L’articolo 7 del dPR 62/2013, codice di comportamento dei dipendenti pubblici disciplina l’obbligo di astensione: “Il dipendente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza. Sull’astensione decide il responsabile dell’ufficio di appartenenza”.
Si tratta di una delle norme appartenenti all’apparato
normativo che trova fondamento nella legge 190/2012, Disposizioni per la
prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica
amministrazione. L’articolo 1, comma 41, di tale legge ha introdotto l’articolo
6-bis della legge 241/1990, ai sensi del quale “Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti
ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il
provvedimento finale devono astenersi
in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto,
anche potenziale”.
Ancora, l’articolo 16 del dPR 62/2013 tratta delle
responsabilità conseguenti alla violazione dei doveri del codice di
comportamento, stabilendo al comma 1: “La
violazione degli obblighi previsti dal presente Codice integra comportamenti
contrari ai doveri d’ufficio. Ferme restando le ipotesi in cui la violazione
delle disposizioni contenute nel presente Codice, nonché dei doveri e degli
obblighi previsti dal piano di prevenzione della corruzione, dà luogo anche a responsabilità penale,
civile, amministrativa o contabile del pubblico dipendente, essa è fonte di
responsabilità disciplinare accertata all’esito del procedimento disciplinare,
nel rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità delle sanzioni”.
L’articolo 16 del dPR 62/2013 è una norma centrale e di
rilevanza fondamentale, per comprendere la potenziale efficacia delle
disposizioni miranti a combatte la corruzione, intesa non come reato, me come
mala gestione della cosa pubblica, mirante a comprometterne efficienza,
trasparenza, buon andamento, economicità e capacità di perseguire l’interesse
pubblico, a causa della compressione o anullamento di tale interesse a
vantaggio di interessi di natura privata.
Il principale elemento di rischio è il conflitto di
interessi. Esso sorge in presenza di:
1.
un
interesse di natura privata/egoistica in capo al titolare di qualsiasi potere
di azione della pubblica amministrazione e/o di un destinatario o di un
controinteressato all’azione amministrativa, da un lato;
2.
un
interesse pubblico che orienti le decisioni verso una direzione univoca;
3.
l’adozione
di decisioni che comprimano l’interesse pubblico, arrecando vantaggi indebiti
ai titolari degli interessi privati contrapposti, tra i quali vantaggi
rientrano anche lesioni ingiustificate a posizioni giuridiche soggettive di
terzi.
Come visto, l’articolo 16 del dPR 62/2013 riassume tutte le
tipologie di responsabilità potenzialmente conseguenti alla violazione dei
doveri di comportamento dei dipendenti pubblici:
1.
penale,
2.
civile,
3.
amministrativa
o contabile
4.
disciplinare.
Quella che interessa in particolare, rispetto al dibattito
sull’opportunità di abolire il reato di abuso d’ufficio, ovviamente è la
responsabilità penale e, specificamente, la responsabilità penale scaturente
dalla violazione dell’obbligo di astensione.
E’ bene ricordare che, ai sensi dell’articolo 1, comma 1,
del codice penale, attuativo dell’articolo 25 della Costituzione, “Nessuno
può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato
dalla legge né con pene che non siano
da essa stabilite”.
Nel codice penale vigente, l’unico articolo che prevede
espressamente come fatto punibile come reato la violazione del dovere di
astensione è proprio il 323 che regola l’abuso d’ufficio: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico
ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle
funzioni o del servizio, in violazione
di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti
aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di
discrezionalità ovvero omettendo di
astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o
negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un
ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è
punito con la reclusione da uno a quattro anni”.
Se, dunque, la violazione dell’obbligo di astenersi,
ovviamente scaturente da una situazione di conflitto di interessi, non sia
contemplata espressamente da specifiche norme penali che sanzionino un fatto
che costituisca più grave reato, solo l’articolo 323 del codice penale può
garantire la reazione dell’ordinamento giuridico ad una violazione di regole di
comportamento che la società ritiene di non poter tollerare, punendo come illecito
penale il fatto connesso.
