martedì 20 giugno 2023

Abuso d'ufficio: manca una riflessione approfondita sulle conseguenze dell'abolizione

 L’articolo 7 del dPR 62/2013, codice di comportamento dei dipendenti pubblici disciplina l’obbligo di astensione: “Il dipendente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza. Sull’astensione decide il responsabile dell’ufficio di appartenenza”.

Si tratta di una delle norme appartenenti all’apparato normativo che trova fondamento nella legge 190/2012, Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione. L’articolo 1, comma 41, di tale legge ha introdotto l’articolo 6-bis della legge 241/1990, ai sensi del quale “Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”.

Ancora, l’articolo 16 del dPR 62/2013 tratta delle responsabilità conseguenti alla violazione dei doveri del codice di comportamento, stabilendo al comma 1: “La violazione degli obblighi previsti dal presente Codice integra comportamenti contrari ai doveri d’ufficio. Ferme restando le ipotesi in cui la violazione delle disposizioni contenute nel presente Codice, nonché dei doveri e degli obblighi previsti dal piano di prevenzione della corruzione, dà luogo anche a responsabilità penale, civile, amministrativa o contabile del pubblico dipendente, essa è fonte di responsabilità disciplinare accertata all’esito del procedimento disciplinare, nel rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità delle sanzioni”.

L’articolo 16 del dPR 62/2013 è una norma centrale e di rilevanza fondamentale, per comprendere la potenziale efficacia delle disposizioni miranti a combatte la corruzione, intesa non come reato, me come mala gestione della cosa pubblica, mirante a comprometterne efficienza, trasparenza, buon andamento, economicità e capacità di perseguire l’interesse pubblico, a causa della compressione o anullamento di tale interesse a vantaggio di interessi di natura privata.

Il principale elemento di rischio è il conflitto di interessi. Esso sorge in presenza di:

1.       un interesse di natura privata/egoistica in capo al titolare di qualsiasi potere di azione della pubblica amministrazione e/o di un destinatario o di un controinteressato all’azione amministrativa, da un lato;

2.       un interesse pubblico che orienti le decisioni verso una direzione univoca;

3.       l’adozione di decisioni che comprimano l’interesse pubblico, arrecando vantaggi indebiti ai titolari degli interessi privati contrapposti, tra i quali vantaggi rientrano anche lesioni ingiustificate a posizioni giuridiche soggettive di terzi.

Come visto, l’articolo 16 del dPR 62/2013 riassume tutte le tipologie di responsabilità potenzialmente conseguenti alla violazione dei doveri di comportamento dei dipendenti pubblici:

1.       penale,

2.       civile,

3.       amministrativa o contabile

4.       disciplinare.

Quella che interessa in particolare, rispetto al dibattito sull’opportunità di abolire il reato di abuso d’ufficio, ovviamente è la responsabilità penale e, specificamente, la responsabilità penale scaturente dalla violazione dell’obbligo di astensione.

E’ bene ricordare che, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, del codice penale, attuativo dell’articolo 25 della Costituzione, “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge né con pene che non siano da essa stabilite”.

Nel codice penale vigente, l’unico articolo che prevede espressamente come fatto punibile come reato la violazione del dovere di astensione è proprio il 323 che regola l’abuso d’ufficio: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni”.

Se, dunque, la violazione dell’obbligo di astenersi, ovviamente scaturente da una situazione di conflitto di interessi, non sia contemplata espressamente da specifiche norme penali che sanzionino un fatto che costituisca più grave reato, solo l’articolo 323 del codice penale può garantire la reazione dell’ordinamento giuridico ad una violazione di regole di comportamento che la società ritiene di non poter tollerare, punendo come illecito penale il fatto connesso.

