mercoledì 24 giugno 2020

Smart working: la visione asfittica del sindaco di Milano. Un'economia legata al caffè del travet non va da nessuna parte

A molti sfugge il significato letterale di smart working. Vi è la tendenza a confondere il lavoro agile introdotto come misura di emergenza nel pieno della pandemia, con il vero istituto e, quindi, a ritenere che lo smart working sia il lavoro da casa. Producendo l’ulteriore confusione col telelavoro.

Andiamo al significato letterale: l’aggettivo smart, in inglese, ha come primo significato “intelligente”. L’ordinamento italiano ha tradotto un po’ malamente l’espressione come “lavoro agile”, puntando soprattutto appunto sull’agilità del lavoro, intesa come scissione da un modo di rendere la prestazione necessariamente collegato ad un luogo ed un orario.

Ma, lo smart working vero e proprio è un lavoro realmente “intelligente”, cioè intelligentemente organizzato in modo da valorizzare l’elaborazione del prodotto finale, piuttosto che i tempi ed i luoghi di produzione.

L’intelligenza, allora, in cosa consiste? Intanto, in una riflessione: il datore di lavoro deve per forza concentrare gli strumenti di produzione in un unico luogo? E quindi affrontare tutti i problemi di costi manutentivi e di rinnovo?

Da moltissimi anni i ristoranti hanno risolto un problema organizzativo in modo smart, pur senza nessun apporto dell’informatica: il lavaggio delle tovaglie e dei tovaglioli. Invece di acquistarne in grande quantità e mandarle alle tintorie, hanno capito la maggior convenienza di un contratto di servizio, col quale è la tintoria a fornire tovaglie e tovaglioli puliti, mediante un contratto misto di noleggio e servizio.

Tanti datori di lavoro, pubblici e privati, da diverso tempo hanno potuto organizzare una serie di attività idonee alla realizzazione mediante strumenti e sistemi informatici e telematici, comprendendo l’utilità ed opportunità di non acquistare i server, le licenze, i pc, il materiale, affidandosi a servizi remoti, al cloud, ai noleggi.

Da qui a comprendere che l’attività lavorativa, se organizzata indicando con precisione standard lavorativi (cioè tempi medi occorrenti per giungere al prodotto finale, che consentono di stimare un volume di produzione adeguato ad un tempo contrattuale settimanale, mensile ed annuale), può essere resa agganciando i pc in noleggio al cloud ed alle reti da dovunque, il passo è breve.

Invece di noleggiare un pc da desktop, il datore può noleggiare un portatile o laptop, dotato solo dei sistemi operativi che consentano l’accesso alla rete ed ai server remoti, sui quali “viaggiare” utilizzando le piattaforme degli applicativi aziendali, ove svolgere l’attività. Il lavoratore, dotato di questa strumentazione può, a questo punto, realizzare i compiti affidati, da ovunque.

Viene a mancare l’interconnessione necessaria tra “macchina” e “uomo”, grandiosamente rappresentata dal celeberrimo film di Charlie Chaplin “Tempi moderni”.

Il lavoro diviene “intelligente”, perché può essere svolto, con intelligenza, non necessariamente entro le 7,12 ore giornaliere, entro quel luogo, nel quale entrare entro una certa ora e dal quale uscire non prima di una certa ora. Il lavoro può essere svolto nell’ambito di un’ampia fascia oraria, in modo da realizzare quel quantitativo di attività corrispondente agli standard lavorativi tali da assicurare che si rispetti una media produttiva utile a conseguire gli obiettivi settimanali, mensili ed annuali; e può essere svolto, quindi, non necessariamente a partire da un orario fisso ed in un luogo determinato, ma da qualsiasi luogo avente caratteristiche tecniche e di sicurezza che consenta lo svolgimento delle attività. E il dipendente può decidere, nell’arco della fascia decisa, di realizzare i prodotti in sub-fasce orarie di produzione, autonomamente decise, sulla base di un’intelligente organizzazione della propria attività.

Ma, perché il lavoro possa davvero essere “intelligente”, non basta certo la sola intelligenza del datore di lavoro e la capacità e voglia del lavoratore di essere misurato non sul tempo trascorso tra una timbratura in entrata ed una in uscita, bensì sui risultati prodotti. Occorre che sia “intelligente” l’ambiente complessivo di lavoro.

Ora, il sindaco di Milano, nel suo intervento sul Corriere della sera del 23 giugno 2020, pur avendo una notevole esperienza da manager, ha mostrato di non aver pienamente interiorizzato che lo smart working funziona se si è capaci di creare città “smart” e prendere atto dei cambiamenti organizzativi della produzione già in atto.

