sabato 24 luglio 2021

Sono la soppressione del nulla osta per la mobilità del personale pubblico, ma chiamatemi CAOS

 

La riforma dell’articolo 30, comma 1, del d.lgs 165/2001, disposta dall’articolo 3, comma 7, del d.l. 80/2021 sta creando la prevedibile e comprensibile confusione operativa in capo alle amministrazioni, poiché non sono più per nulla chiare le modalità procedurali.

Per esempio: non si capisce più in alcun modo da un lato se un’istanza di trasferimento sia ancora necessaria, né a chi essa debba essere rivolta. Leggiamo il testo della norma:

Le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in organico mediante cessione del contratto di lavoro di dipendenti di cui all'articolo 2, comma 2, appartenenti a una qualifica corrispondente e in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento, previo assenso dell'amministrazione di appartenenza. E' richiesto il previo assenso dell'amministrazione di appartenenza nel caso in cui si tratti di posizioni motivatamente infungibili, di personale assunto da meno di tre anni o qualora la suddetta amministrazione di appartenenza abbia una carenza di organico superiore al 20 per cento nella qualifica corrispondente a quella del richiedente. E' fatta salva la possibilità di differire, per motivate esigenze organizzative, il passaggio diretto del dipendente fino ad un massimo di sessanta giorni dalla ricezione dell'istanza di passaggio diretto ad altra amministrazione. Le disposizioni di cui ai periodi secondo e terzo non si applicano al personale delle aziende e degli enti del servizio sanitario nazionale, per i quali e' comunque richiesto il previo assenso dell'amministrazione di appartenenza. Al personale della scuola continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti in materia. Le amministrazioni, fissando preventivamente i requisiti e le competenze professionali richieste, pubblicano sul proprio sito istituzionale, per un periodo pari almeno a trenta giorni, un bando in cui sono indicati i posti che intendono ricoprire attraverso passaggio diretto di personale di altre amministrazioni, con indicazione dei requisiti da possedere. In via sperimentale e fino all'introduzione di nuove procedure per la determinazione dei fabbisogni standard di personale delle amministrazioni pubbliche, per il trasferimento tra le sedi centrali di differenti ministeri, agenzie ed enti pubblici non economici nazionali non è richiesto l'assenso dell'amministrazione di appartenenza, la quale dispone il trasferimento entro due mesi dalla richiesta dell'amministrazione di destinazione, fatti salvi i termini per il preavviso e a condizione che l'amministrazione di destinazione abbia una percentuale di posti vacanti superiore all'amministrazione di appartenenza. Per agevolare le procedure di mobilità la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica istituisce un portale finalizzato all'incontro tra la domanda e l'offerta di mobilità”.

Prima di affrontare il tema, che è strettamente procedurale, occorre subito porsi un’altra domanda, riferita alle conseguenze connesse alla violazione della procedura e, quindi, specificamente proprio all’assenza di un’istanza rivolta dal dipendente all’amministrazione di appartenenza. La domanda è: a chi spetta la giurisdizione, nel caso di procedure di mobilità volontaria?

Sia la giurisprudenza amministrativa, sia la giurisprudenza ordinaria sul punto sono granitiche: la giurisdizione appartiene al giudice ordinario.

Si veda, ad esempio, Ta Campania, Sezione V, sentenza 17 marzo 2021 – n. 1806, secondo cui “restano escluse dall’ambito della giurisdizione amministrativa le procedure di mobilità per passaggio diretto tra pubbliche amministrazioni, attuate nell’ambito di uno stesso Comparto di enti, che non comportano la costituzione ex novo dei rapporti di lavoro né l’attribuzione di un diverso inquadramento giuridico, ma integrano una mera modificazione soggettiva del rapporto di lavoro, attuata mediante cessione del contratto, sulla base del consenso di tutte le parti, senza, dunque, alcun effetto novativo”.

