Poiché, come visto prima, l’articolo 4, comma 6, della legge 131, comma 6, ammette una possibilità di intervento della legge nella materia dell’organizzazione locale, occorre concludere che leggi e regolamenti di organizzazione non sono posti in rapporto di competenze e che, pertanto, non sussista una riserva in favore dei regolamenti.
Non pare, dunque, che vi siano eccessive modifiche rispetto al regime della potestà regolamentare descritto dall’articolo 7 del d.lgs 267/2000. Questo vale anche per lo statuto, dal momento che l’articolo 4, comma 2, della legge 131/2003, assegna alla fonte statutaria solo una parte delle competenze già considerate e previste dall’articolo 6 del d.lgs 267/2000.
Si può, però, sostenere che l’ampliamento della potestà statutaria e regolamentare sia rimesso alla capacità del legislatore di autolimitarsi, in adempimento alla riforma della Costituzione che assegna alla legge il compito di definire gli ambiti, i confini generali dell'organizzazione, dovrebbe astenersi dall’entrare eccessivamente nel dettaglio definitorio delle modalità organizzative dell’ente locale.
Occorre considerare, ancora, che il testo dell'articolo 117, comma 6, della Costituzione non è volto, a ben vedere, a determinare le “materie” assegnate alla potestà regolamentare di comuni, province e città metropolitane. In altre parole, l'organizzazione, citata da tale comma, non è la materia concernente la definizione dei ruoli e dei compiti della struttura amministrativa.
L'articolo 117, comma 6, nel suo ultimo periodo, è da interpretare non isolatamente, ma necessariamente in combinato disposto con l'articolo 118, del quale è completamento e, nello stesso tempo, presupposto.
Infatti, l'articolo 117, comma 6, lungi dall’assegnare ai regolamenti locali una competenza esclusiva nella fissazione dell’organizzazione interna, rappresenta, invece, la regola che detta le modalità con le quali sono esercitate le funzioni amministrative degli enti locali.
Dunque, l'articolo 118 stabilisce i criteri di attribuzione e conferimento delle funzioni amministrative agli enti locali (costituzionalizzando i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza come regole dinamiche di assegnazione delle funzioni amministrative). Da parte sua, l'articolo 117, comma 6, assegna agli enti locali, in quanto titolari delle funzioni amministrative, la potestà di stabilire, mediante regolamenti, come organizzare non tanto le proprie strutture, quanto, invece, le funzioni loro attribuite.
I regolamenti locali di cui all'articolo 117, comma 6, dunque, hanno ad oggetto non l'organizzazione degli enti, ma la definizione dei metodi di svolgimento delle funzioni amministrative e, dunque, i procedimenti e l’assetto delle competenze gestionali interne. Solo indirettamente, allora, la struttura dell’ente è oggetto di detti regolamenti. Indirettamente perchè la conformazione delle procedure da un lato è influenzata dall'organizzazione delle strutture; dall'altro perchè una certa modalità di definizione di una procedura, può portare alla modifica di una struttura organizzata (si pensi all'introduzione degli sportelli unici).
D'altra parte, poiché la legge dello Stato, a mente dell'articolo 117, comma 2, lettera p), provvede in via esclusiva (ad esclusione, dunque, di qualsiasi altra fonte) a disciplinare le funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane, è chiaro che in tali ambiti i regolamenti locali non possono che essere fonti subordinate alla legge, poichè questa è l'unica fonte abilitata ad intervenire. In questo senso, l'articolo 117, comma 2, lettera p), è una sorta di riserva di legge. Dunque, i regolamenti locali rispetto alle funzioni fondamentali possono intervenire con una propria disciplina solo nella misura in cui il legislatore statale lo consenta. La portata dell'intervento regolamentare sarà tanto più ampia, quanto più il legislatore legiferi per ampli principi e consenta ai regolamenti di dare contenuto concreto e di dettaglio alla norma.
Analoga conclusione, tuttavia, può ricavarsi anche per i regolamenti attinenti alle funzioni proprie e conferite. Infatti, tali funzioni sono attribuite o conferite pur sempre con legge, in questo caso tanto statale quanto regionale. Pertanto, la disciplina generale delle funzioni è, comunque, sempre basata sulla legge. I regolamenti in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni, dunque, sono fonti comunque subordinate alla legge.
Ma poiché sono regolamenti esplicitamente assegnati alla potestà degli enti locali, Stato e regioni non possono invadere la competenza regolamentare con altrettanti regolamenti.
Se, allora, la Costituzione non ha modificato la relazione gerarchica tra leggi e regolamenti, ha certamente posto in relazione di competenza i regolamenti di Stato, regioni ed enti locali. I primi due enti non possono, allora, con regolamento incidere sull'organizzazione e lo svolgimento delle funzioni degli enti locali.
