Un laureato può fare il cameriere? Posto che il lavoro di cameriere è dignitoso e professionale, come tutti, e rilevato che la figura è certamente, come moltissime, poco riconosciuta e remunerata (si pensi alla sempre più estesa richiesta della conoscenza di lingue straniere), così come è posta alla domanda non si può che rispondere affermativamente: certo che un laureato può fare il cameriere.
Il fatto è che la domanda è oggettivamente “pelosa”:
nasconde dietro l’idea i giovani non abbiano voglia di fare lavori comunque
pesanti e routinari, soggetti a turni ed orari scomodi e che si lascino
affascinare solo ed esclusivamente dalle proprie ambizioni e “pretese”, sì da
rinunciare ad opportunità lavorative comunque utili per la propria
emancipazione.
Si tratta, comunque, anche di una domanda mal posta. Il tema
non è se il laureato possa o debba lavorare anche come cameriere. La questione
vera è comprendere come mai il tessuto produttivo in Italia non sia in grado di
creare occasioni di lavoro per le persone che investano nello studio, per qualificarsi.
Da anni si parla del turismo come “il petrolio” dell’Italia.
Senza riflettere, però, sulla circostanza che si tratta di un settore capace di
dare poco: sia sul piano del valore aggiunto complessivo; sia sul piano della
qualità di un lavoro composto prevalentemente da profili di base. Per altro, è
purtroppo noto che il settore è funestato da un vastissimo sottodimensionamento
del trattamento economico e giuridico dei dipendenti (e si sta usando un
eufemismo).
Affermare che i laureati debbano fare i camerieri, dunque,
sottende l’idea che in Italia fin troppi giovani disperdano il proprio tempo in
studi per aspirare a posizioni che non sono necessarie, mentre invece servono “braccia”,
altrimenti sottratte a lavori ai quali si dedicano gli immigrati.
Il che è piuttosto strano: il numero dei laureati in Italia
è molto basso. Si tratta circa di 344.000
persone, un numero in assoluto non molto alto di per sé, che rapportato
alla popolazione tra 25 e 34 anni pone l’Italia agli
ultimi posti in Europa.
Il fatto è che se per un verso le imprese italiane hanno il
pregio di continuare a competere nel sistema ed essere un fondamentale fattore
nell’economia, la loro struttura è da troppo tempo concausa della bassa
produttività e qualità del lavoro. Il Paese ha rinunciato decine di anni fa a
misurarsi sulle tecnologie Itc, investe poco nella ricerca e nelle professioni
manageriali e si ritrova con un insieme di imprese troppo piccole a basso
valore aggiunto che, dunque, non hanno bisogno di personale qualificato.
Il Parlamento ed il Governo, qualunque siano state le maggioranze
che li hanno composti, hanno fatto pochissimo per cambiare questo trend, che
cagiona anche uno stato
complessivo della qualità
degli studi veramente problematico.
All’insegna del “piccolo è bello”, del “noi da giovani
abbiamo cominciato coi lavoretti”, del “con l’esegesi della letteratura non si mangia”
e “meglio un asino vivo che un dottore morto”, il nanismo imprenditoriale, gli
scarsi investimenti, la scarsità di strutture organizzate, la presenza di
mansioni obsolete, rende per assurdo la laurea una sovraqualificazione poco utile
ad un mercato del lavoro oggettivamente arretrato.
Il che causa anche un dispendio di risorse pubbliche nel
sostegno delle università pubbliche che non produce risultati o che consente ad
altre Nazioni di giovarsi degli effetti di detti investimenti, quando i
laureati italiani abbandonano il nostro territorio per cercare all’estero la valorizzazione dei propri studi.
In questo quadro disarmante non solo le istituzioni
pubbliche hanno fatto poco o nulla per riorientare economia, produzione e
lavoro, ma nel sistema del lavoro pubblico agisce in modo del tutto incoerente,
tollerando o ammettendo espressamente che non laureati possano accedere a funzioni
e qualifiche che invece richiederebbero la laurea.