La violazione dell’obbligo di astensione è uno degli elementi tipici dell’abuso d’ufficio. Infatti, l’atto adottato da una pubblica autorità idoneo a procurare a sé un ingiusto vantaggio patrimoniale (si badi, la norma è chiara: solo il vantaggio patrimoniale viene considerato, non, quindi, ad esempio quello “morale”) o ad arrecare a terzi un danno ingiusto (in questo caso non solo patrimoniale), è sostanzialmente adottato in quanto spinto proprio dalla cura di un interesse diverso da quello pubblico. Per stare ad un esempio molto utilizzato, si pensi al concorso pubblico, nel quale l’autorità decidente, agisce illecitamente per garantire il conseguimento della collocazione utile in graduatoria a persona a sé gradita ma non effettivamente meritevole e, quindi, crea un ingiusto svantaggio per il reale meritevole. In questo caso, l’interesse pubblico alla selezione del concorrente migliore viene compromesso dall’interesse privato volto a danneggiare un certo concorrente, in favore di un altro pur meno competente.

In assenza dell’accordo corruttivo previsto perché ricorra il reato di corruzione, la reazione penale contro questo modo di agire risulta molto difficile da attivare, in assenza del reato di abuso d’ufficio.

E’ spiegato in maniera diffusa e completa da Gian Luigi Gatta nell’articolo “Concorsi pubblici “turbati”: per la Cassazione è configurabile l’abuso d’ufficio ma non la turbativa d’asta: un esemplare caso di vuoto di tutela che si prospetta con l’abrogazione dell’art. 323 c.p.”. Nell’articolo si spiega che non sussistendo altre fattispecie di reato, non risulta corretto affermare che l’ordinamento dispone di un “arsenale normativo” al quale poter fare riferimento per combattere contro i pubblici amministratori infedeli. Si è ricordato sopra l’articolo 1 del codice penale: non è possibile ovviamente applicare per analogia o estendere all’inverosimile norme sui reati, per coprire la fattispecie di un comportamento come quello esemplificato.

La Cassazione, con la sentenza della Sezione Penale VI, 16.6.2023, n. 26225, citata dal Gatta, evidenzia, correttamente, come non sia corretto applicare alla fattispecie dell’illecita alterazione degli esiti di un concorso pubblico quello del reato di turbativa d’asta, molte volte, invece, utilizzato nel passato dai PM e da alcuni giudici territoriali, proprio allo scopo di rinvenire una fattispecie di reato diversa dall’abuso d’ufficio, idonea a “coprire” la “turbativa dei concorsi pubblici”. Il reato di turbata libertà degli incanti, precisa la Cassazione, vale per le sole procedure indette per l’affidamento di commesse pubbliche o per la concessione di beni pubblici, ma non può ricomprendere i concorsi per l’accesso agli impieghi pubblici o le procedure di mobilità del personale tra diverse amministrazioni.

Si potrebbe essere, tuttavia, portati ad affermare che nel cosiddetto “arsenale” sanzionatorio rientrino anche le già viste sopra ulteriori responsabilità:

1.       civile,

2.       amministrativa o contabile

3.       disciplinare.

E però:

1.       la responsabilità civile mette in condizione il candidato che avrebbe avuto diritto all’assunzione, di ottenere dal giudice eventualmente il riconoscimento del danno subito dall’azione infedele e come rimedio appresta solo il risarcimento del danno: il dipendente assunto a seguito dell’illecita gestione della procedura concorsuale resterebbe al proprio posto, sicchè l’interesse generale non sarebbe garantito;

2.       la responsabilità amministrativo/contabile non discende dall’illiceità o illegittimità sostanziale in se del provvedimento, ma dalla sua idoneità a causare con evidente nesso di causalità un danno all’erario. Cosa, oggettivamente, molto difficile da dimostrare nell’ambito di un giudizio che non può valutare la legittimità o meno della gestione del concorso. La responsabilità amministrativo/contabile può scaturire o dall’evidenza di una decisione manifestamente illegittima e rilevabile in qualunque sede perché affetta da nullità, come nel caso di assunzione a candidato carente in via assoluta del titolo di studio; oppure, non può che presupporre l’accertamento in altra sede dell’illiceità dell’agire pubblico. In ogni caso, la responsabilità amministrativo contabile non riesce a rimediare in modo completo al vulnus all’interesse pubblico, perché ben difficilmente può rimuovere gli effetti sostanziali dell’azione illecita, cioè l’assunzione di persona non qualificata, mentre limita l’effetto deterrente al risarcimento del danno erariale;

3.       la responsabilità disciplinare è funzionale all’intenzione del datore pubblico di esercitarla nei confronti del lavoratore autore. Se l’assunzione illecita in un concorso o in una procedura di mobilità è adottata dal dipendente, poniamo un vertice amministrativo, in applicazione di “direttive” dell’organo di governo che spingano per interessi specifici e personali ad assumere la persona non idonea, ben difficilmente l’azione disciplinare sarà effettivamente intrapresa. Anche in questo caso non vi sarebbe alcuna efficiente e sufficiente reazione dell’ordinamento ad una violazione così profonda all’interesse generale.