La violazione dell’obbligo di astensione è uno degli
elementi tipici dell’abuso d’ufficio. Infatti, l’atto adottato da una pubblica
autorità idoneo a procurare a sé un ingiusto vantaggio patrimoniale (si badi,
la norma è chiara: solo il vantaggio patrimoniale viene considerato, non,
quindi, ad esempio quello “morale”) o ad arrecare a terzi un danno ingiusto (in
questo caso non solo patrimoniale), è sostanzialmente adottato in quanto spinto
proprio dalla cura di un interesse diverso da quello pubblico. Per stare ad un
esempio molto utilizzato, si pensi al concorso pubblico, nel quale l’autorità
decidente, agisce illecitamente per garantire il conseguimento della
collocazione utile in graduatoria a persona a sé gradita ma non effettivamente
meritevole e, quindi, crea un ingiusto svantaggio per il reale meritevole. In
questo caso, l’interesse pubblico alla selezione del concorrente migliore viene
compromesso dall’interesse privato volto a danneggiare un certo concorrente, in
favore di un altro pur meno competente.
In assenza dell’accordo corruttivo previsto perché ricorra
il reato di corruzione, la reazione penale contro questo modo di agire risulta
molto difficile da attivare, in assenza del reato di abuso d’ufficio.
E’ spiegato in maniera diffusa e completa da Gian Luigi
Gatta nell’articolo “Concorsi
pubblici “turbati”: per la Cassazione è configurabile l’abuso d’ufficio ma non
la turbativa d’asta: un esemplare caso di vuoto di tutela che si prospetta con
l’abrogazione dell’art. 323 c.p.”. Nell’articolo si spiega che non
sussistendo altre fattispecie di reato, non risulta corretto affermare che
l’ordinamento dispone di un “arsenale normativo” al quale poter fare
riferimento per combattere contro i pubblici amministratori infedeli. Si è
ricordato sopra l’articolo 1 del codice penale: non è possibile ovviamente
applicare per analogia o estendere all’inverosimile norme sui reati, per
coprire la fattispecie di un comportamento come quello esemplificato.
La Cassazione, con la sentenza della Sezione Penale VI,
16.6.2023, n. 26225, citata dal Gatta, evidenzia, correttamente, come non sia
corretto applicare alla fattispecie dell’illecita alterazione degli esiti di un
concorso pubblico quello del reato di turbativa d’asta, molte volte, invece,
utilizzato nel passato dai PM e da alcuni giudici territoriali, proprio allo
scopo di rinvenire una fattispecie di reato diversa dall’abuso d’ufficio,
idonea a “coprire” la “turbativa dei concorsi pubblici”. Il reato di turbata
libertà degli incanti, precisa la Cassazione, vale per le sole procedure
indette per l’affidamento di commesse pubbliche o per la concessione di beni
pubblici, ma non può ricomprendere i concorsi per l’accesso agli impieghi
pubblici o le procedure di mobilità del personale tra diverse amministrazioni.
Si potrebbe essere, tuttavia, portati ad affermare che nel
cosiddetto “arsenale” sanzionatorio rientrino anche le già viste sopra
ulteriori responsabilità:
1.
civile,
2.
amministrativa
o contabile
3.
disciplinare.
E però:
1.
la
responsabilità civile mette in condizione il candidato che avrebbe avuto
diritto all’assunzione, di ottenere dal giudice eventualmente il riconoscimento
del danno subito dall’azione infedele e come rimedio appresta solo il
risarcimento del danno: il dipendente assunto a seguito dell’illecita gestione
della procedura concorsuale resterebbe al proprio posto, sicchè l’interesse
generale non sarebbe garantito;
2.
la
responsabilità amministrativo/contabile non discende dall’illiceità o
illegittimità sostanziale in se del provvedimento, ma dalla sua idoneità a
causare con evidente nesso di causalità un danno all’erario. Cosa,
oggettivamente, molto difficile da dimostrare nell’ambito di un giudizio che
non può valutare la legittimità o meno della gestione del concorso. La
responsabilità amministrativo/contabile può scaturire o dall’evidenza di una
decisione manifestamente illegittima e rilevabile in qualunque sede perché
affetta da nullità, come nel caso di assunzione a candidato carente in via
assoluta del titolo di studio; oppure, non può che presupporre l’accertamento
in altra sede dell’illiceità dell’agire pubblico. In ogni caso, la
responsabilità amministrativo contabile non riesce a rimediare in modo completo
al vulnus all’interesse pubblico, perché ben difficilmente può rimuovere gli
effetti sostanziali dell’azione illecita, cioè l’assunzione di persona non
qualificata, mentre limita l’effetto deterrente al risarcimento del danno
erariale;
3.
la
responsabilità disciplinare è funzionale all’intenzione del datore pubblico di
esercitarla nei confronti del lavoratore autore. Se l’assunzione illecita in un
concorso o in una procedura di mobilità è adottata dal dipendente, poniamo un
vertice amministrativo, in applicazione di “direttive” dell’organo di governo
che spingano per interessi specifici e personali ad assumere la persona non
idonea, ben difficilmente l’azione disciplinare sarà effettivamente intrapresa.