Nello stesso senso, Cassazione Sezioni Unite Civili, 17 Dicembre 2018, n. 32624, secondo la quale l’articolo 63, comma 4, del d.lgs 165/2001 si interpreta nel senso che per "procedure concorsuali di assunzione", ascritte al diritto pubblico con la conseguente attribuzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice amministrativo, si intendono quelle preordinate alla costituzione ex novo dei rapporti di lavoro. In particolare, con riferimento al tema di mobilità per passaggio diretto tra pubbliche amministrazioni, poichè procedura integra una mera modificazione soggettiva del rapporto di lavoro con il consenso di tutte le parti e, quindi, una cessione del contratto, la giurisdizione sulla controversia ad essa relativa spetta al giudice ordinario, non venendo in rilievo la costituzione di un nuovo rapporto lavorativo a seguito di procedura selettiva concorsuale e, dunque, la residuale area di giurisdizione del giudice amministrativo.

Così stando le cose, si comprende che la mobilità non integra un vero e proprio procedimento amministrativo, regolato da disciplina e poteri pubblicistici, bensì una vicenda di modificazione del rapporto di lavoro, come tale di natura privatistica e gestita dai dirigenti (giammai dagli organi di governo) alla stregua di privati datori di lavoro, come prevede l’articolo 5, comma 2, del d.lgs 165/2001.

Dunque, l’eventuale violazione della disciplina procedurale della mobilità non deve essere scrutinata alla stregua di illegittimità amministrativa suscettibile di annullamento del provvedimento, bensì come vicenda connessa alla violazione dei principi attinenti all’esercizio di poteri privatistici.

Fissato il punto e, cioè, che la vicenda della mobilità ha natura privatistica e non pubblicistica (non così, ovviamente, la fase connessa alla pubblicazione dell’avviso e di gestione delle istanze, di natura pubblicistica), per quanto non si tratti di vera e propria cessione di contratto, ma di contratto di natura pubblica a contenuto analogo, torniamo alla procedura.

La norma, in effetti, chiede che vi sia una “domanda di trasferimento”. Si tratta, allora, di capire chi debba presentarla e a quale destinatario.

Vigente il previo assenso dell’amministrazione di appartenenza, era chiaro: la domanda di trasferimento doveva essere presentata dal dipendente, una volta selezionato dall’ente di destinazione, all’amministrazione di provenienza, affinché questa esprimesse il “previo assenso”.

Fermiamoci un attimo. La prassi operativa ha portato moltissime amministrazioni a travisare totalmente il senso del “previo assenso”. Tanti operatori, incorrendo in un errore interpretativo ed operativo che ha del clamoroso, hanno enfatizzato il significato dell’aggettivo “preventivo”, intendendo che l’assenso dell’ente di appartenenza dovesse essere preventivo alla stessa procedura selettiva. Tanto è vero che non si sono contati i bandi con i quali le amministrazioni autrici dell’attivazione della mobilità volontaria hanno chiesto ai dipendenti pubblici interessati di presentare in allegato alla domanda appunto un assenso “preventivo” dell’amministrazione di provenienza. Pretesa totalmente infondata e senza senso: l’assenso non deve essere certo preventivo alla procedura selettiva o alla partecipazione al bando, bensì alla cessione del contratto. L’assenso è lo strumento mediante il quale il contraente ceduto assente, consente, a cedente e cessionario di perfezionare tra loro la cessione del contratto. Dunque, l’assenso non può che essere successivo alla formazione del consenso tra cedente (che è il dipendente) e il cessionario (che è l’ente di destinazione).

Torniamo alla procedura. Dunque: chi chiede il trasferimento a chi? Utilizziamo un minimo di logica. Poichè l’assenso preventivo dell’ente di provenienza è soppresso, non si vede come e perché il dipendente di tale ente debba chiedergli l’assenso preventivo, posto che detto assenso non è previsto, né pretensibile.

Potrebbe scattare in capo al dipendente un dovere di chiedere il trasferimento, così da ottenere l’assenso preventivo, qualora ricorrano le tre ipotesi previste (in modo laconico e caotico) dalla novella normativa:

  1. posizioni motivatamente infungibili,

  2. personale assunto da meno di tre anni

  3. carenza di organico superiore al 20 per cento nella qualifica corrispondente a quella del richiedente

Perchè le amministrazioni possano pretendere dal richiedente la domanda di trasferimento, che poi altro non è se non la richiesta di nulla osta, allora debbono agire organizzativamente ed accertare con un atto generale, che può consistere in un allegato alla programmazione dei fabbisogni, quali siano:

  1. le posizioni infungibili;

  2. le qualifiche che nell’organico dell’ente siano presenti in misura inferiore all’81% della dotazione (ma qui si pone un problema: la “dotazione” non esiste più, se non come conseguenza della spalmatura del personale in servizio, più quello considerato indispensabile da assumere, in funzione delle risorse finanziarie).

