Per anni si è discusso di come risolvere il problema dei "non garantiti" nel mercato del lavoro, rispetto ai "garantiti".
Il risultato? E' sostanzialmente consistito nel lasciare i non garantiti (giovani, tirocinanti, false consulenze e collaborazioni) nel loro limbo di assenze di garanzia (e spesso lavoro nero), riducendo le "garanzie" per i "garantiti".
L'illusione? Pensare che facilitando i licenziamenti si sarebbero incrementate le assunzioni.
I dati concreti dimostrano che i problemi del mercato del lavoro sono rimasti intatti, come prima delle riforme sulle "garanzie".
Perchè il problema non è tanto guardare alle tutele, ma al sistema produttivo. Un sistema che per anni ha delocalizzato, ridotto gli investimenti, abbandonato l'innovazione, attratto dalla rendita finanziaria e dalla prospettiva di sostituire al rischio di impresa e all'investimento, il contenimento del costo del lavoro.
Questo ha restituito un mercato asfittico, appiattito su produzioni a bassa tecnologia e a basso valore aggiunto.
Nel momento in cui a questo calo di investimenti e prospettive industriali si è affiancato il sostanziale blocco degli investimenti delle commesse pubbliche, la distrazione del denaro pubblico verso impieghi poco produttivi, il tagli dei servizi (dei tribunali, degli ospedali, dei pronto soccorso, delle camere di commercio, ecc...), il blocco delle assunzioni, il circolo vizioso è divenuto una spirale dalla quale non si è potuti più uscire.
Da tempo, quindi, si cerca il capro espiatorio. Visto, sempre, nei confronti del "privilegiato", cioè di chi ancora riesce a lavorare in un quadro accettabile di sinallagma (cioè scambio contrattuale) tra doveri e diritti, con alcune specifiche tutele.
Dunque, lo stigma del "sussidiato" nei confronti di categorie per le quali si prova ad evitare lo sprofondamento nella povertà nera. Senza mai pensare che alcune categorie sono da sempre e a carissimo prezzo sussidiate, sia pure in modo indiretto e implicito, sì da non apparirlo: si tratta di tutti coloro che, sia per uno sciagurato "patto" con lo Stato ed alcune forze politiche, sia per la disorganizzazione del Fisco (comunque, non certo sgradita a chi ha sottoscritto quel "patto" scellerato) ha potuto evadere tanto o poco che sia.
L'evasione è un sussidio, tanto quanto lo è l'erogazione dei sussidi. L'evasore, infatti, non pagando per i servizi pubblici che riceve (di qualità alta o bassa che sia) è come se ricevesse dallo Stato un trasferimento finanziario netto.
Il Covid-19 fa emergere in tutta la sua impietosa debolezza questo quadro, non più sostenibile, per una ragione molto semplice: il mercato della compressione del costo del lavoro, della riduzione delle tutele, del lavoro nero e dell'evasione fiscale si regge, male, se in qualche misura la produzione continua, sia pure a basso livello. Nel momento in cui si determina l'intoppo, il sistema perverso del nero, dell'evasione, del lavoro sotto qualificato e sotto pagato, esplode.
L'utilità del sussidio implicito derivante dal mancato pagamento delle tasse viene a mancare. Il nero non si produce, perchè le attività e le commesse si azzerano.
L'unico modo per consentire a questo mondo del lavoro e dell'impresa, viziato da nanismo ed evasione, di non soccombere di fronte ai debiti, ai costi, alle spese che comunque pur si accolla, è non fermarlo.
Dopo l'isolamento della scorsa primavera, le pressioni per l'allentamento ed il ritorno all'apertura totale di ogni forma di attività (anche quelle a visibile rischio, come le discoteche estive) è stato fortissimo proprio per questa consapevolezza.
La recrudescenza della pandemia porta ad un bivio: insistere sulla continuità di queste aperture, oppure tornare a forme di restrizione dei contatti tra persone, che poi si riverberano in limitazioni di molte attività di impresa basate sull'inefficiente sistema produttivo italiano. E la scelta di queste limitazioni, che appare inevitabile per non intasare il sistema sanitario finendo per impedire non solo le cure ai contagiati sintomatici, ma a qualsiasi altro malato affetto da altre patologie, porta ad un problema: limitare o chiudere addirittura alcune attività produttive e, al contempo, evitarne il crac, per consentire di continuare a coprire i costi, i mutui, i pagamenti e gli introiti necessari a continuare a condurre una vita dignitosa.
