sabato 5 aprile 2014
#Senato delle autonomie solo di nome #riforme
Il dibattito apertosi per commentare la proposta di riforma della Costituzione avanzata dal Governo Renzi si incentra molto sulla riforma (anch’essa, come quella delle province, spacciata per abolizione) del Senato.
Al netto dei problemi concernenti il potenziamento indiretto del Governo, a scapito del potere legislativo, derivante dall’impianto proposto, salta all’evidenza un aspetto: il Senato viene rinominato “Senato delle autonomie” e composto in relazione a questo suo ruolo.
Ma, ad un più preciso esame, risulta davvero complicato non prendere atto che risulti una “camera alta” delle autonomie solo di nome, ma poco, pochissimo nella sostanza.
Si sente ripetutamente dire e continuativamente si legge che la riforma del Senato proposta ha il pregio di creare una camera parlamentare che possa essere la sede di armonizzazione e composizione dei conflitti di competenza tra Stato e regioni, in modo da coordinare l’indirizzo legislativo ed amministrativo degli enti che costituiscono la Repubblica.
Tuttavia, leggendo il testo del disegno di legge costituzionale, questo intento non risulta evincibile da alcuna parte.
Perché il ruolo di “Senato delle autonomie” non sia ridotto ad una mera enunciazione del nome dell’assemblea ed alla sua composizione, occorrerebbe un elemento fondamentale: la determinazione di una sua specifica competenza in materia di autonomie.
Il disegno di legge intende eliminare il bicameralismo perfetto. Il modo principale per giungere a questo risultato è modificare le competenze delle due camere, specializzando quella “alta” in alcuni ambiti e materie particolari, differenziati. Un Senato delle autonomie, allora, dovrebbe risultare tale, principalmente perché competente a curarsi di aspetti concernenti le autonomie. Per esempio, l’armonizzazione della normativa regionale, la risoluzione in sede politica di possibili conflitti di competenza, l’esercizio di competenze connesse proprio ad alcuni aspetti dell’ordinamento regionale e locale. Invece, niente di tutto questo.
C’è da sottolineare un aspetto davvero eclatante, del quale pochi, tuttavia, si sono accorti: si introduce un Senato delle autonomie, enfatizzando la portata delle autonomie stesse, proprio con quella medesima riforma che mira (qui, in maniera totalmente condivisibile) a ridurre in maniera drastica e recisa esattamente le funzioni legislative e normative delle regioni e degli altri enti territoriali.
E’ una contraddizione in termini evidente. Il Senato delle autonomie avrebbe un reale senso, se le autonomie fossero dotate di poteri legislativi, di impulso e rappresentatività democratica di un certo rilievo.
Forse, allora, il Senato delle autonomie potrebbe giustificarsi maggiormente, per paradosso, se non venisse modificato l’attuale assetto del Titolo V della Costituzione.
Non si deve dimenticare che l’esigenza di uno strumento di “compensazione” di conflitti e istanze tra Stato e regioni è stato causato esattamente dall’errore madornale commesso con la legge costituzionale 3/2001, da cui derivò l’attuale Titolo V: l’aver ripartito la potestà legislativa tra Stato e regioni in modo confuso e caotico, tale da consentire incertezze, sovrapposizioni, contrasti. Il tutto, per aver “limitato” la potestà legislativa dello Stato ad un elenco ristretto di materie (per altro non tassativo e completato da materie “trasversali” di matrice giurisprudenziali, sì da aumentare le incertezze ed i conflitti), incrementando a dismisura quella legislativa regionale, addirittura connotata come generale e residuale per tutte le materie non attribuite alla potestà esclusiva dello Stato o concorrente regioni-Stato.
In un simile quadro una camera in grado di prevenire e risolvere i conflitti di competenza avrebbe una sua evidente utilità.
Il disegno di legge di riforma della Costituzione, però, rivede totalmente l’assetto della potestà legislativa. Si commette l’errore di lasciare ancora alle regioni la potestà generale e residuale, invece di riattribuirla, come logica vorrebbe, allo Stato, per lasciare alle regioni medesime un’enumerata e precisa quantità di competenze legislative. Tuttavia, nonostante questo comunque rilevante difetto, la riforma corregge decisamente il tiro e riattribuisce allo Stato moltissime delle potestà legislative oggi ascritte alla potestà regionale di tipo concorrente. Riducendo in modo molto forte ed estremo le competenze regionali, non solo normative, ma anche regolamentari, indicando una chiara subordinazione dei regolamenti di regioni (ed enti locali) alla normativa statale.
La riforma della Costituzione, di fatto, dunque contiene proprio nel Titolo V la soluzione al problema della composizione delle istanze conflittuali Stato-autonomie.
Non a caso, nella disciplina delle competenze del Senato delle autonomie non vi è il minimo cenno a questa funzione.
L’unico rilievo del Senato delle autonomie nelle materie attinenti appunto le autonomie si evince dall’articolo 70, comma 4, della Costituzione, come verrebbe novellato dalla riforma. Infatti, questo testo attribuisce un apparente particolare rilievo al Senato nelle materie:
a) concernenti il sistema di elezione dei senatori;
b) rientranti nella potestà legislativa concorrente delle regioni;
c) rientranti nell’ordinamento degli enti locali;
d) riguardanti il governo del territorio e il sistema della protezione civile;
e) il coordinamento tra Stato e regioni per le materie dell’immigrazione nonché dell’ordine pubblico e sicurezza e della polizia amministrativa locale;
f) l’autonomia finanziaria e le regole di coordinamento della finanza pubblica di cui all’articolo 119;
g) i poteri sostitutivi dello Stato nei confronti delle regioni;
h) il sistema di elezione delle regioni.
Ma, a meglio guardare, tale rilievo è sostanzialmente inesistente. Infatti, nelle materie suddette il Senato non dispone di una sua particolare competenza, come avverrebbe in un sistema bicamerale realmente differenziato a camere “specializzate”. Su tali materie la Camera mantiene totalmente la propria competenza a legiferare. Il ruolo del Senato si risolve solo nella possibilità di presentare proposte di modificazione alle leggi della Camera (per altro comune a quasi tutte le altre materie legislative) e nella circostanza che la Canera, in questo caso, per non conformarsi alle proposte del Senato deve pronunciarsi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Davvero poco, per considerare il Senato davvero espressione delle autonomie.
Il “Senato delle autonomie” dunque appare essere poco più di una suggestione, un lisciare il pelo ancora una volta per il verso di un mai sopito “federalismo all’italiana”, che tante disfunzioni fin qui ha cagionato al Paese.
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