La circolare 2/2020 della
Funzione Pubblica e l’Accordo del 4 aprile, sempre tra Funzione Pubblica e
sindacati, pongono un problema enorme, relativamente all’esenzione dal lavoro
prevista dall’articolo 87, comma 3, del d.l. 18/2020.
I due documenti, infatti, postulano
che il dipendente esentato conserva il diritto all’integrale trattamento
economico, comprensivo anche del salario accessorio (quello anche legato alla
presenza in servizio e all’assunzione di responsabilità varie).
Un’indicazione che appare
oggettivamente erronea e difficile da considerare legittima. Infatti, si
tratterebbe di pagare, per esempio, l’indennità condizioni di lavoro, che è
strettamente connessa alla presenza in servizio, a chi in servizio non sia.
Ci sarebbe da chiedersi cosa ne
pensa la Corte dei conti. A ben vedere, avrebbe dovuto essere la Funzione
Pubblica a chiederlo, prima di emanare la circolare e di sottoscrivere l’accordo.
Non risulta che la magistratura contabile sia stata contattata, né che si sia
pronunciata sul tema.
Chi esenti dal servizio
dipendenti e garantisca loro l’intera retribuzione seguendo le indicazioni di
Palazzo Vidoni si assume un rischio molto forte e deve solo sperare che le
discutibili previsioni provenienti dalla Funzione Pubblica possano essere
considerate come esimenti dalla colpa grave, nel caso di azioni delle procure
contabili.
Fermo restando che la normativa e,
soprattutto, le sue interpretazioni “ufficiali” sono mal congegnate ed
equivoche, in dottrina e tra gli operatori si è pensato ad una strada alternativa:
l’utilizzazione dell’orario plurisettimanale, invece dell’esenzione.
L’idea di base è in apparenza
semplice: si prevede un orario a zero ore per i dipendenti non organizzabili in
smart working e non impiegabili in attività indifferibili da svolgere in
presenza, per tutta la durata della situazione di emergenza.
Poniamo per semplicità, che si
tratti di un mese a zero ore. Il che implica la necessità di recuperare le ore
in almeno 4 mesi, occorrendo circa 18 settimane lavorative a 45 ore, composte
da 5 giorni da 9 ore ciascuno.
Sul piano aritmetico le cose
funzionano. Su quelli organizzativo e contrattuale i problemi non mancano.
Postulare che un dipendente per molto
tempo debba rendere la propria prestazione lavorativa per 9 ore al giorno, ogni
giorno ha alcune difficoltà logistiche. Se, infatti, l’ente sia organizzato in cinque
giornate lavorative a settimana, delle quali due con rientri, la continua
presenza di uno o più lavoratori anche nei pomeriggi in cui non vi sia rientro
pone alcune questioni delle quali si elencano solo quelle più immediate: la
vigilanza ed il controllo, sulle loro attività, l’esigenza di evitare che il
dipendente sia unico e solo nell’edificio, questioni connesse al consumo dell’energia,
se il riscaldamento non possa essere circoscritto al solo ufficio nel quale presti
servizio.
Vi sono, poi, difficoltà
organizzative, individuali e generali. In quanto alla difficoltà organizzativa
individuale, va da sé che il personale impiegato in attività che potrebbero
portare all’esenzione dal servizio tendenzialmente svolge, negli enti locali, funzioni
sostanzialmente di “logistica”: possiamo pensare al “portiere” addetto alla
reception di un edificio, piuttosto che ad un commesso interno, adibito diciamo
alla movimentazione di fascicoli e corrispondenza cartacea tra uffici.
Quale reception gestisce l’addetto
nei pomeriggi in cui tutto il resto degli uffici è chiuso? Quali fascicoli
movimenta il commesso, mentre gli altri uffici sono deserti? Sotto questo
aspetto, l’orario plurisettimanale rischia di ripresentare esattamente i
problemi connessi alla mansione che si sono già presentati in relazione all’impossibilità
di adibire il dipendente al lavoro agile o a funzioni da rendere obbligatoriamente
di presenza.
L’orario plurisettimanale,
allora, molto probabilmente deve accompagnarsi alla richiesta di una mansione
diversa, purchè equivalente, che risulti comunque utile, ferma restando la
difficoltà ad evidenziare un’utilità di una prolungatissima presenza in ufficio,
mentre gli altri sono chiusi (laddove si tratti di attività lavorative
esecutive).
C’è poi il problema dell’organizzazione.
L’articolo 25 del Ccnl 21.5.2018 al comma 1 dispone che “La programmazione
plurisettimanale dell'orario di lavoro ordinario, nell’ambito di quanto
previsto dall’art. 22, comma 4, lettera c), è effettuata in relazione a
prevedibili esigenze di servizio di determinati uffici e servizi, anche
in corrispondenza di variazioni di intensità dell’attività lavorativa”.
La variazione dell’intensità
dell’attività lavorativa è oggettivamente dimostrabile dalle forzate scelte
dovute all’emergenza coronavirus.
Sta di fatto che in molti casi,
specie negli enti di minori dimensioni, l’orario plurisettimanale apparirebbe
più ad personam che non volto a risolvere esigenze organizzative di “uffici”
o “servizi”, lemmi tesi ad indicare, in generale, una pluralità di persone
adibite a lavori di una certa omogeneità all’interno di strutture
organizzative.
Utilizzare, quindi, l’orario
plurisettimanale per esigenze individuali e non connesse all’organizzazione di
uffici può apparire una forzatura.
D’altra parte, però, tale
forzatura può essere giustificata proprio dalla situazione di emergenza. L’orario
plurisettimanale “ad personam” è comunque una misura che permette al dipendente
individuato di restare a casa, così contribuendo alla prevenzione dal rischio
di contagio. Ed ha anche il beneficio di scongiurare i rischi di responsabilità
erariale connessi all’esenzione dal lavoro. Il dipendente sarebbe posto
temporaneamente a zero ore, dovendo poi recuperare, però, il lavoro non svolto:
in questo modo, la retribuzione piena trova una sua altrettanto piena giustificazione.
Il problema più rilevante,
allora, è quello delle mansioni: come sempre occorre immaginare attività
lavorative misurabili e valutabili, per evitare che l’orario plurisettimanale
si riduca ad una finzione giuridica che implichi un’improduttiva permanenza al
lavoro per molte ore settimanali, per molti mesi.
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