Ulteriormente, qualcuno potrebbe osservare che l’ordinamento comunque potrebbe apprestare in sede di giurisdizione amministrativa e non penale i rimedi avverso una gestione amministrativa illegittima.

Ciò è senz’altro corretto. Ma, non si tiene conto di alcuni aspetti:

1.       la giustizia amministrativa agisce, naturalmente, nei confronti del provvedimento illegittimo, non certo applicando sanzioni alla sfera giuridica soggettiva dell’autore del provvedimento stesso;

2.       il giudizio amministrativo è esclusivamente documentale, non ammette prove testimoniali, spesso non riesce ad evidenziare le illiceità di altra natura, retrostanti provvedimenti formalmente corretti, specie quando le motivazioni in esso riportate sono solo formali e di stile, non idonee a rendere trasparenti le vere ragioni dell’adozione delle decisioni;

3.       i tempi per escutere il Tar sono molto ristretti: 60 giorni dalla piena conoscenza del provvedimento;

4.       i costi per il ricorso sono molto alti, a causa degli importi rilevanti del contributo unificato.

In ogni caso, come evidenziato prima, il Tar eventualmente rimuove il provvedimento, senza poter agire afflittivamente sulla persona autore dell’illiceità. Il giudizio amministrativo di annullamento potrebbe avere qualche flebile margine per attivare l’eventuale azione di responsabilità erariale e civile, che, comunque, anch’esse restano prive dell’attitudine ad intervenire come rimedio alla riprovazione sociale ed ordinamentale connessa alla fattispecie di reato.

Pensare di ricondurre, dunque, azioni riconducibili all’abuso d’ufficio, specificamente connesse al conflitto di interessi, significa oggettivamente:

a)       privare ulteriormente di sostanza ed efficacia l’apparato normativo che cerca di combattere il conflitto di interessi, cancellando una deterrenza significativa;

b)      ritenere sufficienti rimedi risarcitori o annullamenti del provvedimento, senza intervenire per punire come illecito non tollerabile dall’ordinamento comportamenti che, proprio per l’assenza di un apparato sanzionatorio penale, verrebbero visti come, a quel punto, leciti e liberamente adottabili.

Tanto più se all’abolizione dell’abuso d’ufficio si accompagnasse un altro provvedimento molto caldeggiato in particolare dai sindaci, già autori della spinta verso una riforma profonda dell’abuso d’ufficio (talmente profonda da giungere fino all’abolizione): lo scudo contro la responsabilità erariale degli organi politici e conseguente scarico sull’apparato amministrativo.

Non è da dimenticare che la discutibile iniziativa “liberiamo i sindaci” caldeggiata anche dall’Anci contiene una norma che vorrebbe modificare l’articolo 107 del d.lgs 267/2000 prevedendo che i dirigenti “Sono altresì titolari in via esclusiva della responsabilità amministrativo-contabile per l'attività di gestione, anche se derivante da atti di indirizzo dell'organo politico di vertice”.

Lo scopo della norma proposta è visibilmente creare capri espiatori nei dirigenti che abbiano commesso danni erariali in conseguenza dell’adozione da parte loro di provvedimenti evidentemente lesivi dei bilanci locali, anche se detti provvedimenti siano attuativi di indirizzi degli organi politici.

