Non c’è nessuno capace, con argomenti credibili, di poter affermare che la pubblica amministrazione in Italia sia pienamente efficiente e che, di conseguenza, non vadano apportate modifiche all’organizzazione ed al sistema.
Tuttavia, troppe volte le proposte di intervento si rivelano velleitarie e fuori mira, spesso per una ragione di fondo: si pensa che i problemi della PA siano risolvibili applicando i criteri di management aziendali.
Di conseguenza, si producono forbite analisi, arricchite di
molteplici inglesismi, come quella pubblicata su Il Sole 24 Ore del 13.7.2022,
a firma di Veronica Vecchi, nell’articolo titolato “Come formare i manager
pubblici per gestire il Pnrr”.
Si tratta dell’archetipo di suggerimenti e visioni
astrattamente accattivanti e fondamentalmente corretti, ma caratterizzati da
conclusioni non corrette. Non perché esse lo siano intrinsecamente, ma perché regolarmente
ignorano o sottovalutano o non considerano, perché roba burocratica da legulei,
il fattore, invece, determinante della fortissima limitazione all’organizzazione
derivante dalla sottoposizione dell’azione amministrativa alla normativa di
diritto speciale che costituisce l’insieme vastissimo dei limiti e della guida
della PA, prodotta in modo alluvionale dal Legislatore.
Chi si interessa di management e non ha chiari i fondamenti
normativi dell’azione della PA, tra i quali in primis il rispetto dell’inderogabile
principio di legalità, è portato a pensare che le regole del management possano
essere sufficienti per migliorare la qualità dei servizi, come se l’apparato
normativo fosse una variabile senza peso. Infatti, immancabilmente l’autrice
nel disegnare una sin troppo astratta prospettiva di formazione del management
pubblico sguaina l’argomento secondo il quale non si deve avere “paura dei
ricorsi o della Corte dei Conti”.
E’ un’argomentazione totalmente erronea. La necessità di agire
nel rispetto delle norme deriva dalla Costituzione (articolo 97) ed oltre ad
essere dovere specifico di ogni dipendente pubblico è garanzia del
perseguimento corretto dell’interesse pubblico, intendendosi per “corretto” l’interesse
fissato dal Legislatore e non quello scelto dal management della PA.
In effetti, il principio di legalità dell’azione
amministrativa intende esattamente evitare che il management, ma potremmo dire “l’apparato
del sovrano” possa discrezionalmente di volta in volta fissare uno specifico
interesse arbitrariamente considerato prevalente su quello di altri, anche in
relazione a contingenti situazioni oggettive o, soprattutto, soggettive delle
parti in causa. Una rivoluzione nel 1789, i connessi sommovimenti, un intero
secolo a ferro e fuoco sono stati necessari per porre il principio che il
sovrano è il popolo, che esercita la propria sovranità con la rappresentanza
delle forze politiche eletto in un Parlamento il cui potere legislativo fissa
gli interessi e determina anche i modi del loro esercizio, per evitare abusi ed
arbìtri da parte dell’apparato.
Insomma, mentre nel sistema privato, sia pure nel quadro ovvio
di obblighi giuridici comunque esistenti e da rispettare, il management
concorre con l’imprenditore (col quale talvolta coincide) a determinare
interessi da perseguire e modi connessi con piena autonomia, tale autonomia
nell’azione pubblica è fortemente limitata. Tanto che la stessa concezione dei
vertici pubblici come “management” non appare persuasiva.
L’autrice dell’articolo citato prima, nel delineare gli interventi
a livello micro, determinanti per innovare l’azione della PA in particolare in
funzione del Pnr, cita come fondamentale “il procurement, nelle sue varie
declinazioni, con contratti di appalto o concessioni (Ppp)”. E nota che “questi
contratti, al di là dell'atteso nuovo Codice dei Contratti, potrebbero giocare
un ruolo sostanziale, come reale driver di innovazione per stimolare la
competitività e produttività delle imprese (si pensi all'impiego di nuovi
materiali in grado di ottimizzare i costi di manutenzione, a soluzioni di
circularity o a modelli più efficaci di gestione della sicurezza sui cantieri)
e per offrire migliori soluzioni ai cittadini, se le amministrazioni
sapessero assumere un ruolo di buyer sofisticato, che richiede competenze,
allineamento con il mercato e coraggio di uscire fuori dagli schemi”.