Ovviamente, il caso dei dipendenti con meno di 3 anni non può essere risolto con un provvedimento generale, trattandosi di una vicenda soggettiva e non organizzativa. Tuttavia, è altamente consigliabile che ciascun ente prenda posizione rispetto al problema di come computare i tre anni. Secondo una rilevante parte della dottrina, i tre anni sono da calcolare esclusivamente con riferimento al primo accesso per concorso nella PA. Pertanto, un dipendente assunto dall’ente A 5 anni prima, poi transitato nell’ente B potrebbe (se lavori in posizione non infunginile e in qualifica senza carenze di organico) andare in mobilità presso l’ente C anche laddove abbia lavorato nell’ente B per meno di 3 anni.

E’ una visione che non può considerarsi accettabile. Il triennio non può che riguardare la gestione del rapporto di lavoro tra ente e dipendente, qualunque sia la fonte della costituzione del rapporto medesimo: concorso o mobilità in entrata.

L’atto organizzativo generale di cui si è parlato mette ciascun dipendente nelle condizioni di comprendere a monte se l’eventuale suo passaggio per trasferimento verso un’altra amministrazione sia condizionato o meno dal previo assenso dell’amministrazione di appartenenza.

Conseguentemente, l’ente dotato del predetto atto organizzativo generale può pretendere dai propri dipendenti la presentazione della domanda di trasferimento.

E’ da dire che la soppressione del nulla osta potrebbe anche essere letta nel senso che la domanda sia rivolta all’ente di provenienza da parte dell’ente di destinazione. Questo, infatti, può considerarsi tenuto, per rispettare i principi di leale collaborazione, a comunicare comunque all’amministrazione di provenienza del dipendente che abbia selezionato per la mobilità l’avvenuto accordo di questo allo scopo di accertare:

  1. se il dipendente sia soggetto a preventivo nulla osta;

  2. se l’ente di provenienza, in ogni caso, anche laddove il dipendente non sia vincolato al nulla osta, intenda avvalersi del diritto di differire il trasferimento per sessanta giorni.

Ora, tutto questo funziona solo se le parti, cioè ente di appartenenza, dipendente ed ente di destinazione, si comportino in modo trasparente e con correttezza e buona fede e se tutte le PA adottino il provvedimento organizzativo generale di cui sopra.

Ma, cosa succede se dipendente ed ente di destinazione si accordano per la mobilità e il dipendente prenda servizio effettivamente nel nuovo ente, senza comunicare preventivamente nulla all’ente di destinazione?

Torniamo, allora, alla questione della giurisdizione. Come visto, non spetta al giudice amministrativo, ma a quello ordinario.

Ciò comporta conseguenze molto importanti sulla vicenda lavorativa. Infatti, l’ente di provenienza (ceduto) non ha alcuno strumento per ottenere l’annullamento del trasferimento: non ha modo, infatti, di rivolgersi al giudice amministrativo per chiedere di pronunciarsi sul punto.

Quindi, al ceduto non resta che rivolgersi al giudice ordinario. Ma, questo altro non può se non evidenziare l’invalidità del rapporto contrattuale attivato tra dipendente cedente ed amministrazione di destinazione cessionaria, per altro solo dopo che si sia data prova (molto complessa) che il dipendente in effetti avrebbe dovuto ottenere il nulla osta perché ricadente in una delle tre ipotesi normative.

L’accertamento dell’invalidità della cessione del contratto, tuttavia, non produce automaticamente alcuna ricostituzione del rapporto tra ente ceduto e dipendente cedente.

Riavvolgiamo un attimo il nastro. Abbiamo parlato dei ruoli di cedente, ceduto e cessionario, ma occorre tornare sulla questione.