Una vera e propria esenzione di responsabilità per gli organi di governo. Il meccanismo pensato è davvero perverso. Infatti, i sindaci “in cerca di liberazione”, mirano a poter essere liberi di adottare atti di indirizzo esenti da responsabilità, anche se i contenuti di merito di tali atti, qualora attuati, portino appunto a danno all'erario: indirizzi per sottoscrivere contratti che riconoscano indennità non finanziate o inesistenti o progressioni orizzontali a pioggia, indirizzi per riconoscere contributi non dovuti, indirizzi per agevolare attività edilizie senza o con forti riduzioni degli oneri, indirizzi per esentare dai tributi per cause non previste dalla legge, indirizzi per ridurre indebitamente canoni e affitti, indirizzi per assumere oltre le capacità o reclutare dirigenti a contratto senza presupposti, indirizzi per proroghe o rinnovi di appalti non dovuti e così via. Indirizzi che, per altro, non è affatto difficile riscontrare nella prassi di ogni giorno negli enti locali, nonostante la loro evidente illegittimità.

Tale iniziativa dei sindaci, tuttavia, altro non fa se non riprendere un’idea già presente nella legge delega per la riforma della PA, legge 124/2015, che si tentò di attuare con la fortunatamente mai andata in porto riforma della dirigenza pubblica. L’articolo 17, lettera t), della legge 124/2015, indica al legislatore delegato il criterio di delega (ormai scaduta) del “rafforzamento del principio di separazione tra indirizzo politico amministrativo e gestione e del conseguente regime di responsabilità dei dirigenti, anche attraverso l'esclusiva imputabilità agli stessi della responsabilità amministrativo-contabile per l'attività gestionale”.

Il disegno di decreto legislativo attuativo, che mai vide la luce, intendeva modificare le norme sui dirigenti pubblici di ogni tipologia di PA prevedendo che essi fossero “titolari in via esclusiva della responsabilità amministrativo-contabile per l’attività gestionale, ancorché derivante da atti di indirizzo dell’organo di vertice politico”.

L’abbinamento abolizione dell’abuso d’ufficio e creazione di questo evidente scudo permanente anti responsabilità erariale per la politica, più il prolungamento ad libitum dell’assenza di responsabilità erariale per colpa grave crea un cortocircuito evidentissimo.

Da un lato, gli organi politici non potrebbero avere più nessuna “paura della firma” non solo ad adottare atti di per sé lesivi (ipotesi, per altro, connessa necessariamente alla violazione dell’assetto delle competenze, visto che gli organi di governo, sindaci compresi, non hanno competenze gestionali e se “firmano” atti è perché nella gran parte dei casi formano atti viziati da illegittimità per incompetenza), ma anche ad adottare “indirizzi” volti a “spingere” l’apparato dirigenziale e amministrativo di vertice ad adottare quegli atti. La “spinta” infatti, resterebbe esclusa da responsabilità penale ed anche erariale.

Dal canto loro, quei dirigenti che per piaggeria, metus publicae potestatis, pavidità, ricerca di compiacere, condivisione di interessi e tesser, ritenessero di adottare il provvedimento lesivo su “spinta” ma anche autonomamente:

a)       finiscono per fare da “scudo umano” all’organo politico per eventuali responsabilità erariali;

b)      in presenza dell’abolizione dell’abuso d’ufficio, non sarebbero limitati dalla deterrenza penale;

c)       in presenza dello scudo alla responsabilità erariale per colpa lieve, non si farebbero influenzare anche in questo caso da alcuna specifica deterrenza.

Il cittadino direttamente leso non riesce così ad ottenere ragione. Nè si riesce a tutelare l’interesse generale ad una gestione amministrativa non solo efficace e mirante al “risultato” ma non influenzata da conflitti di interesse e illegalità.

Resterebbe praticamente privo di qualsiasi strumento efficace per tentare non solo di avere ragione della propria posizione individuale, ma anche di sollecitare l’ordinamento a reagire contro comportamenti di tal genere, che se non repressi rischiano di diffondersi ancor più di quanto non lo siano già, da sempre, nei fatti.

Vediamo un’altra situazione concreta, desunta da una vicenda giudizialmente verificata:

- Alfa, proprietario di un dato immobile, in concorso con:

- Beta, tecnico progettista e firmatario della relazione allegata alla richiesta di rilascio di permesso in sanatoria presentata da Alfa nonché Presidente del Consiglio comunale di XXX;

- Gamma, Sindaco del Comune in questione e coniuge dello stesso Alfa nonché utilizzatore dell'immobile in relazione al quale fu presentata istanza di permesso in sanatoria;

- Delta, funzionario responsabile dell'ufficio urbanistico del comune- assolto all'esito di un separato giudizio celebrato nelle forme del rito abbreviato;

- Epsilon, responsabile del procedimento relativo alla richiesta di rilascio del permesso,

avrebbero emesso illegittimamente il permesso in sanatoria a firma dello stesso Delta - in precedenza negato ad opera del funzionario Zeta- a costruire in violazione degli artt. 34- 36 d.P.R. n. 380 del 2001, così sanando una serie di opere abusive realizzate da Alfa ed ottenendo un indebito vantaggio.