Anche in questo caso non vi sarebbe alcuna efficiente e sufficiente reazione
dell’ordinamento ad una violazione così profonda all’interesse generale.
Ulteriormente, qualcuno potrebbe osservare che l’ordinamento
comunque potrebbe apprestare in sede di giurisdizione amministrativa e non
penale i rimedi avverso una gestione amministrativa illegittima.
Ciò è senz’altro corretto. Ma, non si tiene conto di alcuni
aspetti:
1.
la
giustizia amministrativa agisce, naturalmente, nei confronti del provvedimento
illegittimo, non certo applicando sanzioni alla sfera giuridica soggettiva
dell’autore del provvedimento stesso;
2.
il
giudizio amministrativo è esclusivamente documentale, non ammette prove
testimoniali, spesso non riesce ad evidenziare le illiceità di altra natura,
retrostanti provvedimenti formalmente corretti, specie quando le motivazioni in
esso riportate sono solo formali e di stile, non idonee a rendere trasparenti
le vere ragioni dell’adozione delle decisioni;
3.
i
tempi per escutere il Tar sono molto ristretti: 60 giorni dalla piena
conoscenza del provvedimento;
4.
i
costi per il ricorso sono molto alti, a causa degli importi rilevanti del
contributo unificato.
In ogni caso, come evidenziato prima, il Tar eventualmente
rimuove il provvedimento, senza poter agire afflittivamente sulla persona
autore dell’illiceità. Il giudizio amministrativo di annullamento potrebbe
avere qualche flebile margine per attivare l’eventuale azione di responsabilità
erariale e civile, che, comunque, anch’esse restano prive dell’attitudine ad
intervenire come rimedio alla riprovazione sociale ed ordinamentale connessa
alla fattispecie di reato.
Pensare di ricondurre, dunque, azioni riconducibili
all’abuso d’ufficio, specificamente connesse al conflitto di interessi,
significa oggettivamente:
a)
privare
ulteriormente di sostanza ed efficacia l’apparato normativo che cerca di
combattere il conflitto di interessi, cancellando una deterrenza significativa;
b)
ritenere
sufficienti rimedi risarcitori o annullamenti del provvedimento, senza
intervenire per punire come illecito non tollerabile dall’ordinamento
comportamenti che, proprio per l’assenza di un apparato sanzionatorio penale,
verrebbero visti come, a quel punto, leciti e liberamente adottabili.
Tanto più se all’abolizione dell’abuso d’ufficio si
accompagnasse un altro provvedimento molto caldeggiato in particolare dai
sindaci, già autori della spinta verso una riforma profonda dell’abuso d’ufficio
(talmente profonda da giungere fino all’abolizione): lo scudo contro la
responsabilità erariale degli organi politici e conseguente scarico
sull’apparato amministrativo.
Non è da dimenticare che la discutibile iniziativa
“liberiamo i sindaci” caldeggiata anche dall’Anci contiene una norma che
vorrebbe modificare l’articolo 107 del d.lgs 267/2000 prevedendo che i
dirigenti “Sono altresì titolari in via esclusiva della
responsabilità amministrativo-contabile per l'attività di gestione, anche
se derivante da atti di indirizzo
dell'organo politico di vertice”.
Lo scopo della norma proposta è visibilmente creare capri
espiatori nei dirigenti che abbiano commesso danni erariali in conseguenza
dell’adozione da parte loro di provvedimenti evidentemente lesivi dei bilanci
locali, anche se detti provvedimenti siano attuativi di indirizzi degli organi
politici.