Potrebbero con legge. A patto, però, che si tratti di leggi brevi, di ampli principi, tali da non comprimere un'autonomia regolamentare che, in quanto prevista dalla Costituzione, non può non essere valorizzata.
Questa è la corretta chiave di lettura per interpretare i commi 4 e 6 dell’articolo 4 della legge 131/2003.
Il comma 4, infatti, proprio in linea con quanto detto fin qui, stabilisce che "la disciplina dell'organizzazione, dello svolgimento e della gestione delle funzioni dei comuni, delle province e delle città metropolitane è riservata alla potestà regolamentare dell'ente locale, nell'ambito della legislazione dello Stato o della regione, che ne assicura i requisiti minimi di uniformità, secondo le rispettive competenze, conformemente a quanto previsto dagli articolo 114, 117 sesto comma e 118 della Costituzione". Si nota il collegamento tra articolo 117, comma 6 ed articolo 118 della Costituzione citato prima. Allora, la legge 131/2003 non ha previsto per i regolamenti locali una vera riserva di competenza, ma si è occupata della definizione dei rapporti tra legge e regolamenti nel senso di escludere che le leggi possano entrare nella regolamentazione diretta della materia organizzativa, come per esempio, indicando quali e quanti uffici debbano esistere, quali compiti debbano svolgere, quali procedure debbano seguire. E, soprattutto, di escludere che a questo scopo possano essere adottati regolamenti statali o regionali[9].
Le leggi statali e regionali, semmai, possono solo limitarsi a dettare criteri minimi di uniformità nella gestione delle funzioni, per evitare che da un ente all’altro vi siano eccessive differenze, incidenti in maniera negativa sulla popolazione amministrata.
Quindi, i regolamenti cui si riferisce il comma 6 dell’articolo 4 della legge 131/2003 sono proprio quelli mediante i quali gli enti locali dettano la disciplina di organizzazione e svolgimento delle loro funzioni, non i regolamenti “di organizzazione” delle strutture amministrative.
Lo scopo dell’articolo 4 della legge 131/2003 consiste, dunque, nel permettere agli enti locali di emanare regolamenti dotati della forza normativa di stabilire le regole procedimentali necessarie per il corretto espletamento delle funzioni di propria competenza, sia quelle delle quali sono titolari originari, sia quelle conferite dallo Stato o dalle regioni, in base al principio della sussidiarietà.
Finchè non siano emanati tali regolamenti, si applicano le leggi, anche per la parte in cui dettino specifiche modalità procedurali.
I regolamenti di cui all’articolo 4 della legge 131/2003, comunque, debbono rispettare l’ambito definito dalla legislazione statale e regionale. Non sono idonei, dunque, ad innovare l’ambito normativo, ma possono specificare modalità operative all’interno di un disegno normativo previsto dalla legge.


[1] A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, ed. Novene, Napoli 1989, pag. 240.
[2] V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, cit., pag. 141.
[3] F. G. Scoca, in Diritto amministrativo, pag. 609.
[4] Secondo F. G. Scoca, in Diritto amministrativo, cit., pag. 610, il coordinamento non è tanto una relazione organizzativa, quanto il risultato dell’esercizio di poteri organizzativi, pertinente a diversi tipi di rapporti organizzativi.
[5] Secondo G. Corso, L’attività amministrativa, ed. Giappichelli, Torino, 1999, pag. 200, la ripartizione del potere amministrativo tra una pluralità di apparati, in modo che la competenza sia prefissata, corrisponde non alla sola, ovvia, esigenza di dividere il lavoro, ma, soprattutto, di apprestare al cittadino la garanzia di poter conoscere preventivamente i soggetti di diritto pubblico ai quali rivolgersi, per il perseguimento dei propri interessi.
[6] P. Sacco, Il profilo della delega cit., pag. 6; V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, cit. pag. 144; V. Italia, G. Landi, G. Potenza, Manuale cit., pag. 76.
[7] In senso conforme, R. Nobile, L’accesso ai pubblici impieghi mediante pubblico concorso e le sue deroghe nella giurisprudenza della Corte costituzionale, con particolare riferimento agli enti locali territoriali, in http://www.lexitalia.it/articoli/nobile_concorso.htm.
[8] Allegato tecnico alla lettera di presentazione della legge 131/2003 ai sindaci, in www.anci.it.
[9] Si veda, in tal senso, O. Forlenza, G. Terracciano, Regioni ed enti locali dopo la riforma costituzionale, ed. Il Sole 24Ore, Milano, 2002, pagg. 146-149.

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