Afferma il sindaco di Milano che lo smart working “non può essere preso in considerazione senza valutare sino in fondo anche tutti gli effetti collaterali e le ripercussioni che una adozione massiccia di questa modalità — ripeto, senza un percorso di transizione ben governato — può generare sulle città”. E precisa: “Il mio invito degli scorsi giorni di tornare al lavoro, o meglio di tornare ai propri posti di lavoro, in persona, guarda alla complessità di tutto questo. Alla necessità che dopo il virus non si contribuisca anche con scelte sbagliate ad aggravare la situazione di diversi comparti economici, non di certo per perpetrare una società troppo basata sui consumi, ma per aiutare chi oggi rischia di perdere il proprio lavoro a riorganizzarsi, a provare a reinvestire nella propria attività e adeguarla ad un nuovo modello, che andrà esplicitato, condiviso, costruito. In una sola parola governato”.

Senza affermarlo apertamente, il primo cittadino di Milano mostra di considerare lo smart working ostacolo potenziale allo sviluppo di comparti economici. Appare fin troppo chiaro che il riferimento è soprattutto alle attività commerciali, in particolare bar e ristoranti specializzati nelle “pause caffè” e nei pasti veloci della pausa pranzo.

Questo retropensiero è stato esplicitato in maniera molto più chiara ed aperta da Franco Bechis nell’articolo “Lo smartworking ci impoverisce” pubblicato su Italia oggi del 24 giugno 2020.

L’editorialista afferma: “lavorando a casa gli italiani consumano meno. Ma c'è un problema più grande, che avrebbe richiesto piani governativi approfonditi: il lavoro a distanza cambia il volto e l'economia di molte città. Pensate a Roma. Ci sono 407.141 dipendenti pubblici. Se si segue l'idea della Dadone di questi una piccola città - 120 mila (il 30%) - sarà strutturalmente in smart working. Significa che non si recherà nei posti dove lavorava. Non consumerà nemmeno un caffè nei bar dei dintorni, non pranzerà lì con i buoni pasto, non farà acquisti nei negozi dei dintorni. Forse qualcosina di più vicino a casa, ma non è detto. Magari cambierà casa, perché non sarà più necessario vivere a una certa distanza dall'ufficio. Magari tornerà nei paesi da cui proveniva, perché si vive meglio e il costo della vita è più basso. Lo farà anche chi è nato e cresciuto a Roma. I loro figli lasceranno le scuole che frequentavano e, se piccoli, non andranno all'asilo, perché con uno dei due genitori che lavora da casa sarà una spesa risparmiabile, sia pure con fatica”.

Si tratta di visioni dell’economia oggettivamente asfittiche e per nulla smart. Che immaginano lo sviluppo delle città legate al caffè che si consuma nelle pause dai luoghi di lavoro (ma, allora i “furbetti” che si allontanano fanno bene?), al buono pasto per la pausa pranzo (ma, moltissimi il buono pasto non lo consumano affatto durante il pranzo, conservandolo, invece, per utilizzarlo ai fini della spesa nei supermercati), all’acquisto all’uscita dal lavoro.

Questa visione dell’economia delle città non ha certo fin qui aiutato per nulla il Pil, visto che da 30 anni praticamente la crescita è vicina allo zero.

La contropartita di questo modo di vedere l’economia è: rendite di posizione per esercenti commerciali che a peso d’oro conquistino locali nei pochi punti nevralgici di alta concentrazione di uffici ed aziende, a detrimento delle attività commerciali delle periferie; sviluppo delle aree centrali e commerciali, sempre a svantaggio delle periferie e dell’hinterland; intasamento delle vie di comunicazione, affollate di mezzi pubblici e privati che nelle stesse ore, insieme, trasportano in massa in pochi luoghi migliaia e migliaia di persone; code, traffico, emissioni; tempi lunghissimi per il raggiungimento del luogo di lavoro; energie psicofisiche sprecate; prezzi dei locali, degli affitti, dei beni, alle stelle; creazione di quartieri-dormitorio, privi dei servizi e dei trasporti, gioco forza concentrati solo nelle parti in cui logisticamente il lavoro hard le impone.

Un modello perdente ormai da anni e in contrasto chiarissimo con le indicazioni di un’economia nuova e “verde”, inconciliabile con una città “smart” e favorevole al lavoro “smart”.

Uno dei poteri peggio e meno utilizzati dai sindaci, da sempre, è quello della regolazione degli orari dei servizi e degli esercizi pubblici. Si è sempre consentito che scuole, uffici, aziende, luoghi di lavoro si creassero solo in certi punti di concentramento e che svolgessero le loro attività solo in alcuni orari, con le conseguenze deleterie sulla vita delle città sintetizzate prima.

Una città “smart” è quella che riesce ad immaginare altri modelli alternativi. Creare una rete wireless pubblica e potente, alla quale tutti possano accedere da qualsiasi luogo, centrale o periferico è una premessa fondamentale.