Una vera e propria esenzione di responsabilità per gli
organi di governo. Il meccanismo pensato è davvero perverso. Infatti, i sindaci
“in cerca di liberazione”, mirano a poter essere liberi di adottare atti di
indirizzo esenti da responsabilità, anche se i contenuti di merito di tali
atti, qualora attuati, portino appunto a danno all'erario: indirizzi per
sottoscrivere contratti che riconoscano indennità non finanziate o inesistenti
o progressioni orizzontali a pioggia, indirizzi per riconoscere contributi non
dovuti, indirizzi per agevolare attività edilizie senza o con forti riduzioni
degli oneri, indirizzi per esentare dai tributi per cause non previste dalla
legge, indirizzi per ridurre indebitamente canoni e affitti, indirizzi per
assumere oltre le capacità o reclutare dirigenti a contratto senza presupposti,
indirizzi per proroghe o rinnovi di appalti non dovuti e così via. Indirizzi
che, per altro, non è affatto difficile riscontrare nella prassi di ogni giorno
negli enti locali, nonostante la loro evidente illegittimità.
Tale iniziativa dei sindaci, tuttavia, altro non fa se non
riprendere un’idea già presente nella legge delega per la riforma della PA,
legge 124/2015, che si tentò di attuare con la fortunatamente mai andata in
porto riforma della dirigenza pubblica. L’articolo 17, lettera t), della legge
124/2015, indica al legislatore delegato il criterio di delega (ormai scaduta)
del “rafforzamento del principio di
separazione tra indirizzo politico amministrativo e gestione e del conseguente
regime di responsabilità dei dirigenti, anche attraverso l'esclusiva imputabilità agli stessi della responsabilità
amministrativo-contabile per l'attività gestionale”.
Il disegno di decreto legislativo attuativo, che mai vide la
luce, intendeva modificare le norme sui dirigenti pubblici di ogni tipologia di
PA prevedendo che essi fossero “titolari in via esclusiva della responsabilità
amministrativo-contabile per l’attività gestionale, ancorché derivante da atti
di indirizzo dell’organo di vertice politico”.
L’abbinamento abolizione dell’abuso d’ufficio e creazione di
questo evidente scudo permanente anti responsabilità erariale per la politica,
più il prolungamento ad libitum dell’assenza di responsabilità erariale per
colpa grave crea un cortocircuito evidentissimo.
Da un lato, gli organi politici non potrebbero avere più
nessuna “paura della firma” non solo ad adottare atti di per sé lesivi
(ipotesi, per altro, connessa necessariamente alla violazione dell’assetto
delle competenze, visto che gli organi di governo, sindaci compresi, non hanno
competenze gestionali e se “firmano” atti è perché nella gran parte dei casi
formano atti viziati da illegittimità per incompetenza), ma anche ad adottare
“indirizzi” volti a “spingere” l’apparato dirigenziale e amministrativo di
vertice ad adottare quegli atti. La “spinta” infatti, resterebbe esclusa da
responsabilità penale ed anche erariale.
Dal canto loro, quei dirigenti che per piaggeria, metus publicae potestatis, pavidità,
ricerca di compiacere, condivisione di interessi e tesser, ritenessero di
adottare il provvedimento lesivo su “spinta” ma anche autonomamente:
a)
finiscono
per fare da “scudo umano” all’organo politico per eventuali responsabilità
erariali;
b)
in
presenza dell’abolizione dell’abuso d’ufficio, non sarebbero limitati dalla
deterrenza penale;
c)
in
presenza dello scudo alla responsabilità erariale per colpa lieve, non si
farebbero influenzare anche in questo caso da alcuna specifica deterrenza.
Il cittadino direttamente leso non riesce così ad ottenere ragione. Nè si riesce a tutelare l’interesse generale ad
una gestione amministrativa non solo efficace e mirante al “risultato” ma non
influenzata da conflitti di interesse e illegalità.
Resterebbe praticamente privo di qualsiasi strumento
efficace per tentare non solo di avere ragione della propria posizione
individuale, ma anche di sollecitare l’ordinamento a reagire contro
comportamenti di tal genere, che se non repressi rischiano di diffondersi ancor
più di quanto non lo siano già, da sempre, nei fatti.
Vediamo un’altra situazione
concreta, desunta da una vicenda giudizialmente verificata:
- Alfa, proprietario di un dato immobile, in concorso con:
- Beta, tecnico progettista e firmatario della relazione
allegata alla richiesta di rilascio di permesso in sanatoria presentata da Alfa
nonché Presidente del Consiglio comunale di XXX;
- Gamma, Sindaco del Comune in questione e coniuge dello
stesso Alfa nonché utilizzatore dell'immobile in relazione al quale fu
presentata istanza di permesso in sanatoria;
- Delta, funzionario responsabile dell'ufficio urbanistico
del comune- assolto all'esito di un separato giudizio celebrato nelle forme del
rito abbreviato;
- Epsilon, responsabile del procedimento relativo alla
richiesta di rilascio del permesso,
avrebbero emesso illegittimamente il permesso in sanatoria a
firma dello stesso Delta - in precedenza negato ad opera del funzionario Zeta-
a costruire in violazione degli artt. 34- 36 d.P.R. n. 380 del 2001, così
sanando una serie di opere abusive realizzate da Alfa ed ottenendo un indebito
vantaggio.