In tale contesto Gamma, nella sua qualità di Sindaco ed al fine di rimuovere Zeta dall'ufficio urbanistico per avere questi firmato in precedenza il provvedimento di diniego al rilascio del permesso a costruire in sanatoria e l'ordinanza di demolizione delle opere abusive, dava ordine di trasferire lo stesso Zeta ad altro ufficio, facendo adottare una delibera illegittima.

In questo caso, non c’è nessuna corruzione (manca del tutto il pactum sceleris tra alcune parti), non c’è concussione (nessun pubblico ufficiale ha costretto alcuno ad un certo comportamento, in particolare dare o promettere denaro in cambio di utilità), non c’è falso, non c’è estorsione.

Più semplicemente, si resta nella cerchia dell’elemento più odioso nella vita di ciascuno: l’abuso della posizione, da un lato, e, dall’altro, la cortigianeria, la ricerca di far contento il “potente”, così da scalzare anche il collega.

Riassumendo, il coniuge di un sindaco realizza un abuso edilizio; chiede la sanatoria di tale abuso essendo sindaco del comune il coniuge; ma, un funzionario del settore edilizia adotta un provvedimento di diniego al rilascio della sanatoria.

La reazione del sindaco non si fa attendere:

  1. dà “ordine” (a chi? Al segretario comunale? Al funzionario al vertice dell’ufficio edilizia? Dall’esposizione in fatto non si capisce, ma è chiaro che destinatari di tale “ordine” non possono che essere tali soggetti, o anche il responsabile del settore personale, vista la convinzione, tanto radicata quanto erronea, che la gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti sia di sua pertinenza) di rimuovere l’autore del diniego, per spostarlo ad altro ufficio;
  2. qualcuno tra i soggetti sopra ipotizzati, in effetti, rimuove dalla sua funzione l’autore del diniego;
  3. qualcuno incarica come responsabile del procedimento un nuovo funzionario, ben disposto ad “accontentare il sindaco”, accogliendo la sanatoria;
  4. il nuovo responsabile del procedimento produce atti di istruttoria e propone una delibera di accoglimento della sanatoria illegittima: appare tale, dalla sentenza, sia per il contenuto di merito (la sanatoria non poteva essere adottata); ma l’illegittimità discende anche, sul piano amministrativo, dalla violazione della competenza;
  5. il sindaco ed il coniuge ottengono, dunque, il beneficio di una sanatoria non spettante, grazie all’evidente abuso da parte del sindaco stesso del proprio ufficio, discendente dall’adozione di quel cosiddetto “ordine” di trasferire l’autore del diniego alla sanatoria ad altro ufficio, così da insediare un più conciliante e “fedele” funzionario;
  6. il sindaco ottiene anche la produzione di un illegittimo provvedimento di rimozione del funzionario “malmostoso”.

Nel caso di specie, non vi è stata, però, nessuna condanna per tale abuso d’ufficio, in quanto nell’ipotesi accusatoria lo si riconduce alla violazione del regolamento comunale sull’ordinamento degli uffici e dei servizi.