La soluzione a questo problema è una e non può che essere quella sola: impiegare risorse pubbliche, finalizzate non solo al mero "ristoro", ma al permanere nel mercato, con uno sguardo comunque al futuro.
In effetti, questa è la strada che si sta obbligatoriamente seguendo. Ma, è qui che vengono i nodi al pettine.
Decenni di Pil asfittico e di rilevanti mancati introiti fiscali hanno portato ad un debito pubblico gigantesco, ormai al 160% del Pil stesso e alla necessità di effettuare manovre di spesa prevalentemente in deficit, accumulando, quindi, ulteriore debito.
E' per questo che i soldi per i "ristori" appaiono visibilmente insufficienti, considerando che l'emergenza impone anche ingenti spese di altro genere (per la sanità, in primis).
Ponendosi il grattacapo di come reperire le risorse che in quantità ben superiore occorrerebbero, allora si torna a proporre la questione dei "garantiti", proponendo analisi sulle divisioni e stratificazioni della società, suggestive ma poco fondate, per non dire del tutto false, il cui unico risultato è mestare ed esacerbare.
Si prende, dunque, di mira di nuovo il mondo del lavoro subordinato e, in particolare, quello del lavoro pubblico, proponendo l'assunto secondo il quale esso rappresenterebbe quella "metà" di "iper garantiti " che, come nell'invereconda vignetta circolata sui social, possono essere contenti del lock down e farsi i selfie a casa, mentre l'altra metà, le partite Iva, cercano l'ultima moneta nel salvadanaio.
Una visione delle cose erronea, non supportata da alcun dato, odiosa e che spinge all'odio e al contrasto tra società, che andrebbe messa in riga in primo luogo dalle autorità pubbliche, che dovrebbero intervenire spiegando come stiano le cose, dando indicazioni sulla politica economica e dei redditi, per svelare l'erroneità di simile approccio.
Basterebbero poche evidenze. A luglio 2020 gli occupati totali in Italia sono stati 22,811 milioni. Di questi i lavoratori "indipendenti" (in sostanza le Partite Iva) sono 5,087 milioni, il 22,3% del totale. I dipendenti pubblici sono 3,2 milioni, il 14 per cento del totale.
Non è, dunque, corretto affermare che nè che il mondo del lavoro autonomo rappresenta la metà del mondo del lavoro dipendente, nè che la restante metà è composta dal lavoro pubblico.
Sia il lavoro pubblico, sia il lavoro autonomo costituiscono, invece, due gruppi di evidente (specie per il lavoro pubblico) minoranza nell'insieme complessivo (purtroppo, troppo basso) del lavoro in Italia.
Dunque, la "divisione" tra due strati sociali, semplicemente non esiste.
E' corretto evidenziare i gravi problemi che rilevante parte del mondo del lavoro autonomo incontra, in una fase di blocco imposto (totale o parziale) alla loro attività.
Ma, la contrapposizione tra questo blocco sociale e quello dei dipendenti pubblici non ha nessun senso. Nessuno, finchè non si dimostri che le misure di contrasto alla pandemia comportino un trasferimento di ricchezza dagli autonomi ai lavoratori dipendenti, pubblici o privati che siano.
Tale dimostrazione, tuttavia, è impossibile, in quanto dalle misure restrittive anti pandemia non deriva alcun trasferimento di ricchezza.
Al contrario: nel momento in cui si eleva la spesa pubblica per sostenere con ristori che si vorrebbe fossero molto maggiori verso le categorie che subiscono stop alla propria attività, e la si eleva a debito ed incrementando il deficit, è evidente che prima o poi questo determinerà interventi sulla spesa e sulle entrate.
O si aumenteranno le imposte, per coprire queste spese; oppure, si deciderà di tagliare le spese.
Nel primo caso, l'incremento delle imposte finirebbe per cadere sopra solo sulle categorie che le pagano da sempre: lavoratori dipendenti, privati e pubblici.
Nel secondo caso, la riduzione della spesa a seconda di dove vada a colpire, potrebbe ridurre l'accesso a pensioni, sanità, servizi pubblici, incrementando tariffe di servizi privatizzati, penalizzando i redditi fissi (ancora una volta quelli da lavoro dipendente) maggiormente di quelli autonomi.
Restrizioni di spesa pubblica, ancora, possono incidere molto anche sul reddito dei dipendenti pubblici. Si è verificato nel decennio 2009-2018, col blocco della contrattazione.