In tale contesto Gamma, nella sua qualità di Sindaco ed al
fine di rimuovere Zeta dall'ufficio urbanistico per avere questi firmato in
precedenza il provvedimento di diniego al rilascio del permesso a costruire in
sanatoria e l'ordinanza di demolizione delle opere abusive, dava ordine di
trasferire lo stesso Zeta ad altro ufficio, facendo adottare una delibera
illegittima.
In questo caso, non c’è nessuna corruzione (manca del tutto
il pactum sceleris tra alcune parti), non c’è concussione (nessun pubblico
ufficiale ha costretto alcuno ad un certo comportamento, in particolare dare o
promettere denaro in cambio di utilità), non c’è falso, non c’è estorsione.
Più semplicemente, si resta nella cerchia dell’elemento più
odioso nella vita di ciascuno: l’abuso della posizione, da un lato, e,
dall’altro, la cortigianeria, la ricerca di far contento il “potente”, così da
scalzare anche il collega.
Riassumendo, il coniuge di un sindaco realizza un abuso
edilizio; chiede la sanatoria di tale abuso essendo sindaco del comune il
coniuge; ma, un funzionario del settore edilizia adotta un provvedimento di
diniego al rilascio della sanatoria.
La reazione del sindaco non si fa attendere:
- dà “ordine” (a chi? Al
segretario comunale? Al funzionario al vertice dell’ufficio edilizia?
Dall’esposizione in fatto non si capisce, ma è chiaro che destinatari di
tale “ordine” non possono che essere tali soggetti, o anche il
responsabile del settore personale, vista la convinzione, tanto radicata
quanto erronea, che la gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti sia
di sua pertinenza) di rimuovere l’autore del diniego, per spostarlo ad
altro ufficio;
- qualcuno tra i soggetti
sopra ipotizzati, in effetti, rimuove dalla sua funzione l’autore del
diniego;
- qualcuno incarica come
responsabile del procedimento un nuovo funzionario, ben disposto ad
“accontentare il sindaco”, accogliendo la sanatoria;
- il nuovo responsabile del
procedimento produce atti di istruttoria e propone una delibera di
accoglimento della sanatoria illegittima: appare tale, dalla sentenza, sia
per il contenuto di merito (la sanatoria non poteva essere adottata); ma
l’illegittimità discende anche, sul piano amministrativo, dalla violazione
della competenza;
- il sindaco ed il coniuge
ottengono, dunque, il beneficio di una sanatoria non spettante, grazie
all’evidente abuso da parte del sindaco stesso del proprio ufficio,
discendente dall’adozione di quel cosiddetto “ordine” di trasferire
l’autore del diniego alla sanatoria ad altro ufficio, così da insediare un
più conciliante e “fedele” funzionario;
- il sindaco ottiene anche
la produzione di un illegittimo provvedimento di rimozione del funzionario
“malmostoso”.
Nel caso di specie, non vi è stata, però, nessuna condanna
per tale abuso d’ufficio, in quanto nell’ipotesi accusatoria lo si riconduce
alla violazione del regolamento comunale sull’ordinamento degli uffici e dei
servizi.
La Cassazione Penale Sent. Sez. 6 Num. 15835 Anno 2023,
spiega: “la recente riforma del reato di abuso d'ufficio — realizzato con lo
strumento della decretazione d'urgenza (dl. n. 76 del 16 luglio 2020,
convertito con legge 11 settembre 2020, n. 120)- ha inciso sullo spettro
applicativo della fattispecie, limitandola, sul versante della rilevanza degli
atti discrezionali e su quello delle norme di legge che costituiscono il
parametro della violazione richiesta: è stata infatti esclusa la rilevanza
della violazione di norme contenute all'interno di regolamenti. Si è spiegato
in più occasioni che, per effetto della modifica indicata, si è realizzata una
parziale abolitio criminis in relazione ai fatti commessi prima della sua
entrata in vigore, in quanto realizzati mediante violazione di norme
regolamentari (come nella 5 Corte di Cassazione - copia non ufficiale specie
secondo la contestazione) o di norme di legge generali ed astratte, da cui non
siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse, o che comunque
lascino residuare margini di discrezionalità nell'azione del pubblico ufficiale.
