Il “federalismo fiscale” è stato una palla al piede per anni, un clamoroso flop organizzativo, che ha contribuito solo a peggiorare e di molto le già disastrate finanze pubbliche.
Sembra che la stagione del 2021 sia un amarcord nostalgico di tante iniziative di una dozzina di anni prima, tutte quante fallimentari. Si pensi ai passi indietro nell’orologio del tempo determinati dalle riforme della PA: progressioni orizzontali basate su anzianità (ma sciaguratamente non trasformate in una meno onerosa indennità di anzianità), progressioni verticali senza più concorso pubblico, dilagare degli affidamenti diretti negli appalti.
Mentre perdura la devastante assenza di controlli preventivi, si pensa a riproporre uno schema disfunzionale dell’amministrazione, cagione di centinaia e centinaia di situazione di dissesto e predissesto nei comuni.
La sperimentazione del federalismo fiscale nei comuni avrebbe dovuto insegnare che se si dà ampia autonomia di entrata alle amministrazioni locali, queste poi orientano le loro politiche verso la ricerca del consenso costruita sulle mancate riscossioni a beneficio di grandi o piccoli elettori, controbilanciate dall’espansione della spesa.
Tornare a parlare di federalismo fiscale appare oggettivamente avventato ed insensato. Che, poi, se ne parli per province e città metropolitane, per la cui abolizione l’attuale premier si spese giusto 10 anni fa nella lettera firmata con l’allora presidente della Bce Trichet, sfiora il ridicolo.
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