Il lavoro agile fin qui è stato disposto in termini di emergenza ed in modo “raccogliticcio”. L’indagine non fa altro se non confermare quello che era facile immaginare: la carenza formativa e, soprattutto di mezzi.
La PA non ha praticamente investito nulla nelle competenze digitali dei propri dipendenti, così da creare un vasto gap tra chi si è autoformato e chi è rimasto disinteressato all’informatica e telematica. Inoltre, gli investimenti in reti sicure, cloud, piattaforme procedimentali, strumenti di condivisione di archivi e memorie e di procedimenti amministrativi, in firme digitali e Spi, in strumenti di sicurezza e, in particolare, in hardware (pc potenti, smartphone efficienti, collegamenti veloci) ha imposto al legislatore di chiedere ai dipendenti pubblici di andare in smart working prevalentemente con le proprie dotazioni a casa. Era inevitabile che l’assenza pressochè totale di piattaforme in rete per la gestione dei procedimenti dei documenti, mista alle differenti performance delle dotazioni personali dei dipendenti, mista alla differente cultura digitale, creasse problemi operativi.
Il legislatore ne era consapevole e per questo ha disposto la sospensione dei termini procedimentali per quasi due mesi.
Il messaggio da cogliere, sulla base dell’indagine di PromoPA, allora qual è? Il fallimento del lavoro agile?
E’ da sperare che non sia questo. Il lavoro agile, come dimostrano le ricerche in letteratura, esattamente al contrario consente maggiore produttivitià.
Ma, deve trattarsi di lavoro agile “vero”, svolto da dipendenti formati sulle competenze digitali, da parte di datori capaci di predisporre reti veloci e sicure, sulle quali far viaggiare piattaforme procedimentali operative e collaudate, organizzate su cloud, mediante sistemi di riconoscimento digitale dei dipendenti, dotati di pc, smartphone e connessioni internet potenti e performanti.
In sostanza, un lavoro agile non improvvisato, ma organizzato, richiede quegli investimenti che la legge 124/2015 aveva chiesto, ma rimasti quasi del tutto ignorati.
Tornare al lavoro in presenza con pc obsoleti, assenza di reti e, soprattutto, di applicativi utilizzabili da remoto, rinunciando all’aggiornamento digitale dei dipendenti, sarà una tentazione forte.
Anche perché, il lavoro agile richiede un altro elemento fondamentale per funzionare con efficienza: la capacità di progettare il lavoro e le mansioni, in modo da richiedere ai dipendenti risultati precisi, più che un impegno orario chiuso in un segmento tra una timbratura e un’altra.
E’ nota la grave assenza di strumenti di fissazione di risultati operativi e di “prodotti” nella PA, tale da aver reso, nei fatti, i progetti di lavoro agile confusi e inefficienti.
Il rischio dei prossimi mesi sarà questo: l’auspicato esaurimento dell’emergenza potrebbe indurre le PA ad un ritorno al passato, riducendo il lavoro agile ad una parentesi da chiudere per sempre.
Il “decreto semplificazioni” di cui si parla, sbaglierà totalmente bersaglio se continuerà ad avvitare su se stesse norme della legge 241/1990 ancora fondate su una concezione analogica e non digitale delle procedure, esattamente come avvenuto nei confusissimi articoli dedicati ai procedimenti amministrativi del decreto “rilancio”.
La vera semplificazione si avrà con la digitalizzazione, che impone analisi dei procedimenti facendone scaturire, appunto, razionalizzazione e riduzione degli adempimenti. Il legislatore dimostrerà di non voler rinunciare alle potenzialità del lavoro agile (si pensi alla sua estrema utilità per la razionalizzazione della spesa per utenze, affitti, logistica) solo se le future riforme lo faranno passare da facoltà sperimentale in obbligo, sanzionato, nel caso di violazione, da divieti di nuove assunzioni, erogazione di produttività e indennità e gettoni di presenza per gli organi di governo.
In assenza di una decisissima volontà di semplificare mediante la digitalizzazione e di sostenerla con gli inevitabili investimenti, il lavoro agile resterà solo un’occasione mancata.
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