La condotta di abuso deve consistere nella violazione di regole specifiche così
da impedire che si sussuma nell'ambito della fattispecie tipica anche
l'inosservanza di norme di principio, quale l'art. 97 Cost. (così, Corte cost.,
sent. n. 8 del 2022; cfr. al riguardo, Sez. 6, n. 28402 del 10/06/2022, Bobbio,
Rv. 283359; Sez. 6, n. 23794 del 07/04/2022, Graziani; Rv. 283285; Sez. 6, n.
13136 del 17/02/2022, Rv. 282945). la recente riforma del reato di abuso
d'ufficio — realizzato con lo strumento della decretazione d'urgenza (dl. n. 76
del 16 luglio 2020, convertito con legge 11 settembre 2020, n. 120)- ha inciso
sullo spettro applicativo della fattispecie, limitandola, sul versante della
rilevanza degli atti discrezionali e su quello delle norme di legge che
costituiscono il parametro della violazione richiesta: è stata infatti esclusa
la rilevanza della violazione di norme contenute all'interno di regolamenti. Si
è spiegato in più occasioni che, per effetto della modifica indicata, si è
realizzata una parziale abolitio criminis in relazione ai fatti commessi prima
della sua entrata in vigore, in quanto realizzati mediante violazione di norme
regolamentari (come nella 5 Corte di Cassazione - copia non ufficiale specie
secondo la contestazione) o di norme di legge generali ed astratte, da cui non
siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse, o che comunque
lascino residuare margini di discrezionalità nell'azione del pubblico
ufficiale. La condotta di abuso deve consistere nella violazione di regole
specifiche così da impedire che si sussuma nell'ambito della fattispecie tipica
anche l'inosservanza di norme di principio, quale l'art. 97 Cost. (così, Corte
cost., sent. n. 8 del 2022; cfr. al riguardo, Sez. 6, n. 28402 del 10/06/2022,
Bobbio, Rv. 283359; Sez. 6, n. 23794 del 07/04/2022, Graziani; Rv. 283285; Sez.
6, n. 13136 del 17/02/2022, Rv. 282945)”.
Dunque, l’ordinamento non riesce ad apprestare nessun
intervento sanzionatorio volto a reagire contro l’utilizzo improprio e odioso
del potere, che ha condotto al trasferimento di un dipendente pubblico “reo” di
non aver accontentato una richiesta del coniuge del sindaco, ad altro ufficio.
In Italia vi sono oltre 8.000 comuni. Il fatto raccontato in
modo molto succinto da questa sentenza non è per nulla isolato, ma emblematico
di un modo di gestire ed amministrare sotterraneo, perché raramente emerge, ma
diffusissimo.
Abusi simili, spessissimo legati all’urbanistica e
all’edilizia, ma riguardanti anche il commercio, l’attribuzione di contributi a
terzi, appalti mediante affidamenti diretti, nei comuni sono all’ordine del
giorno. E nella gran parte dei casi realizzati sempre col meccanismo dell’evidente
poco gradimento dell’operato di un qualche dirigente o funzionario che esprime
pareri contrari sul piano tecnico alle intenzioni degli organi di governo, cui
consegue la rimozione e in taluni casi la “avocazione” della decisione da parte
di altri soggetti disposti ad adottare quel provvedimento, rimozione ed
avocazione sollecitata indebitamente, perché non connessa a valutazioni
oggettive sull’operato o all’erroneità della decisione, ma al “fastidio”
ingenerato per il “no” al “potente”, e supinamente, o talora perfidamente,
perseguita da chi o per compiacenza, o per carrierismo, o per perfidia, coglie
l’occasione per accontentare il “potente”.
