L’abuso d’ufficio è stato “finalmente” abolito. E’ lecito attendersi
che ciò cambierà in meglio qualcosa nella pubblica amministrazione?
Solo chi possa davvero pensare che i problemi della PA siano
legati alla fantomatica “paura della firma” può davvero ritenere utile l’abolizione
di questo reato.
Se la “paura della firma” davvero esista, a scatenarla sono
ulteriori e ben altri spauracchi: la responsabilità erariale e i molti altri
reati contro la pubblica amministrazione, che, eliminato l’abuso d’ufficio,
saranno presi in considerazione in maniera più ampia e pervasiva dai PM.
A ben vedere l’abolizione del reato di abuso d’ufficio
risulta di nessun interesse per chi di firmare qualsiasi cosa, anche appunto
comportante il compimento di reati, non ha mai avuto nessuna paura, anche
sapendo che in tal modo spesso si traccia la strada per la carriera.
Chi, invece, sia condizionato dalla “paura della firma”, come
detto prima, di ragioni per non ritenersi comunque tranquillizzato ne continua
ad avere moltissime.
Il giovamento vero, dunque, è soprattutto per chi fa da “spingitore”
delle firme altrui, potendo contare di far passare i timorati della firma alla
condizione di aver paura non di firmare, bensì di non firmare, pena carriera
stroncata e altre conseguenze.
Seguiamo il filo rosso, immaginando un funzionario di uno
tra le migliaia di comuni italiani, chiamato a dirigere una struttura
amministrativa dell’ente.
Si deve sapere che le riforme degli anni ’90 hanno
sapientemente introdotto uno spoil system talvolta conclamato e aperto, come
quello per i segretari comunali, talaltra sotto traccia. E’, appunti, il caso
dei funzionari chiamati alla direzione di strutture locali, oggi destinatari di
incarichi di Elevata Qualificazione, un tempo di Posizione Organizzativa.
Tali incarichi sono attribuiti a tempo determinato e,
quindi, gratificanti (fino a un certo punto: la retribuzione connessa non è
certo principesca), ma precari.
Adesso guardiamo ad alcune competenze che la normativa
accolla a questi funzionari: per esempio, assumere, attribuire incarichi di
consulenza, assegnare appalti.
Il codice dei contratti pubblici, recentemente riformato dal
d.lgs 36/2023, ha introdotto – molto inopportunamente data la genericità della
scrittura della norma – il principio del “risultato”: più che alla forma,
sembrerebbe, occorre badare alla sostanza. E lo stesso codice regola anche il
principio della “fiducia” nell’efficienza e probità dei funzionari. Tale è la fiducia
che la norma riconosce ai funzionari, che in pratica obbliga le amministrazioni
a stipulare polizze assicurative dei rischi del personale…
Chiudiamo la stesura del filo rosso evidenziando quel che
quotidianamente avviene nelle amministrazioni locali di ogni parte d’Italia: il
“risultato” è da molti amministratori inteso come attribuire l’incarico a quella
specifica persona, far vincere il concorso a quel preciso candidato, assegnare
il contributo a quella identificata associazione, dare l’appalto a quel
particolare imprenditore, uno perché amico o amico di amici, l’altro perché parente
del segretario provinciale del partito, l’altro ancora perché è amministratore
delegato di quell’influente azienda pubblica partecipata, l’altro perché indicato
dal partito di maggioranza.
Da sempre nelle amministrazioni si incontra l’estrema difficoltà
ad applicare le regole costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità resistendo
alle pressioni, per lasciar capire che l’interesse pubblico non coincide con quello
privato a trasformare in privilegi decisioni che debbono perseguire l’interesse
di tutti, indirizzandole, quindi, non agli “amici” ma a chi risulti meritevole in
applicazione di regole tecniche ed oggettive, anche discrezionali.
Ma, se il tuo incarico è precario; se chi te lo ha assegnato
ritiene che il “risultato” al quale devi giungere è quell’appalto per quel
preciso imprenditore; se ti hanno allo scopo coperto con un’assicurazione
contro i rischi; se ti sottolineano che la “firma” sull’incarico non costituisce
reato di abuso di ufficio; se ti evidenziano che la tua perplessità ad adottare
un atto che comunque appaia non tecnicamente corretto e tale da ledere la
posizione di terzi oltre che l’interesse pubblico si sostanzi, visto che non è
nemmeno reato, in un boicottaggio, una inefficienza, una paurosità e ti
sventolino la revoca dell’incarico o azioni disciplinari o altri metodi simili.
Se tutto questo avviene, come affermato, dalla “paura della firma”, che può
avere solo chi sia cosciente che la firma si apponga ad un atto non proprio
legittimo e corretto, si trasformerà nella paura di non firmare, per non incorrere
in conseguenze su carriera e stipendio.
Il tutto, grazie all’eliminazione dell’abuso d’ufficio. Per
altro, un reato che su circa 5.000 azioni penali attivate porta a poche
centinaia di condanne e a moltissime archiviazioni.
Strano che questo dato statistico sia utilizzato da molti
per dimostrare l’opportunità dell’abolizione del reato. Sono quelli stessi, o
gran parte di essi, che invocano la riforma della magistratura e la separazione
delle carriere, per evitare che il magistrato giudicante sia condizionato dal
PM e si appiattisca sull’azione di questo, anche per assecondare la celebrità
mediatica. Ma, proprio le statistiche sul reato di abuso di ufficio dimostrano
che Gip, Gup e giudici siano ben capaci di autonomia di giudizio e indipendenza
e alterità rispetto ai PM, insomma che non esiste, fortunatamente, alcuna
tirannia del PM e che l’attivazione di un’indagine non comporta alcuna
automatica condanna.
Il tutto non porta che verso una sola direzione: il reato è
stato abolito per rendere più facile la vita a chi del reato stesso, quando era
previsto, se ne interessava, e renderla più difficile a chi cerca di perseguire
interesse pubblico, imparzialità ed efficienza, a prescindere delle sanzioni
penali, che generalmente scattano proprio quando si adottino decisioni in
spregio dell’interesse pubblico, dell’imparzialità e dell’efficienza.
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