La stampa generalista negli scorsi giorni ha dato molto spazio all'iniziativa di Forum Disuguaglianze e Diversità, Movimenta e Forum PA, che hanno presentato al Parlamento una "Proposta per una Pubblica Amministrazione rigenerata".
Ottima iniziativa: per gestire nel modo migliore i 209 miliardi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), occorre una pubblica amministrazione preparata e pronta.
Tuttavia, l'iniziativa pare presentarsi come qualcosa di troppo simile a quel che si vede quasi quotidianamente: una diagnosi/lamentazione sulle disfunzioni esistenti, con scarsa analisi delle cause vere di esse e, soprattutto, assenza assoluta di proposte operative.
La Proposta, in primo luogo, appare ben lontana dall'individuare quei pochi e strategici obiettivi da tutti richiesti. Non è, probabilmente, tale Proposta la sede, ma certo è che più gli obiettivi sono numerosi e dispersivi, più difficile è individuare esattamente il come modificare la PA per renderla più efficiente.
La Proposta parla della necessità, ad esempio, di adeguare agli obiettivi (troppi, quelli proposti) il piano dei fabbisogni del personale, così da reclutare le figure che realmente sono necessarie. Si legge nella Proposta che occorre ampliare il "ventaglio delle competenze disciplinari richieste". Ma, oggettivamente, si resta molto delusi nel constatare che, ancora dopo 20 anni che si tratta dell'argomento, si cita la figura del "project manager". L'abbiamo vista citata in tutte le salse e ad ogni riforma: si afferma che i dirigenti debbono essere project manager, i responsabili unici degli appalti debbono essere project manager, i segretari comunali debbono essere project manager e così via. Continua a piacere troppo l'inglesismo pseudomanageriale, indice di essere trendy e piacere alla gente che piace.
Da decine di anni vediamo annunci di ricerca di lavoro che descrivono in modo tonitruante, con paroloni inglesi tra le quali non manca mai "manager", normalissime mansioni.
Forse, un primo passo in avanti verso la concretezza ed il rilancio della PA è sapere esattamente a cosa servano le figure professionali. Perchè vi sia un project manager, occorre prima che vi sia un project.
E, ancora prima, occorre che la valutazione dell'azione amministrativa passi davvero dalla verifica della regolarità amministrativa e contabile, alla capacità di attuare un progetto, nel rispetto del budget.
La Proposta non si esime, in effetti, dall'evidenziare questa necessità. Si legge, infatti, condivisibilmente, che la PA è "un sistema schiacciato sul rispetto formale delle regole e procedure invece che sul conseguimento dei risultati, che non sostiene la discrezionalità e quindi la capacità di manovra e la flessibilità richiesta per inquadrare e affrontare sfide e problemi inediti".
E si aggiunge, altrettanto condivisibilmente: "il riconoscimento della necessità di “liberare” la discrezionalità degli amministratori pubblici, le loro potenzialità innovative, si è sin qui tradotto in ancora troppo timidi e parziali passi, per di più a volte limitati al periodo emergenziale. Serve estendere e rafforzare gli interventi che incentivano funzionari e dirigenti della PA a decidere e intervenire nonostante le condizioni di incertezza, da un lato tutelandoli – senza deresponsabilizzarli – dall’altro motivandoli e spingendoli a raggiungere i risultati".
Ma, manca ancora una volta il come. Non si affronta minimamente l'enorme problema delle formalità della contabilità pubblica, un mostro che rende difficilissimo acquisire e spendere le entrate, tra mille vincoli operativi e "principi contabili" farraginosi, che occupano pagine e pagine di documenti (chi ha voglia e pazienza, anche solo di verificare la dimensione spaventosa di questo Leviatano, consulti qui).
A queste formalità minuziose e soffocanti, si aggiunge una giurisdizione della Corte dei conti che non ha alcuna compatibilità con la "cultura del risultato".
La responsabilità erariale è collegata a dati anche meramente formali. Perchè si produca un danno, non è necessario che si vìolino norme penali o che si pongano in essere illegittimità amministrative o illeciti civilistici. L'area del danno erariale è vastissima, anche perchè la Corte dei conti tende a considerare degni di tutela patrimoniale anche ambiti per i quali sarebbe da dubitare di ciò, così ripristinando per via pretoria la responsabilità appunto "formale", pur abolita dall'ordinamento. Basti un solo esempio: vi è una folta giurisprudenza contabile che considera danno erariale la previsione, nei contratti decentrati integrativi, di indennità non previste dalla disciplina contrattuale nazionale, anche se materialmente non si determini una maggiore spesa rispetto a quella consentita dalla costituzione dei fondi contrattuali.
Se non si interviene in maniera decisa su questi aspetti, è inutile parlare di valorizzazione della discrezionalità amministrativa.
Occorre una modifica radicale del paradigma, tale da evidenziare che la forma necessariamente prevalente dell'amministrazione è quella attiva, l'amministrazione, cioè, che decide e che agisce. L'amministrazione consultiva è importante, ma servente. E' necessario disboscare le troppe autorità che appesantiscono con pareri espressi in mille forme (senza che ne rispondano sul piano della legittimità) l'azione gestionale, condizionandola, predeterminando condizioni per successive azioni di responsabilità.
Occorre anche intervenire sul piano della giurisdizione amministrativa. Non certo per abolire i Tar, come ogni tanto qualche voce estemporanea propone, ma per evitare ricorsi meramente strumentali ed emulativi. Si è provato a disincentivare il contenzioso per la strada sbagliata dell'aumento anche eccessivo delle spese, connesse al contributo unificato. Sarebbe molto più corretto, invece, prevedere sanzioni pecuniarie e risarcitorie nei confronti di chi muove ricorsi pretestuosi, totalmente infondati. Rispondere non solo dell'integrale spesa del giudizio, ma del danno da ritardo cagionato da una vertenza al Tar che blocchi, ad esempio, un appalto, un pagamento, un concorso, costringerebbe anche la "società civile" a comprendere che l'irrinunciabile giustizia amministrativa serve a correggere errori dell'amministrazione attiva, non ad impantanarla.
La Proposta, poi, insiste, sulla "partecipazione" come metodo. Si legge: "Vanno studiati strumenti in grado di rendere visibile l’impatto concreto della partecipazione, attingendo anche a iniziative legate al mondo della comunicazione e dell’arte, stimolando così la rinascita di fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Accanto alle iniziative di co-decisione, tra cui gli esempi di bilanci partecipati che meritano una diffusione più ampia, la nuova amministrazione pubblica deve essere un’amministrazione condivisa: ricettiva delle forme nuove che l’attivismo civico va assumendo, capace di collaborare su un piano paritario riuscendo così a innovare il tradizionale modello dei processi deliberativi e attuativi".
Suggestioni che affascinano, ma che da un lato sono richiamate nella sede sbagliata. La "partecipazione" fa parte del processo di formazione delle decisioni e dei progetti. Se si parla di amministrazione attiva, la partecipazione viene ben prima, quando si decidono le strategie, i bilanci, gli obiettivi. Si tratta di livelli decisionali che non concernono la gestione, ma la politica.
La Proposta dimostra come ancora non siano chiari i confini tra funzione politico-amministrativa e funzione gestionale.
Il tutto, come rilevato, finisce per essere un mero elenco di questioni aperte, di suggestioni pseudo manageriali, di petizioni di principio. Senza nemmeno una sola proposta operativa volta a cambiare realmente metodi, strumenti e responsabilità.
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