D'altra parte, la proposta di un "contributo di solidarietà" a carico dei dipendenti "garantiti" e in particolare dei dipendenti pubblici, per racimolare maggiori risorse a beneficio dei non garantiti, implica comunque un maggior gravame (per quanto eticamente perfettamente giustificabile) sul lavoro subordinato, che sposterebbe da questo blocco sociale al blocco del lavoro autonomo risorse.
Cosa che avverrebbe comunque, anche senza contributi di solidarietà, incrementando la pressione fiscale. Inutile, infatti, non dire le cose come stanno: il fisco grava sempre sullo stesso blocco, composto da lavoro dipendente e pensionati: "per il triennio 2013-2015, per il quale si dispone di un quadro completo delle valutazioni, si osserva un gap complessivo pari a circa 108,9 miliardi di euro, di cui 97,8 miliardi di mancate entrate tributarie e 11,1 miliardi di mancate entrate contributive"; "In dettaglio, il tax gap IRPEF da lavoro autonomo e da impresa, IRES, IVA e IRAP ammonta a 83,8 miliardi di euro nella media del periodo 2013-2015. A questa stima occorre aggiungere i circa 5,6 miliardi di euro dell’IRPEF per il lavoro dipendente irregolare, comprese le addizionali regionali e comunali, i circa 5,2 miliardi di euro dell’IMU per gli immobili diversi dall’abitazione principale, circa 913 milioni di euro per la cedolare secca e 975 milioni per il canone RAI".
Abbiamo riportato le stime annue dell'evasione fiscale, prodotte dalla Relazione sull'economia non osservata e sull'evasione fiscale e contributiva predisposta dalla Commissione istituita istituita con Decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 28 aprile 2016, visualizzato da questa tabella, da lì estratta:
Si tratta di dati molto fondati, fondati, sufficientemente fondati o per nulla fondati? Non possiamo che fare affidamento sulla complessa e motivata metodologia proposta da un organo ufficiale, preposto da normativa dello Stato a tale compito.
L'esperienza empirica, comunque, induce a ritenere che il dubbio possa riguardare il quantum, ma non l'an dell'evasione, nella consapevolezza che il quantum non è sicuramente di piccola entità.
Un'evasione fiscale che si aggirasse davvero intorno ai 95 miliardi annui, vale, in ragione d'anno, tre volte il tanto evocato Mes.
La capacità di rientrare da tale ammanco di entrate, potrebbe consentire in tempi di particolare emergenza, come questi, di attingere dalle casse pubbliche con poco indebitamento e con un volume di spesa ben superiore ai 5 miliardi per i "ristori", e molto più vicino alle cifre ben superiori che stanno rendendo disponili Stati con conti pubblici meno disastrati, come ad esempio la Germania.
Che lo Stato debba assicurare alle categorie messe in estrema difficoltà dal Covid-19, non certo da altre categorie sociali che molti da incoscienti e mestatori narrano come "contrapposte", è necessario e nessuno lo nega.
Queste categorie, supposte "garantite" pagheranno senz'altro lo scotto. Se non in termini di contributi di solidarietà, in termini di maggiore tassazione o di interventi sui redditi (blocco della contrattazione o la solita idea del blocco o rinvio delle tredicesime per i dipendenti pubblici, tanto in voga all'epoca del governo Monti).
Porre il problema di interventi mirati, tipo cassa integrazione, per dipendenti pubblici la cui attività lavorativa risulti sospesa è corretto e non rinviabile.
Ma, pensare che la "divisione" sociale, fomentata dai mestatori, possa risolversi col mal comune mezzo gaudio, è anche economicamente privo di senso. Si finirebbe solo per deprimere ulteriormente il Pil e per far mancare parte di fiato alla domanda interna quando, si spera presto, il virus sarà vinto.
Mestare e fomentare, non ha alcun senso, è, anzi, devastante.
Spingere, invece, perchè la spesa pubblica (di quello Stato tanto deprecato, che per fortuna al momento opportuno viene invocato e può, magari in ritardo e in modo scalcagnato, fornire sostegni) aumenti, sia erogata velocemente, investa proprio tutti, ha un senso.
Senza dimenticare, però, che alla fine di questa avventura il contributo ai servizi (che comprendono, sanità, trasporti, scuola, tutti quei servizi in crisi anche per il basso Pil e la troppa evasione fiscale) sia, finalmente, esteso a tutti.
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