E’ francamente senza senso che si continui a parlare della gestione dello smart working in termini di percentuali, elemento del tutto fuorviante.
Il riferimento alle percentuali trae sempre in inganno, perchè esse non possono mai riguardare l’intero complesso nè dei dipendenti pubblici (e, infatti, finchè i docenti di scuole e università non sono messi in lavoro agile - sono circa un milione, un terzo del totale dei dipendenti pubblici, al massimo 700.000 potrebbero andare in smart working), nè di una singola PA: lo smart working è comunque consentito solo ed esclusivamente nell’ambito delle attività e servizi compatibili con questa modalità organizzativa e rispettose delle pesanti condizioni poste dal DM 8.10.2021 (ovviamente, non vogliamo qui considerare corretti accordi e decisioni - pur presenti nella prassi, dato che nessuno controlla - che estendano il lavoro agile in violazione delle condizioni poste dalle norme).
In ogni caso, l’affermazione secondo la quale il lavoro agile possa toccare il 49%, se inteso come 49% del personale, va messa a confronto con le disposizioni contenute nel DM 8.10.2021, articolo 1, comma 3, lettera b): “l'amministrazione deve garantire un'adeguata rotazione del personale che puo' prestare lavoro in modalita' agile, dovendo essere prevalente, per ciascun lavoratore, l'esecuzione della prestazione in presenza”.
La norma appare di una chiarezza estrema:
il lavoro in presenza, cioè non in smart working, deve essere prevalente, senza flessibilità alcuna;
la prevalenza si calcola su ciascun singolo lavoratore;
dunque, l’eventuale 49% si computa sul tempo di lavoro del singolo dipendente;
conseguentemente, non va applicata la formula 51% di presenti sul totale dei dipendenti a fronte del 49% in smart working;
la rotazione dei dipendenti ai quali si consente il lavoro agile implica, per esempio, che su 10 dipendenti di un ufficio non tutti e 10 possano svolgere contemporaneamente lavoro agile, ma solo una frazione di essi e massimo (applicando il 49% con arrotondamento aritmetico) su 5 postazioni di lavoro e, su un mese lavorativo di 24 giorni, massimo per 11 giorni;
dunque, su 240 giorni/lavoro/postazione, solo 55 giorni/lavoro/postazione possono essere resi in lavoro agile.
Questo è quel che prevede il DM.
Il Ministero, col comunicato del 3 gennaio, fornisce una lettura estensiva, secondo la quale la programmazione del lavoro agile possa essere “mensile o più lunga”.
La programmazione mensile, come visto, non consente comunque di avere in smart working più della metà dei dipendenti di un ufficio.
Quella plurimensile? Teoricamente sì. L’interpretazione suggerita da Palazzo Vidoni (che oggettivamente è da considerare percorribile) consente ad un ufficio di regolare con uno o più dipendenti il lavoro agile su base anche annuale. Per farla semplice, quindi, stando alla regola del 49%, un dipendente potrebbe stare in smart working ininterrottamente per 5 mesi su 12 o, comunque, o 109 dei 220 giorni lavorativi annui.
Questo consente, allora, al datore di collocare tutti e 10 gli ipotetici dipendenti in lavoro agile, per esempio, di qui a marzo?
La risposta è negativa (ovviamente per chi intenda applicare le regole): in ogni caso la necessità di assicurare la rotazione impone di collocare comunque in lavoro agile non oltre il 50% delle postazioni lavorative.
Per altro, quelle amministrazioni che, come ricorda Gianni Trovati nell’articolo pubblicato su Il Sole 24Ore del 4.1.2021 (Pa, il lavoro agile cresce senza cambi di regole) hanno permesso ai dipendenti di stare in lavoro agile per 3 giorni la settimana, dovrebbero avere ben chiaro che così operando violano platealmente le disposizioni ricordate sopra del DM 8.10.2021. Consentire ai dipendenti lo smart working per 3 giorni la settimana è plausibile solo, nell’ottica indicata dal comunicato della Funzione Pubblica, in presenza di una programmazione necessariamente plurimensile, che garantisca che comunque i giorni in sw in un anno siano non superiori a 109.
Resta, comunque, in assenza di una revisione alla normativa, l'elemento maggiormente incongruente con uno smart working se non "emergenziale", quanto meno volto ad assicurare un presidio contro la diffusione della pandemia e, cioè, l'accordo individuale.
Non solo tale accordo è un appesantimento burocratico evidente (sebbene in qualche misura bypassabile, se si utilizza lo schema delle condizioni generali di contratto da sottoscrivere per adesione), ma comunque non consente, come invece era possibile fino al 14.10.2021 al datore di stabilire discrezionalmente quali e quanti dipendenti collocare in lavoro agile, come misura di prevenzione. Infatti, comunque deve essere anche il lavoratore concorde col datore.
Ecco perchè parlare di percentuali non ha senso: finchè si richieda l'applicazione della disciplina ordinaria del lavoro agile, che impone l'accordo, nessun datore può programmare alcuna percentuale di lavoratori collocabili in smart working. Anche i discorsi sulla flessibilità, ampia o ristretta che sia, quindi, perdono qualsiasi base.
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