La Cassazione Penale Sent. Sez. 6 Num. 15835 Anno 2023, spiega: “la recente riforma del reato di abuso d'ufficio — realizzato con lo strumento della decretazione d'urgenza (dl. n. 76 del 16 luglio 2020, convertito con legge 11 settembre 2020, n. 120)- ha inciso sullo spettro applicativo della fattispecie, limitandola, sul versante della rilevanza degli atti discrezionali e su quello delle norme di legge che costituiscono il parametro della violazione richiesta: è stata infatti esclusa la rilevanza della violazione di norme contenute all'interno di regolamenti. Si è spiegato in più occasioni che, per effetto della modifica indicata, si è realizzata una parziale abolitio criminis in relazione ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore, in quanto realizzati mediante violazione di norme regolamentari (come nella 5 Corte di Cassazione - copia non ufficiale specie secondo la contestazione) o di norme di legge generali ed astratte, da cui non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse, o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità nell'azione del pubblico ufficiale. La condotta di abuso deve consistere nella violazione di regole specifiche così da impedire che si sussuma nell'ambito della fattispecie tipica anche l'inosservanza di norme di principio, quale l'art. 97 Cost. (così, Corte cost., sent. n. 8 del 2022; cfr. al riguardo, Sez. 6, n. 28402 del 10/06/2022, Bobbio, Rv. 283359; Sez. 6, n. 23794 del 07/04/2022, Graziani; Rv. 283285; Sez. 6, n. 13136 del 17/02/2022, Rv. 282945). la recente riforma del reato di abuso d'ufficio — realizzato con lo strumento della decretazione d'urgenza (dl. n. 76 del 16 luglio 2020, convertito con legge 11 settembre 2020, n. 120)- ha inciso sullo spettro applicativo della fattispecie, limitandola, sul versante della rilevanza degli atti discrezionali e su quello delle norme di legge che costituiscono il parametro della violazione richiesta: è stata infatti esclusa la rilevanza della violazione di norme contenute all'interno di regolamenti. Si è spiegato in più occasioni che, per effetto della modifica indicata, si è realizzata una parziale abolitio criminis in relazione ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore, in quanto realizzati mediante violazione di norme regolamentari (come nella 5 Corte di Cassazione - copia non ufficiale specie secondo la contestazione) o di norme di legge generali ed astratte, da cui non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse, o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità nell'azione del pubblico ufficiale. La condotta di abuso deve consistere nella violazione di regole specifiche così da impedire che si sussuma nell'ambito della fattispecie tipica anche l'inosservanza di norme di principio, quale l'art. 97 Cost. (così, Corte cost., sent. n. 8 del 2022; cfr. al riguardo, Sez. 6, n. 28402 del 10/06/2022, Bobbio, Rv. 283359; Sez. 6, n. 23794 del 07/04/2022, Graziani; Rv. 283285; Sez. 6, n. 13136 del 17/02/2022, Rv. 282945)”.

Dunque, l’ordinamento non riesce ad apprestare nessun intervento sanzionatorio volto a reagire contro l’utilizzo improprio e odioso del potere, che ha condotto al trasferimento di un dipendente pubblico “reo” di non aver accontentato una richiesta del coniuge del sindaco, ad altro ufficio.

In Italia vi sono oltre 8.000 comuni. Il fatto raccontato in modo molto succinto da questa sentenza non è per nulla isolato, ma emblematico di un modo di gestire ed amministrare sotterraneo, perché raramente emerge, ma diffusissimo.

Abusi simili, spessissimo legati all’urbanistica e all’edilizia, ma riguardanti anche il commercio, l’attribuzione di contributi a terzi, appalti mediante affidamenti diretti, nei comuni sono all’ordine del giorno. E nella gran parte dei casi realizzati sempre col meccanismo dell’evidente poco gradimento dell’operato di un qualche dirigente o funzionario che esprime pareri contrari sul piano tecnico alle intenzioni degli organi di governo, cui consegue la rimozione e in taluni casi la “avocazione” della decisione da parte di altri soggetti disposti ad adottare quel provvedimento, rimozione ed avocazione sollecitata indebitamente, perché non connessa a valutazioni oggettive sull’operato o all’erroneità della decisione, ma al “fastidio” ingenerato per il “no” al “potente”, e supinamente, o talora perfidamente, perseguita da chi o per compiacenza, o per carrierismo, o per perfidia, coglie l’occasione per accontentare il “potente”.