Perchè con simile rete internet si darebbe la possibilità all’iniziativa degli esercenti di copiare quel che da molto tempo si vede in Europa: creare punti di incontro e lavoro.

Le librerie non sono più solo librerie, ma anche bar e viceversa; i negozi hanno sempre più spazi da mettere a disposizione per postazioni di lavoro.

L’esercizio commerciale del futuro, anche se ha una vocazione specifica (bar, abbigliamento, generi di consumo di altro tipo), sempre più deve puntare sulla possibilità di mettere a disposizione postazioni di lavoro ergonomiche, sicure, discrete. L’accesso alla rete wireless pubblica, potente ed a sua volta dotata di elementi di sicurezza, potrebbe consentire a moltissime aziende una scelta davvero “smart”: diffondere il lavoro in un “non luogo” nelle città, concordando con ciascun lavoratore che si possa potenzialmente adibire ad attività agile che la propria attività possa essere svolta, oltre che dalla “sede” classica e da casa, anche in questi nuovi luoghi diffusi.

Il che, per altro, non sarebbe nemmeno una grande novità: bar, brasserie, locali pubblici sono stati per anni siti di ritrovo di intellettuali, scrittori, pittori, ove hanno visto la luce romanzi, opere d’arte, riviste culturali.

Si tratta solo di rilanciarle, in una modalità nuova, adeguata alle risorse telematiche. In questo modo gli esercizi commerciali potrebbero rimediare al calo di domanda, creando un altro tipo di offerta, molto appetibile.

Contrariamente a quel che appare, molti lavoratori sono disponibile allo smart working, ma non all’home working che hanno vissuto nel pieno della pandemia. Il lavoro a casa non per tutti è facile e comodo. Non tutte le case hanno le metrature e gli spazi per garantire concentrazione sul lavoro, oppure postazioni ergonomiche, o, soprattutto, connessioni internet efficienti e sicure.

I dipendenti apprezzerebbero moltissimo un lavoro veramente smart fuori di casa, ma non necessariamente e solo nell’ufficio del centro direzionale, da raggiungere dopo spostamenti lunghi e scomodi, con problemi di parcheggio e di conciliazione degli orari con altre esigenze della famiglia.

Una città “smart” può e deve offrire servizi nuovi: reti e, sulla base di una promozione adeguata, esercizi commerciali che offrano il “caffè” come attrattiva per l’occupazione di postazioni che non siano solo ricreative, ma anche lavorative, ove i dipendenti “smart” possano prestare il proprio lavoro.

I comuni hanno un ruolo decisivo per un lancio utile e corretto del lavoro agile. Non solo i grandi comuni, ma tutti. I grandi, come Milano, debbono abbandonare l’idea che il lavoro si concentri solo in pochi siti affollatissimi e difficilissimi da raggiungere, cercando e creando la diffusione.

I piccoli e medi debbono poter collaborare tra loro, puntando sul co-working. La possibilità di lavoro da remoto, ma non a casa, può consentire a tanti lavoratori pubblici (ma a ben pensarci, anche privati) di lavorare nel comune di residenza, ma magari a servizio del diverso comune dal quale si dipende o della diversa pubblica amministrazione di appartenenza, localizzata in altro comune.

I comuni dispongono di spazi talvolta male o poco utilizzati: sale riunioni, edifici dati in parte ad associazioni che li utilizzano poco e prevalentemente la sera. Potrebbero riorganizzare questi spazi, creando a loro volta postazioni di lavoro “smart”, da mettere a disposizione di altre pubbliche amministrazioni e loro lavoratori, ma anche ad aziende private.

Il lavoro si diffonderebbe, la differenza di servizi e di “vita” tra città ed hinterland si livellerebbe, ma verso l’alto.

Inoltre, si deve prendere definitivamente atto che il sistema del lavoratore che va verso il bar si sta estinguendo. E’ sempre più il bar che va verso il lavoratore. Le piattaforme on line di commercio, anche di generi alimentari, hanno preso sempre più piede. I rider possono essere una risorsa per una città “smart” e una definitiva revisione delle garanzie contrattuali del loro lavoro è fondamentale.

L’economia di una città può trarre giovamento dal maggior ordine dei flussi: lavoratori meno stressati dalle difficoltà logistiche degli spostamenti verosimilmente potrebbero dedicare maggior tempo ed energie a musei, cinema, teatri, manifestazioni.

Si tratta solo di toccare i tasti giusti di un meccanismo complesso, sapendo che quelli fin qui toccati danno vita ad una musica vecchia e sgradevole, perché ormai le corde che suonano sono usurate.


1 commento:

  1. Articolo molto interessante, ricco di spunti e condivisibile. A parte la teoria, che ripeto è condivisa, Ci sono gia esempi pratici concreti in territorio comasco o limitrofi da utilizzare come casi di studio? Sarebbe il salto pratico davvero utile.

    RispondiElimina