Nel diritto civile, la cessione del contratto è un negozio trilaterale col quale una parte, il cedente, cede al cessionario il contratto che conduce col ceduto; una volta che vi sia il consenso del ceduto, il contratto oggetto della cessione prosegue, quindi, tra ceduto e cessionario; il cedente resta liberato dal rapporto contrattuale oggetto di cessione.

Le parti che negoziano attivamente la cessione sono cedente e cessionario; il consenso del ceduto costituisce perfezionamento della fattispecie.

Andiamo alla mobilità, che il Legislatore, inopportunamente, nel 2005 qualificò come cessione del contratto, sebbene l’istituto sia molto diverso. Il legislatore si è fatto visibilmente trarre in inganno dalla vicenda della cessione del contratto di lavoro nell’ordinamento lavoristico privato. In questo ambito, in effetti, le parti cessione sono:

a) il datore di lavoro di provenienza (cedente);

b) il datore di lavoro di destinazione (cessionario)

c) il lavoratore (ceduto)

A negoziare la cessione sono cedente e cessionario; quest’ultimo subentra al primo nella conduzione del rapporto di lavoro col lavoratore, il quale quindi presterà la propria attività lavorativa non più a beneficio del cedente, bensì del cessionario.

Il sistema regolato dall’articolo 30, comma 1, del d.lgs 165/2001 non funziona e non può funzionare secondo queste regole e questi schemi.

Infatti, le parti che negoziano la cessione, le quali sono sempre da identificare come cedente e cessionario, non sono i due datori di lavoro, bensì il dipendente che intenda trasferirsi da un ente all’altro, e l’ente di provenienza.

Ne consegue che ad assumere il ruolo di cedente è il dipendente; ad assumere quello di cessionario è l’ente di destinazione.

L’ente di provenienza è “ceduto”, ma in un’accezione totalmente diversa rispetto a quella dello schema civilistico contemplato dall’articolo 1406 del codice civile: l’ente di provenienza è, infatti, la parte che viene liberata dalla conduzione del rapporto di lavoro tra dipendente trasferito ed ente di destinazione.

L’ente di provenienza, a ben vedere, assume una posizione totalmente passiva nella fattispecie della mobilità. Le trattative intercorrono solo tra ente di destinazione, che col bando invita dipendenti pubblici interessati a candidarsi al trasferimento nei propri ruoli, e dipendente pubblico candidato, che presenta la domanda e partecipa alla selezione, allo scopo di essere individuato come candidato scelto ai fini del trasferimento: la selezione è, quindi, la fase della vera e propria trattativa tra cedente e cessionario.

L’ente di provenienza non negozia nulla con nessuno: né con il proprio dipendente, né tanto meno con l’ente di destinazione.

Una cessione del contratto vera e propria, nella quale sono i due datori pubblici ad assumere le parti di cedente e cessionario, mentre il lavoratore è il ceduto, si ha nella fattispecie totalmente diversa della mobilità disciplinata dal comma 2 dell’articolo 30 (che è una mobilità obbligata e non volontaria) o nel caso della cessione del contratto di lavoro a seguito di cessione dell’attività, previsto dall’articolo 31 del d.lgs 165/2001.

Allora, a ben vedere, il previo assenso dell’ente di appartenenza del dipendente che intenda trasferirsi più che perfezionamento di una cessione del contratto di stampo civilistico, è semmai condizione di efficacia di un negozio giuridico di diritto pubblico, solo analogo alla cessione del contratto, ma diverso perché a ben vedere è un negozio solo bilaterale e non trilaterale, del quale parti sono solo il dipendente e l’ente di destinazione. La mobilità tra essi si perfeziona con la prestazione tra loro del consenso al trasferimento. Il nulla osta è solo condizione di efficacia.

Così stando le cose, l’ente di provenienza quali modi ha per opporsi ad un trasferimento avvenuto senza che né il dipendente, né l’ente di destinazione, abbiano chiesto il nulla osta?

Potrebbe chiedere l’annullamento del negozio al giudice del lavoro, per invalidità. Ma, occorrerebbe dimostrare il dolo delle altre due parti.