Come si nota, quella della “paura della firma” da parte dei sindaci generalmente è solo una storia, una vera e propria scusa, che regge ben poco. Questa tipologia diffusissima di abusi non deriva dall’apposizione di nessuna firma da parte dei sindaci (i quali, del resto, se esercitino il proprio mandato nel rispetto delle proprie competenze, di firme ne dovrebbero apporre poche, pochissime); essi, o gli assessori, o i componenti degli organi di governo, danno “indirizzi” agli uffici. Un primo genere di indirizzi è di tipo operativo: l’indirizzo non tanto di istruire la situazione di un immobile, quanto di “approvare” la sanatoria, il che spesso evidenzia come non di indirizzi si tratti, in realtà, ma dell’intento di decidere, ma per il tramite del funzionario cui la legge rimette la competenza. Un secondo genere di indirizzo, all’espressione negativa (in qualsiasi forma) sulla possibilità di adottare la decisione in modo conforme all’indirizzo (nell’esempio, approvare la sanatoria), è di intervenire sull’organizzazione: lo scopo è rimuovere dall’incarico la persona fisica individuata come “ostacolo”, per sostituirla con chi si sa essere, invece, disposto a rispettare l’indirizzo che camuffa, invece, veri e propri ordini operativi, per altro in materie che dovrebbero essere totalmente sottratte alla competenza politica (quale certamente è quella della gestione del personale).

Se da un lato i sindaci, in questo genere di fatti, non firmano nulla, spesso limitandosi a indirizzi/ordini verbali, più o meno pressanti, ma ad atti formali neutri, la sottoscrizione è di pertinenza del subentrante, che adotta gli atti “graditi”, e di chi firma anche il trasferimento ad altro incarico o l’avocazione nei riguardi del dipendente “riottoso”: atti motivati da un disegno complessivo di abuso, in ogni caso non sorretti dal perseguimenti di interessi generali, ma solo da fini egoistici: il compiacere, il fare carriera, il danneggiare il funzionario “non allineato”. Fini abbracciati senza alcuna costrizione o concussione, senza alcuno scambio almeno immediato di utilità, privi di un patto concordato.

Il tutto, per altro, agevolato dalla violazione costante e continua, sulla quale non c’è modo di intervenire, del precetto fondamentale dell’obbligo di motivare i provvedimenti, garanzia di trasparenza e tutela che, ovviamente, viene tradita in particolare in presenza di decisioni, le tantissime decisioni, adottate per perpetrare i piccoli grandi abusi all’ordine del giorno in ogni comune.

E per questi atti, spesso immotivati o dalle motivazioni imperscrutabili, di pura accondiscendenza, remissività e piaggeria, si può star certi: non vi è nessuna “paura della firma”. Non vi era prima della riforma del 2020, si è quasi del tutto azzerata dopo la riforma, sarà totalmente nell’oblio dopo l’abrogazione definitiva dell’abuso d’ufficio, che, anzi, rafforzerà e estenderà ancor più queste mille e mille modalità travisate di amministrare, nella garanzia che i presunti strumenti “alternativi” di tutela non possono aver alcuna presa: non quelli penali, perché estranei a fattispecie come quelle esemplificate; non quelli amministrativi, poiché la gran parte degli abusi d’ufficio sono questioni di merito, non di legittimità degli atti e, comunque, i costi dell’azione al Tar sono elevatissimi; non quelli contabili, poiché l’abuso d’ufficio difficilmente coincide con una gestione dannosa; non quelli civili, in particolare perché l’eventuale tutelabilità di posizioni di diritto soggettivo in ogni caso giungerebbe con tempi del tutto inadeguati.

L’ordinamento, quindi, tollererebbe il permanere in servizio senza conseguenze di chi agisce inquinando il perseguimento dell’interesse pubblico con la ricerca di fini egoistici contrapposti: gli strumenti della normativa anticorruzione previsti dalla legge 190/2012 e dalle varie sovrastrutture, come i piani di prevenzione, non servirebbero a nulla. Non sono, in effetti, mai serviti a nulla e, comunque, l’eliminazione dell’abuso d’ufficio renderebbe oltremodo facile la rimozione dell’eventuale responsabile della prevenzione della corruzione “troppo petulante”, con qualcuno più attento alla “voce del potere”.

E il cittadino? In tutto questo, rimane sempre più esposto senza rimedi ad abusi di varia natura, come i promessi sposi, vittime del “questo matrimonio non s’ha da fare” ed impossibilitati a trovare, tra le tante gride manipolate da azzeccagarbugli che agiscono con condiscendenza e piaggeria nei confronti del potere, il rimedio all’azione illecita e odiosa subita.

 

 

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