Come si nota, quella della “paura della firma” da parte dei
sindaci generalmente è solo una storia, una vera e propria scusa, che regge ben
poco. Questa tipologia diffusissima di abusi non deriva dall’apposizione di
nessuna firma da parte dei sindaci (i quali, del resto, se esercitino il
proprio mandato nel rispetto delle proprie competenze, di firme ne dovrebbero
apporre poche, pochissime); essi, o gli assessori, o i componenti degli organi
di governo, danno “indirizzi” agli uffici. Un primo genere di indirizzi è di
tipo operativo: l’indirizzo non tanto di istruire la situazione di un immobile,
quanto di “approvare” la sanatoria, il che spesso evidenzia come non di
indirizzi si tratti, in realtà, ma dell’intento di decidere, ma per il tramite
del funzionario cui la legge rimette la competenza. Un secondo genere di
indirizzo, all’espressione negativa (in qualsiasi forma) sulla possibilità di
adottare la decisione in modo conforme all’indirizzo (nell’esempio, approvare
la sanatoria), è di intervenire sull’organizzazione: lo scopo è rimuovere
dall’incarico la persona fisica individuata come “ostacolo”, per sostituirla
con chi si sa essere, invece, disposto a rispettare l’indirizzo che camuffa,
invece, veri e propri ordini operativi, per altro in materie che dovrebbero
essere totalmente sottratte alla competenza politica (quale certamente è quella
della gestione del personale).
Se da un lato i sindaci, in questo genere di fatti, non
firmano nulla, spesso limitandosi a indirizzi/ordini verbali, più o meno
pressanti, ma ad atti formali neutri, la sottoscrizione è di pertinenza del
subentrante, che adotta gli atti “graditi”, e di chi firma anche il
trasferimento ad altro incarico o l’avocazione nei riguardi del dipendente “riottoso”:
atti motivati da un disegno complessivo di abuso, in ogni caso non sorretti dal
perseguimenti di interessi generali, ma solo da fini egoistici: il compiacere,
il fare carriera, il danneggiare il funzionario “non allineato”. Fini
abbracciati senza alcuna costrizione o concussione, senza alcuno scambio almeno
immediato di utilità, privi di un patto concordato.
Il tutto, per altro, agevolato dalla violazione costante e
continua, sulla quale non c’è modo di intervenire, del precetto fondamentale
dell’obbligo di motivare i provvedimenti, garanzia di trasparenza e tutela che,
ovviamente, viene tradita in particolare in presenza di decisioni, le
tantissime decisioni, adottate per perpetrare i piccoli grandi abusi all’ordine
del giorno in ogni comune.
E per questi atti, spesso immotivati o dalle motivazioni
imperscrutabili, di pura accondiscendenza, remissività e piaggeria, si può star
certi: non vi è nessuna “paura della firma”. Non vi era prima della riforma del
2020, si è quasi del tutto azzerata dopo la riforma, sarà totalmente nell’oblio
dopo l’abrogazione definitiva dell’abuso d’ufficio, che, anzi, rafforzerà e
estenderà ancor più queste mille e mille modalità travisate di amministrare,
nella garanzia che i presunti strumenti “alternativi” di tutela non possono
aver alcuna presa: non quelli penali, perché estranei a fattispecie come quelle
esemplificate; non quelli amministrativi, poiché la gran parte degli abusi
d’ufficio sono questioni di merito, non di legittimità degli atti e, comunque,
i costi dell’azione al Tar sono elevatissimi; non quelli contabili, poiché
l’abuso d’ufficio difficilmente coincide con una gestione dannosa; non quelli
civili, in particolare perché l’eventuale tutelabilità di posizioni di diritto
soggettivo in ogni caso giungerebbe con tempi del tutto inadeguati.
L’ordinamento, quindi, tollererebbe il permanere in servizio
senza conseguenze di chi agisce inquinando il perseguimento dell’interesse
pubblico con la ricerca di fini egoistici contrapposti: gli strumenti della
normativa anticorruzione previsti dalla legge 190/2012 e dalle varie
sovrastrutture, come i piani di prevenzione, non servirebbero a nulla. Non
sono, in effetti, mai serviti a nulla e, comunque, l’eliminazione dell’abuso
d’ufficio renderebbe oltremodo facile la rimozione dell’eventuale responsabile
della prevenzione della corruzione “troppo petulante”, con qualcuno più attento
alla “voce del potere”.
E il cittadino? In tutto questo, rimane sempre più esposto
senza rimedi ad abusi di varia natura, come i promessi sposi, vittime del
“questo matrimonio non s’ha da fare” ed impossibilitati a trovare, tra le tante
gride manipolate da azzeccagarbugli che agiscono con condiscendenza e piaggeria
nei confronti del potere, il rimedio all’azione illecita e odiosa subita.
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