Ecco, allora, perché risulta fondamentale l’atto organizzativo generale, contenente l’individuazione chiara delle figure professionali soggette a nulla osta: la pubblicazione di questo rende opponibile sicuramente al dipendente, ma anche alle altre amministrazioni, la situazione soggettiva, in modo da poter permettere all’ente di provenienza di eccepire l’invalidità della mobilità realizzata senza chiedere preventivamente il nulla osta e chiedendone l’annullamento.

Tuttavia, l’ascrizione alla giurisdizione civile del fenomeno rende quest’arma estremamente spuntata.

In primo luogo, perché i tempi del giudizio civile risulterebbero lunghissimi ed inaccettabili rispetto all’esigenza dell’ente di avere ragione del ripristino della dotazione organica, laddove ritenga di non dover prestare consenso alla mobilità.

In secondo luogo, in sede civile non sarebbe per nulla semplice dimostrare realmente l’infungibilità e, soprattutto, l’impossibile conteggio della carenza organica nella stessa qualifica pari al 20%.

La norma è scritta così male da rendere errore scusabile, tale da escludere il dolo, quello del dipendente e dell’amministrazione di destinazione che si accordino tra loro, senza chiedere alcunchè in via preventiva all’amministrazione di provenienza.

Il rischio è, dunque, l’attivazione di un giudizio oneroso e lungo, per ottenere l’annullamento in sede civile della mobilità, che poi si traduca invece in un risarcimento del danno. E durante la lunga durata del processo, l’ente di provenienza resterebbe comunque privo dell’unità lavorativa. Ha senso, tutto ciò?

La risposta è facilissima: no e poi no.

Occorre, allora, sperare nella correttezza e buona fede di tutti e, soprattutto, nella possibilità che all’istituto della mobilità si ritenga applicabile l’articolo 1410 del codice civile, ai sensi del quale “il cedente è tenuto a garantire la validità del contratto”. In questo modo, le PA che acquisiscono per mobilità potrebbero pretendere dal dipendente da assumere l’assolvimento preventivo agli obblighi di richiesta di trasferimento. Ma, ciò richiede che la giurisprudenza comprenda che il ruolo di cedente spetta al lavoratore e non all’ente di provenienza e, quindi, che la medesima giurisprudenza prenda atto della assoluta peculiarità della mobilità e della sua differenza rispetto alla cessione del contratto, nonostante la, purtroppo erronea e confusionaria, formulazione della norma.

Meglio ancora sarebbe se il legislatore tornasse sui suoi passi e regolasse la mobilità volontaria per quello che è: una procedura di reclutamento, per altro selettiva, la qualificasse come espressamente soggetta alla giurisdizione amministrativa e prevedesse specifiche conseguenze giuridiche nel caso di violazione della procedura. E, soprattutto, rinunciasse alla velleitaria soppressione del nulla osta, che come dimostrato, crea soltanto caos.

Semmai, se proprio si intenda introdurre una libera circolazione dei dipendenti pubblici, il nulla osta potrebbe considerarsi non necessario solo a condizione che il dipendente pubblico si trasferisca verso enti la cui dotazione organica risulti inferiore ad un certo standard, da predefinire, così da garantire la migliore allocazione del personale pubblico. Lasciando, invece, il nulla osta come condizione necessaria in tutti gli altri casi, avendo ben chiaro che il nulla osta non è un divieto alla mobilità, ma un metodo per regolarla, conciliando esigenze organizzative della PA, con esigenze individuali del singolo dipendente.

3 commenti:

  1. Esauriente e pregevole illustrazione di una follia normativa!

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  2. Ma quando riusciremo a uscire da questo patetico nulla osta?! Che fa sembrare i dipendenti di certa P.A. più degli ostaggi che dei lavoratori!!!

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  3. "ostaggi" che lavorano 36 ore invece di 40, che dispongono di garanzie impensabili nel privato, e che confondono la legittima aspirazione col diritto di andare via, come e quando vogliono. Diritto inesistente ovunque, anche nel privato, ove, per altro, chi va via si dimette, non può chiedere ed ottenere nessun trasferimento. Ma di che parliamo... gli "ostaggi"...

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