Mercè il reticolo degli incarichi negli uffici “di staff” o
dello spoil system regolato malissimo, negli anni si è assistito a moltissimi
casi nei quali persone prive della laurea sono state incaricate come direttori
generali dei comuni (si veda la sentenza della Corte dei conti, sezione giurisdizionale
per la Toscana 3 ottobre 2011, n. 363), o come dirigente (si veda la sentenza
della Corte dei conti, Sezione Centrale di appello 23 giugno 2021, n. 228). Un
sistema deprivato di controlli preventivi di legittimità, senza quindi nessuna
capacità di prevenire ed intercettare questo modo di procedere è fortemente
permeabile a violazioni di legge clamorose, grazie alle quali si consentono
carriere improvvise e brillantissime a chi nemmeno potrebbe essere ammesso a
procedure selettive, per l’assenza del titolo necessario. L’applicazione distorta
di norme deleterie come l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 e l’articolo
110 del d.lgs 267/2000 (che permettono l’assunzione senza concorsi per i vertici
e i dirigenti nelle amministrazioni pubbliche ed enti locali) permette agli
organi di governo di attribuire funzioni dirigenziali non solo non passate al
vaglio dei concorsi, ma sovente anche a persone prive dei necessari titoli. E
meccanismi a loro volta incontrollati come i comandi o i distacchi sono
altrettanto utili per aggirare le regole sul reclutamento e collocare in posti di
elevato profilo o vertice anche chi non ha titoli sufficienti.
Ma, questa è la patologia. Risulta ancor più contraddittorio
con la spinta al laureato a fare il cameriere la circostanza che,
simmetricamente, proprio in questi mesi la riforma della PA e la sottoscrizione
dei contratti collettivi nazionali di lavoro del pubblico impiego abbiano
rilanciato le “progressioni verticali”, procedure riservate esclusivamente a
chi già sia dipendente pubblico finalizzare ad una promozione verso inquadramenti
più elevati, consentendo che la “esperienza” di qualche anno possa sostituire
la carenza del titolo di studio. Sicchè, ancora una volta i non laureati
potranno accedere a funzioni che, se l’ente decidesse di attivare un concorso
pubblico richiederebbero necessariamente la laurea, pur da non laureati. E non
basta: il d.l. 80/2021 ha anche aperto alla possibilità, prima mai consentita,
di effettuare le progressioni verticali anche verso le qualifiche dirigenziali.
Mentre, quindi, si predica in generale al laureato, visto
quasi come un perditempo che investe malamente in pretenziosi studi le proprie
energie, di fare il cameriere o di andare raccogliere pomodori, il regolatore
pubblico consente ai non laureati di fare carriera da laureati; con distacchi,
comandi, incarichi senza concorso o progressioni verticali capaci di portarli
gradualmente ai massimi vertici organizzativi e di inquadramento.
In un complessivo sistema talmente entropico e disordinato,
dunque, si invertono gli ordini di importanza e invece di agire per espandere
la produttività e la necessità di figure qualificate, si invita sostanzialmente
a non laurearsi o ad accettare il sottodimensionamento del profilo lavorativo.
Ed il primo ad agire in tal modo è lo Stato, che proprio nel settore del “petrolio”,
cioè il turismo fatto anche di beni culturali, per esempio non dà alcuna
chances ai laureati nelle discipline connesse, perché ha privatizzato cantieri
archeologici, servizi museali ed archivistici, a cooperative che pagano i
laureati a 9 euro l’ora.
L’attenzione dovrebbe spostarsi ed invertire la domanda, che sarebbe da riformulare così: “come è possibile che un laureato accetti di fare il cameriere”? E “come fare, allo stesso tempo, per evitare il dumping salariale in settori come quelli della ristorazione, del turismo e dell’agricoltura”?
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