Tutto molto bello, per citare Bruno Pizzul. Peccato che l’ultima
affermazione sia tanto suggestiva, quanto del tutto carente di basi tecniche e,
quindi, di fatto, vuota.
Indicare la PA che agisce mediante appalti come “buyer
qualificato” è certo aulico e aderente al dolce stil novo aziendalisitco: ma è
solo un espediente linguistico alto, che non dice nulla e non potrebbe dire nulla
di concreto.
Il ragionamento della Vecchi è evidentemente inficiato da
una contraddizione interna: da una parte cita il codice dei contratti,
mostrando una certa consapevolezza dell’incidenza fortissima che esso esercita
sull’attività della PA; dall’altra, poi parla di “allineamento con il
mercato” e “coraggio di uscire fuori dagli schemi”.
Ma:
1) l’allineamento
col mercato non è scelto e regolato dalle PA a loro piacimento, magari scegliendo
segmenti e partner. La concorrenza e l’apertura al mercato più ampi possibili
sono imposti dalle direttive europee, delle quali il codice dei contratti è
attuazione, oltre che dalla Costituzione. La PA ha limitatissime possibilità di
determinare il mercato, per esempio nella sua estensione territoriale, e meno
ancora di creare relazioni e partenariati, perché obbligata ad agire secondo
schemi negoziali che privilegiano le gare e l’autoproduzione dei progetti;
2) gli
“schemi” dai quali si sollecita ad uscire fuori sono esattamente quelli
stabiliti dalla legge, codice degli appalti e qualsiasi altra. Il principio di
legalità citato prima è posto esattamente a presidiare e sanzionare l’uscita
dagli schemi: il “manager” pubblico può solo scegliere tra gli schemi fissati
quello più adatto alla situazione concreta, ma non può uscirne.
Uscire dagli schemi normativi sarà anche atto di coraggio,
se visto con gli occhiali di chi non considera la necessità di rispettare le
norme che regolano l’ordinamento, ma alla fine è non solo un danno eventuale
per chi pensi di avere la libertà di crearsi da sé schemi nuovi e diversi da
quelli imposti dal legislatore (il “manager” coraggioso), ma per la popolazione
tutta. Infatti, appalti assegnati in violazione delle regole o uscendo dagli
schemi per lo più sono appalti, acquisti, servizi e forniture, costruiti senza
un valido titolo giuridico. Il che, quando va bene, se nessuno controlla o se
ne accorge, non produce conseguenze; se, invece, va male, perché soggetti preposti
ai controlli – che nel privato non esistono – come Anac e Corte dei conti, ad
esempio, o perché scatta un contenzioso, si produce un danno connesso al fermo
della prestazione, alle spese di giudizio, al ritardo nella realizzazione, all’incremento
dei costi, all’inefficienza collettiva. Con conseguenze pesanti sulla comunità
amministrata e, in definitiva, anche sull’andamento del Pnrr.
In conclusione: pare inutile e oggettivamente poco avveduto paventare
come coraggiose azioni gestionali “fuori dagli schemi”. Se si ritiene davvero
che la qualità dell’azione della PA dipenda da un diverso approccio del management,
occorre un presupposto: modificare radicalmente l’assetto della PA stessa, a
partire dalla Costituzione. Tuttavia, per restare agli appalti, il ruolo di “buyer
sofisticato” non potrà che restare poco più di una bella perifrasi con echi
anglofoni: le direttive europee, che vincolano e limitano l’azione della PA
come committente, restano comunque e vanno rispettate comunque. Con coraggio o
senza, ammantandosi della veste di buyer sofisticato o meno.
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